Sulla STAMPA di oggi, 05/07/2010, a pag.324, con il titolo " Quando Hollywood faceva affari con il terzo Reich", un interessante articolo di Lorenzo Soria da Los Angeles su un libro appena uscito, del quale riproduciamo la copertina dell'edizione americana (non esiste la traduzione italiana). L'occhiello lo definisce, erroneamente, "revisionista", quando invece è più semplicemente un libro che racconta le ambiguità che hanno caratterizzato i rapporti fra Hollywood e la Germania negli anni'30.
" An Empire of their own" era la definizione più azzeccata della mecca del cinema, dove quel " loro" erano gli artisti ebrei, registi, produttori, attori, fuggiti dall'Europa nazista, in gran parte tedeschi e austriaci, che poi hanno fatto grande il cinema americano. Un libro di sicuro interesse, che consigliamo ai nostri lettori appassionati di cinema.
Ecco l'articolo:
E’ una delle storie che Hollywood ama raccontare a se stessa e che viene tramandata di generazione in generazione: come la fabbrica dei sogni ebbe il suo momento di eroismo reale durante la II Guerra Mondiale, trasformandosi in un efficace braccio di propaganda e mandando al fronte divi come James Stewart, Robert Taylor e Clark Gable. C'è pure Carole Lombard, morta in un incidente aereo mentre era in un tour per vendere obbligazioni di guerra. Ma come le storie generate nelle sue sale di posa anche questa ha un difetto ed è che non corrisponde alla realtà, che è perlomeno un po' più complessa: negli anni tra l'arrivo del nazismo in Germania e l'ingresso in guerra dell'America, Hollywood mantenne un atteggiamento alquanto timido e schizofrenico. Come il resto del Paese.
Una tesi che emerge dalla ricerca di David Wilkes, professore di storia all'Università dell'Arkansas e autore di The moguls and the dictators: Hollywood and the coming of World War II. I «moguls» sono Harry Cohn alla Columbia, Louis Mayer alla MGM, Sam Goldwyin, Jack e Harry Warner, i padri-padroni degli studios e tutti di origine ebraica. I dittatori sono Hitler, Franco, Mussolini. Ed ecco, siamo nel 1933, l’anno in cui arrivano al potere Hitler in Germania e Frankin D. Roosvelt negli Stati Uniti. Un Paese, in quegli anni, ancora alle prese con gli effetti devastanti della Grande Depressione e, oltre che isolazionista, percorso da fremiti antisemiti. Nonostante l'industria del cinema fosse stata fondata da ebrei sfuggiti ai progrom europei, che avevano trovato negli studios una nicchia dove operare, quando Hitler decise che i loro impiegati ebrei in Germania dovevano venire licenziati gli studios acconsentirono, perché quello tedesco era un mercato molto ricco. E perché spinti in quella direzione da due potentissime figure, Joseph Breen e Will Hays, responsabili rispettivamente dell'associazione di categoria dei produttori e del loro codice etico-morale. Il compito di Hollywood, secondo Breen e Hays, doveva essere «intrattenere» e dare un'immagine positiva e ottimistica della «American way of life». E attenzione, aggiunsero: l'industria dello spettacolo «non va usata per fini di propaganda personale». Timorosi di perdere il mercato tedesco e di alienare una parte della stessa popolazione americana, gli studios si adeguarono al diktat hitleriano con la sola eccezione di Harry Warner, che decise di chiudere le operazioni della Warner in Germania. Anzi, scatenando l'ira di Breen e Hays che avevano vietato ogni critica e volevano che si parlasse di «quel che di buono Hitler ha fatto per la Germania», si mise a produrre film apertamente anti-fascisti, metaforicamente con Juarez e Robin Hood e poi apertamente con Confessioni di una spia nazista, basato sulla storia vera di alcuni agenti nazisti in azione e che copriva di ridicolo i loro simpatizzanti americani.
Era il 1939, un anno in cui Hollywood produsse ben 954 film (contro i circa 400 di oggi) tra cui alcuni entrati nella leggenda: oltre a Via col vento, Mr. Smith va a a Washington, Il mago di Oz , Ninotchka, Goodbye Mr. Chips, Il giovane Lincoln, Uomini e topi. Mentre Hitler invadeva la Polonia, l'America si accalcava fuori dai cinema e seguiva appassionatamente la lotta per l'Oscar tra Judy Garland , Greta Garbo, Bette Davis e Vivien Leigh (alla fine la vincitrice). E quando Hollywood iniziò a sfornare i primi film che prendevano di mira i dittatori europei, i «moguls» si trovarono sul banco di accusa del Senato americano. «Dovete fare spettacolo, non incitare alla guerra - ripeteva il senatore Gerald Nye - se esiste l’antisemitismo dovete dare la colpa solo a voi stessi».
Poco dopo, nel dicembre del 1941, ci fu l'attacco a Pearl Harbor. Roosvelt dichiarò guerra e finì per arruolare non solo milioni di giovani mandati a combattere sul fronte europeo e su quello del Pacifico ma anche Hollywood e le sue stelle. Fu solo a quel punto che venne fuori Il dittatore, con Charlie Chaplin nel duplice ruolo di un barbiere ebreo e del dittatore anti-semita Adenoid Hynkel, che Hitler volle vedere due volte e che negò ai suoi sudditi. Casablanca, con quella battuta «Scommetto a che a New York dormono, scommetto che in America dormono» arriva solo nel 1942 e poi fu la volta di Sergeant York e Thank you Lucky Stars, di This is the Army e dei film eoici con Erroll Flynn e con John Wayne. Ma ormai era una questione di sopravvivenza, non di principi.
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