Libia a rischio fondamentalismo islamico Cronache e analisi di Carlo Panella, Fiamma Nirenstein, Giulio Meotti, André Glucksmann, Benny Morris, Bill Kristol, Christian Rocca
Testata:Libero - Il Foglio - La Stampa - Il Sole 24 Ore Autore: Carlo Panella - Benny Morris - Fiamma Nirenstein - Giulio Meotti - André Glucksmann - Maurizio Molinari - Amy Rosenthal - Christian Rocca Titolo: «Sotto la piazza, l’abisso? Sguardi preoccupati di esperti davanti al vuoto lasciato dai rais - La sindrome della Somalia. Due Stati, guerra tra le tribù - Come si comporta un presidente - Tre scimmiette nel deserto»
Riportiamo da LIBERO di oggi, 24/02/2011, a pag. 1-6, la cronaca di Carlo Panella dal titolo " Il terrore dopo il raìs Al Qaeda si è già presa mezza Libia ". Dal FOGLIO di oggi, a pag. II, l'articolo di Benn Morris dal titolo " Il rovescio della rivolta ", a pag. I, l'articolo dal titolo " Sotto la piazza, l’abisso? Sguardi preoccupati di esperti davanti al vuoto lasciato dai rais ", con i commenti di Fiamma Nirenstein, Giulio Meotti, André Glucksmann, a pag. 1-4, l'articolo di Amy Rosenthal dal titolo " Come si comporta un presidente ". Dalla STAMPA, a pag. 6, l'articolo di Maurizio Molinari dal titolo " La sindrome della Somalia. Due Stati, guerra tra le tribù ". Dal SOLE 24 ORE, a pag. 19, l'articolo di Christian Rocca dal titolo " Tre scimmiette nel deserto ". Ecco i pezzi:
LIBERO - Carlo Panella : " Il terrore dopo il raìs Al Qaeda si è già presa mezza Libia "
Carlo Panella
Oltre e dopo l’enorme numero delle vittime che la controffensiva ordinata da Muammar Gheddafi sta mietendo in Libia, la preoccupazione più grande per l’Occidente sull’evoluzione della crisi libica verte tutta sulle caratteristiche delle forze d’opposizione. Non è infatti per nulla escluso che - oltre a movimenti islamisti, molto radicati in Cirenaica - in realtà, sia in atto una lotta all’ultimo sangue, una vera e propria guerra civile tra componenti dello stesso regime. Sul fronte islamista si attende conferma della notizia data dal vice ministro, Khaled Khaim, secondo cui a Derna (capitale di una provincia) è stato fondato un Emirato islamico, il cui leader sarebbe Abdelkarim al Hasadi, un terrorista di al Qaida, già detenuto nel carcere di Guantanamo che godrebbe dell’ap - poggio di un altro membro di al Qaida, Kheirallah Baraassi, che opera, pare con successo, ad Al Baida (teatro di una vera e propria battaglia nei giorni scorsi). Questo Emirato Islamico disporrebbe di una stazione radio in freuqenze FM, avrebbe iniziato a imporre il burqa e a giustiziare coloro che si rifiutano di collaborare. Ma, oltre alla presa degli islamisti su alcune città (in realtà marginali, per ora) quello che più preoccupa gli analisti è il prolungato silenzio di Abdesalam Jallud, che fu per ben 24 anni, dal 1969 sino al 1993, quando fu bruscamente emarginato e ridotto al silenzio, il potente braccio destro di Gheddafi, suo complice nelle più efferate imprese (appoggio al terrorismo incluso). Jallud è infatti il principale esponente politico della grande tribù dei Maghariba che, alleata con le tribù dei Warfalla e dei Zintan si è schierata contro Gheddafi, tanto che Akram al-Warfalla, leader dell’omo - nimo clan ha chiesto pubblicamente due giorni fa al colonnello di «lasciare il Paese ». La vendetta del braccio destro Anche se per ora resta solo un’ipotesi, non si può escludere, quindi, che una eventuale sconfitta di Gheddafi - che al momento pare riesca a controllare solo la pur strategica Tripoli - lasci il posto a un nuovo assetto che veda Jallud in posizione di leader, alla guida delle tribù oggi ribelli. Uno scenario inquietante, perché Jallud rappresenta il volto peggiore del regime libico, è autoritario, intransigente, fiero avversario dell’Occidente e nemico mortale di Israele. Resta infine pieno di interrogativi il quadro dei conflitto - evidente negli ultimi giorni - tra gli stessi figli di Gheddafi. I due poli della famiglia sono rappresentati da Mutassim, 36 anni, consigliere per la Sicurezza Nazionale, e da Khamis, comandante delle Forze di Sicurezza, che dirigono con ferocia le repressione (Khamis avrebbe ucciso personalmente ieri Saed Rashed capo dei Mghariba, assieme ai suoi figli). I due, sono però avversati dal fratello “riformista” Seif al Islam, di 38 anni che propone da mesi di aprire una fase di riforme del regime (a cui è però assolutamente fedele, come ha dimostrato nel suo recente intervento televisivo). La figlia Ayesha respinta a Malta Discorso a parte riguarda, un altro figlio, Saadi, di cui si sa poco più del fatto che fa il calciatore (anche in Italia), che è spesso oggetto di gossip, così come della sorella Ayesha, che secondo fonti non confermate sarebbe stata respinta da Malta, dove avrebbe cercato rifugio. È evidente che sinora Gheddafi ha optato per l’appoggio pieno alla repressione più spietata messa in atto dai figli Khamis e Mutassim, ma non è escluso che, alla fine, se non sarà travolto e obbligato alla fuga, tenti una mediazione con le tribù ribelli - e quindi con lo stesso Jallud - mettendo in campo una mediazione affidata a Seif al Islam.
Il FOGLIO - Benny Morris : " Il rovescio della rivolta "
Benny Morris
Fare previsioni è sempre rischioso o addirittura sciocco. Ma io sono pressoché convinto che, quando le acque si ricalmeranno, com’è inevitabile, nel giro di uno, due o tre mesi risulterà chiaro che gli interessi occidentali e israeliani in medio oriente saranno stati minati, mentre quelli anti occidentali e anti israeliani si saranno rafforzati. Analogamente, apparirà altrettanto chiaro che i regimi che sono per natura e tradizione estremamente brutali e spietati, come quelli dell’Iran, della Siria e forse della Libia, saranno riusciti a superare la tempesta, mentre i regimi più moderati e più disposti ad accettare un processo di liberalizzazione saranno stati rovesciati oppure avranno dovuto concedere terreno e potere agli elementi anti occidentali e spesso islamisti presenti all’interno di ogni paese medio orientale. I regimi che sono già crollati o che stanno per farlo sono quelli del Libano, della Tunisia, dell’Egitto, dello Yemen, della Giordania e quelli degli stati del Golfo. La gente tende a dimenticare che il Libano, e non la Tunisia, è stato il primo paese a scaldarsi, anche se in questo caso la di Benny Morris scintilla è stata data da un’azione radicale, non da concrete violenze nelle strade. Negli stati del Golfo con un vasta popolazione sciita (come il Bahrein, dove gli sciiti rappresentano la stragrande maggioranza), l’influenza iraniana aumenterà notevolmente, e in qualche caso potrebbe addirittura diventare predominante. Rimane ancora da stabilire quali ripercussioni si avranno in Arabia Saudita, in particolare a causa della sua vasta minoranza sciita. In questi ultimi giorni non si è parlato granché del coinvolgimento iraniano nelle rivolte del Bahrein, ma sono convinto che deve essere stato piuttosto intenso. In tutti gli altri paesi (Libano, Egitto, Algeria, Tunisia, Iraq, Giordania e Yemen), l’aiuto alla guerra americana contro il terrorismo si ridurrà notevolmente o scomparirà del tutto, in quanto i nuovi regimi si inchineranno davanti alla volontà popolare e a quella dei partiti musulmani o laici anti occidentali. Il liberalismo illuminato di Obama, che incoraggia le proteste di piazza e denuncia le repressioni di regime, alla fine non servirà ad altro che ad accrescere i sentimenti anti americani in tutto il medio oriente. Le masse si infurieranno contro l’America indipendentemente da tutti i dollari che Washington destinerà a sovvenzioni d’emergenza (un esempio emblematico è il radicale anti americanismo del Pakistan, malgrado tutti gli aiuti forniti dall’America). Allo stesso modo, un gelo sempre più rigido caratterizzerà la posizione di tutto il medio oriente nei confronti di Israele. Questo, senza dubbio, non farà che rafforzare la comunque giustificata tendenza israeliana a ostacolare e rifiutare gli sforzi per pacificare i palestinesi e, rispettivamente, incoraggerà i palestinesi nella loro ostinata irremovibilità su questioni come il ritorno dei profughi e gli insediamenti. In Egitto, gli esponenti dell’opposizione stanno già richiedendo la revoca del trattato di pace firmato nel 1979 con lo stato ebraico e l’interruzione definitiva delle esportazioni di gas in Israele. A quanto pare, il gasdotto, sabotato qualche notte fa nei pressi di el Arish, nel Sinai, non è stato ancora riattivato, non si sa se per ragioni tecniche o invece politiche. Israele, e forse anche Washington, stanno silenziosamente cercando di convincere l’Egitto a ripristinare i rifornimenti. Sulla questione del trattato con Israele, il regime militare che ha preso il posto di Mubarak ha rilasciato una generica dichiarazione nella quale si diceva che l’Egitto avrebbe “rispettato i propri impegni internazionali”, ma ha evitato di menzionare esplicitamente quello con Israele. Ma sappiamo che, probabilmente, alcuni generali si oppongono al trattato, e senza dubbio una sua esplicita conferma avrebbe irritato le masse egiziane, cosa che il regime militare intende assolutamente evitare. Le ultime notizie giunte dal Cairo dicono che il regime militare ha deciso di togliere il blocco sulla Striscia di Gaza, che integrava l’assedio israeliano del territorio controllato da Hamas fin dal 2006-2007. A cominciare da domani, centinaia di abitanti di Gaza attraverseranno il confine con il Sinai; non si sa se gli egiziani intendano controllare il flusso di armi e munizioni dirette a Gaza, come avevano fatto durante il regime di Mubarak. Le masse egiziane – esattamente come quelle di molti altri paesi arabi – sono permeate di sentimenti anti israeliani almeno in parte a causa di decenni di deliberata propaganda mediatica, e spesso anche antisemita. C’è un ampio e diffuso sostegno per Hamas, che rappresenta la branca palestinese del movimento fondamentalista egiziano dei Fratelli musulmani. In Egitto, anche quando la pace era la linea politica ufficiale, i portavoce del governo spesso denunciavano pubblicamente Israele (talvolta a ragione) e si offendevano profondamente quando gli israeliani criticavano il Cairo. Non c’è mai stata una concreta simmetria. Ma, cosa ancora più importante, il governo egiziano – non ottemperando agli impegni del trattato – ha permesso ai media di demonizzare senza alcun freno lo stato ebraico, mentre qualsiasi critica interna nei suoi stessi confronti era severamente repressa. Israele è stato il solo ambito in cui, sotto i dittatori Nasser, Sadat e Mubarak, è stata concessa agli egiziani ogni “libertà”. Se ne ha avuto un esempio illuminante appena poche settimane fa, immediatamente prima della rivolta di gennaio, quando i media egiziani hanno accusato il Mossad di avere organizzato l’attacco di un branco di squali contro i turisti di Sharm el Sheikh, allo scopo di danneggiare l’industria turistica egiziana. Per anni e anni i giornali egiziani hanno regolarmente accusato Israele di usare gas tossici contro la popolazione palestinese e di inquinare le riserve d’acqua egiziane. Il regime ha costantemente limitato anche il turismo egiziano in Israele, forse per paura che gli egiziani stessi potessero tornare indietro con un’immagine più equilibrata e positiva dello stato ebraico. Temo che questo tipo di propaganda anti israeliana e forse anche anti americana diventerà una sorta di routine automatica e obbligatoria. Tanto che potremmo addirittura abituarci all’idea di vedere gli incrociatori iraniani attraversare trionfalmente il Canale di Suez per dare incoraggiamento agli islamisti di tutto il mondo arabo.
Il FOGLIO - " Sotto la piazza, l’abisso? Sguardi preoccupati di esperti davanti al vuoto lasciato dai rais "
Fiamma Nirenstein
Se le rivoluzioni gigantesche e sconosciute – che fanno dei paesi islamici una promessa e una minaccia – falliranno, sarà perché i giovani in piazza (chiunque essi siano e comunque la pensino, oggi muoiono per la libertà) avranno dovuto pagare un triste tributo agli stessi dittatori che hanno cacciato via. L’ins i s t e n t e domanda che poniamo a noi stessi, e che molti smussano invocando i nuovi idoli dei social network, è quanto la destituzione dei tiranni arabi possa condurre a una società moderna, democratica, insomma a noi non aliena e nemica. Le società musulmane possono farlo: i giovani ottomani negli anni fra il 1830 e il 1850, all’inizio con riluttanza, poi con slancio, impararono almeno una lingua europea, viaggiarono, divennero i portabandiera del desiderio di dare al loro paese, da patrioti liberali, un governo istituzionale e parlamentare nel quale vedevano il talismano del successo europeo. Anwar Sadat, nel secolo successivo, ha potuto appoggiare la sua pace con Israele a una generazione di giganti intellettuali come Hussein Fawzi, Yusuf Idris e soprattutto Tawfik al Hakim, che osò scrivere: “I sionisti che si insediarono in Palestina tornavano alla patria da loro abitata nel passato”. Ma questo panorama è venuto da tempo a mancare. L’ultimo di questi grandi è stato Mahfuz. Oggi, non preoccupano soltanto i Fratelli musulmani, di cui moltissimo si parla, sperando che siano meno cattivi, ma soprattutto la mente dei giovani in piazza. Ne spiega Fuad Ajami quando parla del “Palazzo dei sogni degli arabi”. Esso è stato costruito negli ultimi trent’anni dai dittatori. La delusione che nasce nel mezzo degli anni Ottanta, quando la crisi petrolifera fece una trappola infernale dell’urbanizzazione araba. La folla prodotta come da una macchina impazzita dal continuo boom demografico doveva essere domata da un indottrinamento micidiale. Mubarak, Ben Ali e tutta la compagnia dovevano battere una frustrazione totale, sociale, sessuale, economica, dovevano occultare la loro corruzione e la loro violenza. Oggi è di questo che dobbiamo avere paura: i giovani che desiderano la libertà (con le dovute e molte eccezioni che conosciamo, avendo passato molto tempo con i dissidenti di ogni paese) hanno la testa piena di teorie della cospirazione. Gli arabi sono vittime perseguitate dai sionisti figli di cani e scimmie, l’11 settembre è opera degli ebrei, gli americani sono imperialisti assassini e i terroristi sono invece gioiosi martiri. Per molti di loro, l’islam è la risposta, ma più di questo il rischio attuale è nella confusione mitomane di cui si trova ovunque traccia. Un paese come l’Egitto, in pace con Israele, fu capace di pubblicare sul giornale di stato al Ahram la caricatura di Peres in divisa nazista durante la sua visita ufficiale. Il conflitto ideologico è in realtà uno specchio fedele del rapporto degli arabi con la modernità, vissuta come un velenoso frutto dell’occidente. Se non cessa, non ci sarà democrazia. www.fiammanirenstein.com
Giulio Meotti
Le proteste arabe nascono dal malcontento verso regimi che hanno creato nepotismo, corruzione, stagnazione, repressione. Ma in quelle che Bernard Lewis ha definito “rivoluzioni popolari”, non democratiche, chi cercherà di approfittarne sarà l’islamismo, che vuole la leadership del mondo arabo dopo mezzo secolo di nazionalismo laicista e di patti con l’occidente. E’ un ritorno al 1979: crollano i fautori della pace con Israele e dell’alleanza strategica con gli Stati Uniti; società governate dalla sharia vogliono “democrazia” in chiave plebiscitaria (“una testa, un voto, una volta sola”); i cristiani vanno in esilio; Hamas e Hezbollah si drogano di missili e fanatismo; la Turchia è sempre più persa all’occidente; l’Iran torna nel Meditarreneo per la prima volta dalla caduta dei Pahlevi; l’America è debole e l’islam politico ovunque in ascesa. Manca l’annuncio di Teheran che ha sviluppato la bomba atomica. Nessuno conosce l’esito delle proteste arabe, ma i giornalisti hanno occultato il volto oscuro della rivolta accanto a Facebook e ai foulard dei “giovani”: l’attacco alla sinagoga di Tunisi, l’uccisione ieri di un prete copto nel sud dell’Egitto, la paura delle donne senza velo e dei cristiani, le caricature di Mubarak con la kippah, il grido “ebrea ebrea” contro Lara Logan. Al Cairo è caduto l’ultimo argine per l’ascesa dei Fratelli musulmani, che da sessant’anni inseguono il sogno califfale. Se dovessero prendere il potere vedremmo i cristiani relegati al rango di minoranza sottomessa. Niente più Miss Egitto. Niente più donne senza velo in tv. Niente più tolleranza per l’adulterio e gli alcolici. Niente più “mescolanza dei sessi”. Niente più muro contro Hamas. Mubarak aveva tanti torti e la sua acqua era imbevibile, ma “il faraone” aveva collocato il paese nell’orbita occidentale, si era schierato contro Saddam e Khomeini, aveva siglato un patto di pace con Gerusalemme, era scampato a sei tentativi di assassinio ed era stato l’unico leader arabo, assieme al giordano Hussein, ai funerali di Rabin. Non è poco in medio oriente. Oggi al Cairo l’imam Qaradawi, che sta all’islamismo come Himmler stava all’ideologia nazionalsocialista e che ha giustificato l’uccisione dei feti israeliani, arringa milioni di egiziani al grido di “libereremo Gerusalemme, milioni di martiri”. Cosa accadrà alle donne di Tunisia? L’ex presidente Bourghiba aveva dato loro diritti senza uguali nel mondo arabo. Che ne sarà di quel poco di modernizzazione e laicità? In Cisgiordania la vivacità economica non è garanzia di pace con gli ebrei e a Gaza governa un regime tenebroso. E Hamas potrebbe puntare presto i missili sull’aeroporto di Tel Aviv. Beirut è ancora una liberazione per i giovani arabi che vogliono godere di un po’ di luce, passeggiare senza chador e tenersi per mano. Sarà ancora così domani? E cosa accadrà a Israele e alla pace siglata col sangue di Sadat? La tenaglia si stringe, la rivoluzione va avanti e le nostre chattering classes giubilano come prefiche per la “piazza araba”. Ma spesso dopo la Rivoluzione viene il Terrore.
André Glucksmann
Più che un senso di vergogna retrospettiva, André Glucksmann prova sconcerto. “Non sono mai stato favorevole alle genuflessioni, ma la vergogna in questo caso non riguarda la visita di Gheddafi a Parigi, la tenda all’Eliseo, ma la vendita di armi a favore del dispotismo, la compiacenza l’assenza di sostengno ai difensori dei diritti dell’uomo (vedi l’atteggiamento nei confronti della Russia di Putin, che ha potuto eliminare impunemente 200 mila ceceni, e comprare dalla Francia la più grossa partita di navi da guerra dai tempi della Guerra fredda). E questa riserva vale non solo per la Libia, ma anche per la Tunisia, per l’Egitto, per la Russia e per la Cina. Noi tutti, insomma, siamo in parte responsabili di quanto accade: la Francia, l’Italia, la Russia, tutti i paesi che hanno venduto le armi che adesso rischiano di venir utilizzate contro i civili da parte di Gheddafi, che vuole un bagno di sangue”. “Non è più l’ora delle risoluzioni. Sarebbe bene intervenire non solo controllando i beni della famiglia Gheddafi, o proibendo loro di esiliarsi in Europa. L’unico rimedio possibile, quando un dittatore uccide la sua popolazione, è il rimedio Reagan. Perché l’unica volta in cui Gheddafi si calmò fu nel 1986, quando venne bombardato. Adesso tutti, al Consiglio di sicurezza dell’Onu, dai russi ai cinesi, sono d’accordo nel dire che quelli di Gheddafi sono crimini di guerra o crimini contro l’umanità. Perciò, se ci domandiamo che cosa fare, l’unica risposta, secondo me, è ricorrere al rimedio Reagan: ovvero bombardare”. “Forse ci sono mezzi più sofisticati. Tutti noi paghiamo le tasse per finanziare i servizi segreti. Ma un pazzo va fermato. Se possibile con una pallottola in testa, soluzione che sarebbe meno dolorosa, per la popolazione, di un bombardamento mirato. Ci sono fior di agenti addetti a questo tipo di lavoro”. Ma il fatto che manchi, in Libia, un partito di opposizione, il fatto che non ci sia un vero contropotere, né dell’esercito, né della magistratura, eliminare il tiranno non rischia di complicare le cose, di provocare una guerra civile ancora di più? “Non mi pare il caso. Metà della Libia, e cioè la parte sul confine egiziano, non conosce massacri. Gli unici scontri avvengono nella zona controllata da Gheddafi. Non dico che nel resto del paese sia il paradiso, ma ci sono tribù che si sono rifiutate di sostenere il rais. E io credo non sia una buona scusa invocare un caos peggiore quando c’è già un despota che bombarda la sua popolazione. Insisto, le potenze che hanno venduto armi belliche a Gheddafi fra le quali la Francia, sono già responsabili di tutto ciò che può succedere. Per questo, dobbiamo fermarlo”.
La STAMPA - Maurizio Molinari : " La sindrome della Somalia. Due Stati, guerra tra le tribù "
Maurizio Molinari
Con Tripoli ancora in mano a Muammar Gheddafi e la Cirenaica in preda alla rivolta si apre lo scenario di una Libia spaccata in due, in balia del caos, dove ad essere decisivi potrebbero essere le truppe scelte del colonnello e le tribù del deserto.
«La strategia di Gheddafi può essere di puntare al tanto peggio tanto meglio», spiega Robert Baer, ex agente della Cia in Medio Oriente, citando fonti locali secondo cui il colonnello potrebbe «sabotare pozzi e oleodotti» per precipitare la Libia in uno scenario somalo di lotta fra clan, nella convinzione che nel lungo termine potrebbe essere lui a prevalere avendo a disposizione più soldi ed armi di ogni rivale. Sarebbe stata proprio tale strategia a spingere Gheddafi ad ordinare la liberazione di centinaia di militanti jihadisti dalle carceri, per aumentare confusione e violenza.
Le tribù «Nel breve termine le prospettive per la Libia sono molto cupe - concorda Robert Danin, arabista del Council on Foreign Relations di New York - perché non è chiaro se riuscirà a sopravvivere come nazione unita oppure se a prendere il sopravvento sarà l’identità di un Paese decentralizzato, nel quale l’identità collettiva è molto debole mentre a prevalere sono le fedeltà a tribù e clan con le radici nei secoli passati». Da qui la previsione di Imad ElAnis, docente di relazioni internazionali alla Nottingham Trent University britannica, che lo scenario dipende da «chi si dimostrerà più forte sul campo» fra «i 15 mila fedelissimi della guardia rivoluzionaria del colonnello, sostenuti dai mercenari, e quelle tribù che si sono schierate dalla parte delle proteste» soprattutto nella Cirenaica, tradizionale bastione del dissenso contro il regime di Gheddafi.
Ibrahim Sharqieh, vicedirettore del centro di Doha della Brookings Institution, aggiunge: «I mercenari in realtà non rafforzano ma indeboliscono il colonnello perché gli alienano il sostegno dei clan locali» e dunque in ultima analisi a fare la differenza sarà la capacità di Khamis, figlio di Gheddafi al comando di cinquemila truppe scelte, di decimare gli avversari oppure la mobilitazione delle tribù del deserto, che furono già protagoniste della sanguinosa rivolta contro l’occupazione coloniale italiana.
Chi farà il golpe? Da qui l’importanza di addentrarsi nel mosaico delle oltre 140 tribù alle quale appartengono l’85 per cento dei libici. Per Amal al-Obeidi, storico dell’Università di Garyounis a Bengasi, i due maggiori gruppi sono i Beni Salim in Cirenaica e i Beni Hilal in Tripolitania ma fra le tribù «più forti e potenti» c’è quella di Magariha a cui appartiene Abdessalam Jallud, l’ex primo ministro che il colonnello ebbe al fianco per quasi dieci anni prima di defenestrarlo, accusandolo di complottare contro di lui.
L’accademico egiziano Faraj Abdulaziz Najam, specializzato in storia libica, spiega al «Asharq Al-Awsat» che «la tribù Magariha da una parte è grata a Gheddafi che ha ottenuto dalla Gran Bretagna la liberazione di Baset al-Megrahi» già imprigionato per il coinvolgimento nell’attentato di Lockerbie «ma dall’altra non ha dimenticato la defenestrazione di Jallud» ancora vissuta come una grave offesa. Poiché i Magariha sono stimati in quasi un milione di anime, sono bene armati ed economicamente forti «potrebbero essere loro a tentare un golpe in Tripolitania» prevede l’accademico egiziano.
La «no fly zone» A fare la differenza potrebbero essere le decisioni di altre tribù «combattenti»: gli Al Mujabra che esprimono il capo di stato maggiore Abu Bark Younis Jaber, gli Zawiya che hanno minacciato sabotaggi petroliferi se la repressione continuerà e i Masrata, a cui appartengono la maggioranza degli abitanti della capitale. Nulla da stupirsi se Baer vede all’orizzonte una «Somalia affacciata sul Mediterraneo» ed è questo incubo che spiega l’attivismo con cui i diplomatici di Londra e Parigi stanno tentando di immaginare all’Onu delle formula di «interventi umanitari» per scongiurare il peggio. Una delle ipotesi è stata avanzata dal viceambasciatore libico Ibrahim Dabbashi - che ha abbandonato Gheddafi - secondo il quale l’Onu potrebbe proclamare una «no fly zone» sulla Cirenaica per proteggerla come si fece con le regioni curde e sciite dell’Iraq dopo Desert Storm, per ostacolare la repressione di Saddam.
Il FOGLIO - Amy Rosenthal : " Come si comporta un presidente "
Bill Kristol
New York. “Non sappiamo che esito avrà la primavera di rivolte in medio oriente, forse non siamo in grado nemmeno di condizionarle in modo decisivo, ma le forze della civilizzazione non sono certo sprovviste di risorse”. Lo dice al Foglio Bill Kristol, il direttore del magazine conservatore americano Weekly Standard. Kristol, da sempre sulla linea più ortodossa della dottrina repubblicana, è stato un convinto difensore della promozione della democrazia in medio oriente. Si dice “rincuorato, seppur con cautela, dall’ondata rivoluzionaria” che ha avuto inizio in Tunisia e ha poi sconfinato in Egitto, in Yemen e in Libia. “Molti di noi dicevano da tempo che era necessario scardinare il ciclo delle dittature e dell’estremismo, incluso anche quello di matrice islamica – osserva – Ora potrebbe essere accaduto quello che volevamo, anche se niente garantisce che tutto funzionerà a dovere. Detto questo, i fatti degli ultimi giorni danno a noi, e ai popoli del medio oriente, una nuova chance per rimettere a posto le cose e dare forma a un futuro migliore”. Nella risposta della Casa Bianca agli eventi della Tunisia, dell’Egitto e ora della Libia, Kristol evidenzia, per ora, una carenza preoccupante: “Manca il senso delle possibilità che si sono aperte, la determinazione a fare del nostro meglio per concretizzarle, la consapevolezza che questo può essere un punto di svolta importante per la storia del mondo”. Il direttore del Weekly Standard non capisce come sia possibile che le rivolte “non smuovano l’occidente dall’approccio del business as usual. Bisogna fare qualcosa di più dei discorsi, mettere in campo sforzi, nascosti ed espliciti, diretti e indiretti, per aiutare i più liberali. Bisogna prendere in considerazione l’uso della forza quando la forza viene usata per uccidere civili innocenti. Bisogna coinvolgere il governo americano, metterlo in azione su tutti i piani possibili con gli alleati e le organizzazioni internazionali, concentrandosi sulle sfide del presente”. “Il vecchio ordine della regione era destinato soltanto a generare un pericolo maggiore per tutti noi”, sostiene Kristol, che viene dall’esperienza di numerosi think tank, tra cui il Project for the New American Century, noto per la lettera inviata nel 1998 all’allora presidente Clinton, nella quale si chiedeva una posizione più dura nei confronti dell’Iraq. Le parole del direttore del Weekly Standard riprendono molti elementi della dottrina per la politica estera di George W. Bush, in particolare della sua Freedom Agenda. Nel discorso inaugurale del suo secondo mandato, Bush aveva definito così la sua visione: “La politica degli Stati Uniti è quella di sostenere lo sviluppo dei movimenti e delle istituzioni democratiche in ogni nazione e in ogni cultura, per raggiungere l’obiettivo dell’eliminazione della tirannia dal nostro mondo”. Per questo, oltre alla campagna in Iraq, l’Amministrazione Bush ha incoraggiato gli sforzi per la liberalizzazione di paesi come l’Arabia Saudita e l’Egitto, ha sostenuto il ruolo dei civili nel governo pachistano e le elezioni nei territori palestinesi, anche quando si è capito che le avrebbe vinte Hamas. Sul fatto che gli egiziani e i tunisini si siano sbarazzati da soli dei loro dittatori, secondo Kristol, “pesa certamente quello che Bush ha fatto e detto in medio oriente. Non si può dire che sia una conseguenza inevitabile della sua politica estera, che però è stata utile. Spero che l’operato del presidente Obama possa essere ancora più incisivo”. Kristol avverte che questa è un’occasione decisiva per il capo della Casa Bianca, “anche se non è proprio quella che aspettava o quella che avrebbe desiderato”. Oggi, Obama non può permettersi di restare “passivo di fronte agli eventi o di essere paralizzato dai dubbi. E’ un momento storico, non può lasciarselo sfuggire. Non soltanto perché quello che sta succedendo nel mondo arabo può rafforzare alcuni interessi degli Stati Uniti, ma perché noi crediamo che i princìpi che professiamo siano universali, non realizzabili sempre e ovunque, ma da favorire quando e dove è possibile”. Non è detto che l’esito di questo sforzo dia i risultati che l’occidente si aspetta: “E’ possibile, persino probabile, che la primavera araba del 2011 fallisca, così come è già successo con altre primavere, che non si sono mai concretamente realizzate – dice Kristol – ma gli Stati Uniti e l’Europa devono aiutarla, stando dalla parte di chi si oppone alla tirannia, anche quando la vittoria sembra improbabile. Certo, è molto difficile dire cosa si debba fare in ognuna delle nazioni coinvolte: le scelte dipendono da valutazioni complesse dei problemi che si incontrano sul campo. Se però molti analisti e commentatori dedicassero più tempo a capire cosa può essere fatto piuttosto che a escogitare analogie brillanti che sembrano spiegarci il destino degli eventi, illustrando l’inevitabile fallimento dei nostri sforzi, forse capiremmo che possiamo influire su questi movimenti più di quanto non pensiamo ancora”. L’occidente, sostiene Kristol, ha tutto da guadagnare: “In fondo, non è forse possibile che l’arrivo di nuovi paesi nel mondo della libertà finisca per ravvivare il nostro amore e la nostra comprensione della libertà?”.
Il SOLE 24 ORE - Christian Rocca : " Tre scimmiette nel deserto "
Christian Rocca
Le dichiarazioni italiane, le prese di posizione europee, le condanne delle Nazioni Unite non bastano. Mettere in guardia sul rischio del fondamentalismo islamico, nel caso il regime quarantennale di Muammar Gheddafi dovesse finalmente cadere, non serve assolutamente a nulla se, nel frattempo, a Bengasi e a Tripoli e nelle altre città libiche le milizie del Colonnello continuano a sparare ad altezza d'uomo sui manifestanti. La priorità è fermare il massacro, poi contenere gli effetti dell'inevitabile caduta del regime e, infine, aiutare il processo di ricostruzione del paese. Questo è il nostro interesse nazionale, oltre che la cosa giusta, etica e morale da fare.
Non abbiamo bisogno nemmeno di usare la tragedia libica a fini di politica interna. Creare polemicucce sui cadaveri libici per meglio assestare un colpo a Silvio Berlusconi o a Massimo D'Alema, come capita di assistere in televisione e pure in Parlamento, non è da paese serio. Se Gheddafi spara non è colpa della politica filo-araba di Giulio Andreotti o di Gianni De Michelis. La colpa è di Gheddafi e, semmai, della comunità internazionale che glielo consente. L'impresentabilità del Colonnello non è imputabile né a Romano Prodi né a Massimo D'Alema né a Silvio Berlusconi, nonostante tutti e tre abbiano mostrato grande, ammirata ed eccessiva amicizia nei confronti del "re dei re" libico.
Giulio Andreotti diceva che i paesi confinanti, purtroppo, non ce li scegliamo. Naturalmente aveva ragione. Con i vicini produttori energetici e porta d'ingresso dell'immigrazione clandestina si è costretti a trovare un punto d'incontro. L'idea di un trattato di amicizia con la Libia, anche tenendo conto dei misfatti commessi in età coloniale, non era di per sé un'enormità, come testimonia il voto come testimonia il voto bipartisan espresso dal Parlamento italiano nel 2009 (tranne piccole eccezioni). Tanto più che a cominciare dal 1999, e ancor più dal 2003, Gheddafi ha ammesso le colpe del passato, ha consegnato i programmi nucleari e ha collaborato con l'Occidente. Certamente avremmo dovuto pretendere concessioni, riforme, aperture democratiche e non solo i preziosissimi contratti per le nostre aziende, anche per renderli più sicuri, ma chiudere l'era in cui i libici sparavano sui pescherecci di Mazara del Vallo o lanciavano missili su Lampedusa non era una strada sbagliata.
Anche gli americani, peraltro, hanno riallacciato i rapporti diplomatici con la Libia, dopo i bombardamenti degli anni Ottanta. Il sindaco di New York Mike Bloomberg, giustamente, non ha concesso al dittatore libico di impiantare la sua famigerata tenda a Central Park e i cable di WikiLeaks hanno dipinto il Colonnello come un «pazzo», ma nelle stesse ore in cui Gheddafi straparlava a Roma, il segretario di Stato Hillary Clinton, «per conto del presidente Barack Obama», faceva gli auguri al popolo libico per la festa nazionale gheddafiana e auspicava il rafforzamento della partnership libico-americana. Il New York Times che ieri titolava il suo editoriale «Il macellaio libico», un anno fa ha messo la sua pagina delle opinioni a disposizione di un delirante articolo di Gheddafi che proponeva un unico Stato tra Israele e Palestina, da chiamare Isratine. Anche in America Obama è stato accusato di non aver parlato sulla crisi libica (ieri sera ha fatto la prima dichiarazione pubblica) e soprattutto di non fare niente per fermare la strage. Sarah Palin è tra le più scatenate nello strumentalizzare a fini personali la crisi di Tripoli. Come quelle nostrane, queste sono polemiche da cortile, parodia di una politica estera, intralcio agli interessi nazionali.
L'Italia è il primo partner commerciale della Libia e per questo dovrebbe esercitare un'influenza forte sulla leadership libica, invece di spiegare che non è compito dell'Europa intervenire negli affari interni del paese nordafricano. Se non ci riuscisse, come è probabile, sarebbero necessarie sanzioni economiche immediate e unilaterali di Europa e Stati Uniti, perché non si può aspettare che si muovano le pachidermiche e inefficaci Nazioni Unite (soltanto un anno fa l'Onu ha eletto la Libia nel Consiglio per la difesa dei diritti umani e, per non farsi mancare niente, tra i suoi commissari internazionali schiera quel Jean Ziegler già vincitore del Premio Gheddafi per i diritti umani). Sarebbe auspicabile instaurare anche una no-fly zone sui cieli libici per impedire all'aviazione di Gheddafi di continuare a usare gli aerei per sparare sulla folla. L'immobilismo non è più un'opzione. Le parole non bastano più. L'Italia di destra e di sinistra dovrebbe guidare l'Europa e convincere gli Stati Uniti a usare tutto il potenziale politico, diplomatico e militare a disposizione per fermare la repressione, aiutare l'opposizione ed evitare un rischio Somalia.
L'idea del ministro Franco Frattini, secondo cui non è compito dell'Europa interferire negli affari interni della Libia, non è solo miope, sbagliata e fondata sull'illusione che il regime alla fine si salverà. È anche diametralmente opposta a un'ormai consolidata politica estera italiana, condivisa dai governi di centro-sinistra (Somalia, Serbia, Albania, Libano) e di centro-destra (Iraq e Afghanistan) e incentrata sul diritto all'ingerenza democratica e sul dovere d'intervenire per fermare i massacri a pochi chilometri di distanza da casa nostra.
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