Trattare coi Fratelli Musulmani è inaccettabile, ma qualcuno lo vorrebbe Cronache e commenti di Maurizio Molinari, Gian Enrico Rusconi, Luciana Castellina, redazione del Foglio
Testata:La Stampa - Il Foglio - Il Manifesto Autore: Maurizio Molinari - Gian Enrico Rusconi - La Redazione del Foglio - Luciana Castellina - La Redazione del Foglio Titolo: «Zakaria: sì al dialogo con i radicali - La vera partita comincia solo ora - Quella cupola di manichei alla guida dei Fratelli musulmani»
Riportiamo dalla STAMPA di oggi, 08/02/2011, a pag. 10, l'articolo di Maurizio Molinari dal titolo " Zakaria: sì al dialogo con i radicali ", preceduto dal nostro commento, a pag. 1-33, l'articolo di Gian Enrico Rusconi dal titolo " La vera partita comincia solo ora ", preceduto dal nostro commento. Dal MANIFESTO, quotidiano di Rocca Cannuccia, a pag. 1-10, l'articolo di Luciana Castellina dal titolo " Il cambiamento stabile che vuole l’Occidente ", preceduto dal nostro commento. Dal FOGLIO, a pag. 3, l'articolo dal titolo " Quella cupola di manichei alla guida dei Fratelli musulmani ". Ecco i pezzi:
Il FOGLIO - " Quella cupola di manichei alla guida dei Fratelli musulmani "
Fratelli Musulmani
Roma. La chiamano “la generazione del 1965”. Al vertice dei Fratelli musulmani vi è un politburo fresco di elezione e composto da sedici membri, noto anche come “Maktab al Irshad”. Dieci di loro si definiscono “qutbisti”, cioè la corrente radicale che si rifà a uno dei padrini della Fratellanza, Sayyid Qutb, che ha presieduto alla nascita del fondamentalismo islamico. Della nuova Guida suprema, l’ex compagno di cella di Qutb Mohammed Badie, il Foglio ha scritto lo scorso 3 febbraio. “Come Badie, i nuovi leader della Fratellanza appartengono alla generazione che ha sofferto torture estreme dopo gli arresti del 1965”, commenta il settimanale The Economist. “Sono rimasti fedeli alla memoria, se non all’ideologia radicale, di Qutb, impiccato per gli scritti in cui promosse la ribellione contro i regimi ‘infedeli’”. Un’ideologia manichea: “Pensano che ci siano due partiti nel mondo, il Partito di Allah e il Partito di Satana”, dice Rifaat Saeed, leader del movimento liberale Tagammu. Molti di questi Fratelli sono stati membri della formazione paramilitare fuorilegge di Hassan al Banna. I “pragmatici” e i “riformisti”, cresciuti negli anni Settanta e Ottanta e che non hanno fatto esperienza del carcere, non hanno alcun rilievo nel politburo e rappresentano solo il quindici per cento del movimento. La maggioranza si divide fra i pii salafiti, gli ortodossi tradizionalisti e i violenti qutbisti. Strategica è stata la scelta di Badie di assegnare il compito di tenere i rapporti coi media al leader dell’ala “riformista” più blasonata dai media, il patologo Essam el Erian. Dopo la sua elezione, nel gennaio di un anno fa, Badie ha portato una schiera di ultraconservatori dentro al bureau. Professore di ingegneria civile, Mahmoud Hussein è il nuovo segretario generale. E’ stato più volte in carcere e guida la corrente “qutbista” assieme al medico Mahmoud Ezzat, il numero due del movimento che ha preso il posto di Mohamed Habib, uno dei “riformisti” usciti dal bureau. Qutbista è anche Rashad El Bayoumi, il geologo dell’Università del Cairo che è stato leader dell’ala giovanile della Fratellanza. Un altro qutbista è Gomaa Amin, lo storico ufficiale della Fratellanza che proviene dall’Università di Alessandria. Ezzat, Bayoumi e Amin hanno trascorso molti anni nelle carceri di Nasser e furono rilasciati dal suo successore, Anwar El Sadat, che tentò di ingraziarseli. Nel nuovo bureau della Fratellanza c’è Mahmoud Ghozlan, la cui piattaforma prevede che “donne e non musulmani non hanno il diritto di guidare gli stati islamici” e che l’omosessualità deve essere dichiarata fuori legge. Ultraconservatore è l’ex Guida suprema Mohammed Akef, che ha trascorso ben ventitré anni in carcere. Nel 2006 Akef annunciò di voler inviare diecimila combattenti in aiuto di Hezbollah. Ha definito l’Olocausto un “mito” e gli Stati Uniti “Satana”. E’ a favore dell’introduzione della sharia, perché “l’islam precede le dottrine e le ideologie degli uomini”. Makarim Eldery, madre di sei figli e docente di letteratura ad Al Azhar, incarna il neofemminismo islamista in un’organizzazione da sempre maschile. Poi c’è il “gruppo di Alessandria”, ultra radicali con un grande seguito popolare e nelle moschee come Abbas el Sissy, Mohamed Hussein Eissa, Mohamed Abdel Moneim e Wagdi Ghoneim. Sono gli esperti di sharia e anche alcuni ex compagni di cella di Hassan al Banna, mentre Ghoneim è stato espulso dal Regno Unito per incitamento all’odio. Fra le icone gloriose del movimento spicca ancora un nome come Saif al Banna, il figlio del fondatore martirizzato da Nasser. Il suo nome significa “Spada dell’islam” ed è stato segretario generale del sindacato degli avvocati. Ha proposto di proibire gli alcolici, “bevanda maledetta” la cui abolizione “è il primo passo verso la sharia”.
La STAMPA - Maurizio Molinari : " Zakaria: sì al dialogo con i radicali "
Nell'articolo vengono riportate le dchiarazioni di Fareed Zakaria. Ecco la posizione degli islamici 'moderati', dialogare con i fondamentalisti, con i Fratelli Musulmani. L'Egitto si trasformerà in una teocrazia di stampo iraniano con loro, ma pazienza... Ecco il pezzo:
Maurizio Molinari, Fareed Zakaria
Se i neoconservatori Sarah Palin e John McCain rimproverano alla Casa Bianca la scelta di coinvolgere i Fratelli Musulmani nella transizione egiziana, a difendere Barack Obama è Fareed Zakaria, direttore editoriale di Time e popolare volto della Cnn, che nel febbraio 2009 pubblicò su Newsweek l’articolo «Learning to Live With Radical Islam» (Impariamo a vivere con l’Islam radicale) nel quale affermava: «Dobbiamo smetterla di trattare tutti gli islamici come dei potenziali terroristi».
È proprio tale impostazione che ha portato la Casa Bianca ad approfondire la conoscenza dei Fratelli Musulmani egiziani arrivando alla conclusione che rappresentano un tassello della società che non può essere esclusa dal dopo-Mubarak. Scelta contestata da più parti: per i repubblicani Mitt Romney e John McCain rischia di «trasformare l’Egitto in un altro Iran», mentre il columnist liberal Richard Cohen sul Washington Post scrive: «Il sogno egiziano rischia di trasformarsi in un incubo». Da qui la scelta di Zakaria di difendere la strategia del dialogo con i fondamentalisti egiziani spiegando, sul Washington Post, che «il vero rischio per l’Egitto non è diventare un altro Iran ma un nuovo Pakistan» se la transizione dovesse generare un regime autocratico gestito dai militari nel quale le elezioni si svolgono senza un reale impatto sulla vita pubblica.
Il coinvolgimento dei Fratelli Musulmani per Zakaria è un antidoto al rischio-Pakistan perché allarga la base di legittimità democratica del dopoMubarak. A sostenere questa lettura arriva, dalle colonne del New York Times, un analista conservatore come Reuel Marc Gerecht, secondo il quale «la democrazia sta prendendo piede nel mondo arabo, anche fra i Fratelli Musulmani egiziani ma in Occidente spesso sottovalutiamo il processo». Gerecht, che lavorò al desk Medio Oriente della Cia, dice che i fondamentalisti egiziani «stanno facendo i conti con l’idea di libertà, che include il diritto di voto per uomini e donne» dando vita a una «reale evoluzione» frutto dell’integrazione di «due civiltà differenti».
A conferma che Gerecht e Zakaria convergono con l’interpretazione di Obama, c’è il fatto che adoperano per i Fratelli Musulmani la definizione di sunniti «laici» perché privi di guide religiose come gli ayatollah per gli sciiti.
La STAMPA - Gian Enrico Rusconi : " La vera partita comincia solo ora "
Rusconi si chiede che cosa vogliano la piazza e i Fratelli Musulmani in Egitto. Per qunto riguarda la piazza, non possiamo dare una risposta precisa. Per quanto riguarda i Fratelli Musulmani, sarebbe sufficiente a Rusconi leggere le interviste pubblicate nei giorni scorsi sulle pagine del quotidiano per cui scrive o anche il pezzo del FOGLIO riportato in questa pagina della rassegna. I Fratelli Musulmani desiderano la sharia, aspirano a trasformare l'Egitto nell'Iran. E non ne hanno mai fatto mistero. Ecco il pezzo:
Gian Enrico Rusconi
In Egitto siamo alla vigilia di una transizione quasi-istituzionale verso la democrazia? Oppure ad un tentativo di normalizzazione che elude la richiesta di dimissioni di Mubarak con conseguenze imprevedibili? Siamo al punto di svolta della crisi. La questione delle dimissioni del presidente autocratico diventa decisiva, non solo simbolicamente ma politicamente. Dietro a lui infatti c’è un’intera classe dirigente, intimidita, ma decisa a giocare la sua partita. La posta in gioco ora è il consenso di milioni di egiziani che non dispongono ancora di strumenti di espressione democratica - salvo la protesta.
Lo spettacolo straordinario di centinaia di migliaia di persone che coraggiosamente e pacificamente hanno messo in ginocchio un regime, è stata una grande lezione di spontaneità politica. Ma ha tenuto nascosto l’altro spettacolo di quartieri impauriti, di negozi sbarrati, di mercati deserti - l’altra città che stava a guardare - verosimilmente con simpatia. Ma adesso aspetta la soluzione. Ecco perché è diventato decisivo governare questa fase di transizione.
E’ facile per i governi occidentali dare agli egiziani saggi consigli per una strategia graduale. In fondo è una nuova versione della raccomandazione per l’unica cosa che sembra stare a cuore all’Occidente: la stabilità nella regione. Si tratta di una giusta preoccupazione, naturalmente. Ma non è per questo che sono in piazza migliaia di uomini e di donne. Loro vogliono cambiare radicalmente. Per loro la parola «democrazia» ha ancora il sapore esplosivo della rivoluzione. Non è quindi per testardaggine poco diplomatica che esigono l’allontanamento di Mubarak E’ il loro modo di dire un chiaro no ad una classe politica complice con il regime mubarakiano che ora pretende di gestire il passaggio verso una democrazia, di cui non sa tracciare alcun profilo convincente,
Nessuno sa esattamente che cosa succederà. E’ un momento sospeso tra voglia di normalizzazione della vita quotidiana e attesa di innovazione politica ancora tutta da inventare.
Protagonisti speciali di questo momento sono due soggetti che per ragioni diversissime sono ancora un po’ misteriosi: i giovani e il movimento dei «Fratelli musulmani». Parlare dei giovani come di soggetto collettivo è un’abitudine che abbiamo preso in occidente e che sembra confermata dalla vicenda egiziana. Anzi questa ha inventato un nuovo pezzo di mito - quella della irresistibile forza espressiva e comunicativa dei nuovi mezzi Internet, Facebook ecc. assurti a indicatori dell’identità giovanile.
Ma la dura sostanza della questione giovanile va ben più in profondità del nuovo mito Facebook. La contraddizione tra la maturità espressiva della gioventù egiziana e la sua miseria materiale - la mancanza di futuro - ha innescato una rivolta che non si fermerà tanto facilmente. Chi saprà incanalare, governare e guidare le aspettative giovanili oltre una provvisoria transizione istituzionale?
A proposito di espressione e comunicazione, non ci è sfuggita l’insistenza con cui le televisioni occidentali hanno mostrato e intervistato, durante le manifestazioni di protesta, donne e ragazze con il corpo e il volto coperto dal velo nero. Sembravano del tutto a loro agio nella folla a fianco degli altri manifestanti. Accostate magari intenzionalmente dai cameramen a barbuti giovani copti con un crocifisso sul petto. Vuol essere un segnale rassicurante all’Occidente: la domanda di democrazia politica, la libertà religiosa e l’adesione ai precetti più rigorosi dell’Islam sono compatibili. Così si afferma in Tunisia. Cosi è accaduto in Turchia.
Ebbene questo ruolo - davvero rivoluzionario - di movimento di ispirazione islamica che si fa interprete delle libertà democratiche viene ora assegnato in Egitto ai Fratelli musulmani. In realtà sulla natura effettiva e soprattutto sull’orientamento strategico di questo movimento le opinioni sono molto controverse. In Egitto e in Occidente. Non è chiaro quindi se l’aspettativa di un suo contributo alla democratizzazione sia un augurio o non piuttosto uno scongiuro. Molti temono che si tratti di mero tatticismo, ma altri ricordano esperienze di altri movimenti radicali che hanno attraversato felicemente fasi di trasformazione. E’ presto per saperlo. La storia politica del nuovo Egitto incomincia appena ora.
Il MANIFESTO - Luciana Castellina : " Il cambiamento stabile che vuole l’Occidente"
Castellina conclude la sua 'analisi' sulla situazione in Egitto con queste parole : " Purtroppo il dopo Mubarak è stato già sequestrato, ancora una volta dall’occidente: il negoziato si svolge aWashington anzichè al Cairo. E tanto peggio per la democrazia ". Non si capisce da chi sia stato sequestrato il 'dopo Mubarak'. Nessuno è intervenuto per bloccare la rivolta, nè Usa ed Europa stanno facendo molto per impedire che l'Egitto cada nelle mani dei Fratelli Musulmani. Castellina critica aspramente Mubarak perchè la sua non era una democrazia. Ma dimentica il grande pregio che aveva, quello di impedire ai Fratelli Musulmani di far diventare l'Egitto una specie di Iran. Iran, uno Stato che Castellina ama. E' una teocrazia ? Pazienza, basta convincersi che l'islam è un mondo estremamente variegato, come e più di quello cattolico: sia dal punto di vista religioso (nessuno sembra aver mai avuto la curiosità di leggere e approfondire il Corano) che culturale; su cosa pensano davvero le donne, sui loro movimenti reali, sulla nuova assai interessante ricerca femminista in atto in molti paesi e che coinvolge persino le teologhe; sulla letteratura ". Islam, che religione di pace. E il terrorismo islamico ? Castellina non ne scrive, potrebbe far credere ai lettori che non tutto ciò che è islamico è positivo. Ecco l'articolo:
Luciana Castellina
Due cose appaiono evidenti nella vicendaegiziana e degli altripaesi arabi in rivolta.Duecosenonsimili, perché una era scontata, l’altra no. La prima sapevamo già da tempo che sarebbe stata così: ai primi sintomi di una protesta che reclama democrazia, l’occidente - noto paladino del concetto, cui ha offerto sostegno persino con i propri eserciti - anziché plaudire ha preso paura. La parola che più figura nei commenti istituzionali, non a caso, è inproposito«preoccupazione».Anchemaggiore nel business. «La democrazia hamolte implicazionieconomiche e finanziarie», si lamenta un guru dell’Accademia americana, Nouriel Rubini. E poi parla del prezzo del petrolio, il cui aumento è all’origine di tre delle cinque crisi recessive mondiali, senza contare l’ultima che ha avuto l’aumento del costo del barile, nel 2008, assai più che il dramma dei mutui subprime del 2007, come elemento scatenante. Che accadrà se gli arabi dovessero sottrarsi al controllo dei ras imposti dall’occidente? Meglio non fidarsi. E infatti il dilagare della protesta viene definita «contagio », come se la richiesta di libertà fosse una malattia. L’esperienza ha infatti dimostrato – si conclude - che i risultati di elezioni vere ha dato finora solo «risultati deludenti», come insegnano quelle a Gaza, nel Libano, in Iraq. Aihimè! La seconda cosa che è emersa è invece sorprendente: a livello politico l’Occidente, e in particolare l’Europa che pure è contigua al nord Africa, di cosa sia la società araba del 21mo secolo non sa praticamente niente. E perciò ha potuto continuare a minacciare l’arrivo di Ahmadinejad fino a Rabat, se solo ci si permetteva di rimuovere i locali giannizzeri. La politica, non solo quella di destra, ha continuato a nutrirsi di tutti i possibili stereotipi e le idee dei suoi esponenti sono il frutto di una sconfinata, distratta ignoranza. Su tutto: sull’Islam, considerato come un blocco monolitico anziché come è un mondo estremamente variegato, come e più di quello cattolico: sia dal punto di vista religioso (nessuno sembra aver mai avuto la curiosità di leggere e approfondire il Corano) che culturale; su cosa pensano davvero le donne, sui loro movimenti reali, sulla nuova assai interessante ricerca femminista in atto in molti paesi e che coinvolge persino le teologhe; sulla letteratura. Al di là dei più noti - il premio Nobel Naguib Mahfouz, dell’autore di Palazzo Yacobian, Alaa al Aswarny, poco o niente si sa (qualcosa è stata tradotta solo in Inghilterra ) della nuova ondata di giovanissimi prolifici autori egiziani, arrabbiati e delusi ma non Fratelli Musulmani, la «generazione 1990», come viene chiamata, che non fa parte dell’élitemaproviene dalla «città dei funghi», il suburbio abusivo di case fai da te, costruite una sull’altra, senza fogne né servizi igenici, che corrisponde al 60% dell’espansione urbana del Cairo. E poi il proliferare delle TV arabe, non solo Al Jazeera, mauna miriade di stazioni che hanno cambiato l’immaginario dei giovani, così come Internet, che solo ora ci si accorge quanto abbia inciso. Chi si era accorto dei bloggers, che non erano una rete di studenti distaccati, visto che il 6 di aprile scorso hanno celebrato l’anniversario delle lotte operaie di Helwan che hanno scosso l’Egitto, senza che dal sindacato europeo venisse molto di più che un saluto di incoraggiamento? Forse sarebbe ora di rendere merito ai militanti del Forum Sociale Mondiale, che in questi giorni tiene il suo appuntamento a Dakar, e che nei dieci anni che sono seguiti al primo raduno a Porto Alegre, hanno tessuto – ignorati dalla politica istituzionale – un prezioso tessuto di rapporti con la sconosciuta società civile araba, promuovendo i Forum regionali nelMashrak e nel Maghreb, primi embrioni di una nuova opposizione laica e strumenti di dialogo non subalterno con il resto del pianeta. Non c’è ancora, in Egitto, è vero, una compiuta alternativa politica al regime,ma c’è una opposizione sociale, che nulla ha a che vedere coi Fratelli Musulmani, e invece piuttosto con il sedimento lasciato da Kifaya (Basta!), il movimento che si era attivato in occasione delle elezioni del 2005, animato anche dagli eredi non ancora liquidati del marxismo egiziano,e soprattutto dai nuovi sindacati indipendenti e da un proliferare di Ong. È di qui che occorrerebbe partire. E per concludere: l’Europa. Da 39 anni ha lanciato il dialogo euro mediterraneo. Dal 1972 a oggi, passando per l’assai conclamato accordo di Barcellona del 1995, fino al bluff del presidente Sarkozy di due anni fa, ha cercato di gettar ponti sul solco che divide la sponda nord e quella sud del Mediterraneo, la frontiera più drammatica del mondo (un divario nel reddito procapite di 1 a 14, assai peggio di quello pur tremendo fra Messico e Stati Uniti, che è «solo» dell’1/6). Ma lo ha fatto senza tener conto di cosa significa liberalizzare gli scambi e fare quelle che vengono chiamate «riforme » e si tratta solo di privatizzazioni e liberalizzazioni, quando la sproporzione fra le economie è tanto grande. Sicchè oggi è possibile che si chiedano, accorati e come se fossero stati traditi: come mai nonostante proprio l’Egitto sia stato lodato dal Fondo Monetario Internazionale per l’ampiezza con cui ha varato cotali «riforme», e la Banca Mondiale abbia proprio quest’anno collocato il Cairo in cima alla classifica dei bravi «riformatori», questo non abbia contribuito a render felici gli egiziani, ma sembri anzi aver addirittura accelerato la protesta? Già: come mai? Come mai l’Europa non ha saputo prender atto che grazie anche a quelle «riforme» ci sarà bisogno, nei prossimi 10 anni, nel solo Maghreb, di 23 milioni di nuovi posti di lavoro e che sarà perciò inevitabile una pressione migratoria massiccia. Cosa pensano di fare a Bruxelles: usare la bomba atomica per bloccarla? E allora forse avrebbero dovuto pensare a un grande storico compromesso sociale, analogo a quello che nel dopoguerra si è realizzato, con qualche successo, in Europa fra capitale e lavoro, in questo caso da stabilirsi fra le due sponde del mediterraneo per pensare assieme ad una comune strategia di sviluppo a lungo termine. Lo aveva proposto anni fa Samir Amin, e l’idea era stata ripresa in molte occasioni,ma, ovviamente, è stata lasciata cadere. L’Europa, si sa, non dialoga: decide. Adesso sono tutti spaventati e ripetono lo splendido ossimoro di Tony Blair: «Occorre un cambiamento stabile». Tanto da non cambiare niente. Il grande poeta siriano, Adonis, aveva scritto nel suo «La preghiera e la spada» che la liberazione dell’arabo dall’occidente, che è il suo primo problema , deve però “iniziare in terra araba, con l’istituzione della democrazia come sistema di vita e di dialogo”. Purtroppo il dopo Mubarak è stato già sequestrato, ancora una volta dall’occidente: il negoziato si svolge aWashington anzichè al Cairo. E tanto peggio per la democrazia.
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