Sul ruolo della Turchia raccomandiamo l'analisi di Zvi Mazel da Israele che pubblichiamo oggi in altra pagina. Tre gli articoli da segnalare oggi, 06/06/2010. Su LIBERO, a pag.15, Carlo Panella, sul CORRIERE della SERA, a pag.13, Davide Frattini (con un nostro commento), sul GIORNALE, a pag.12, Gian Micalessin.
Libero-Carlo Panella: " La Turchia non sogna più l'Europa "
Ataturk, addio Turchia laica
Il crescendo dell’oltranzismo di cui dà prova il premier turco Tayyp Erdogan è ormai inquietante. Dopo avere tirato le fila della trappola di finti pacifisti della Mavi Marmora che hanno accolto a sprangate i soldati israeliani che in maniera irresponsabile - va detto - l’avevano abbordata - e dopo che i soldati hanno sparato facendo nove vittime, non è passato giorno senza che Erdogan non alzasse il tono. Prima ha definito il legittimo attacco alla Mavi Marmara (effettuato malissimo, ma nel pieno diritto di Israele, perché il suo blocco di Gaza è legittimo e indispensabile) «un massacro». Poi, ha definito Hamas (che è sulla lista delle organizzazioni terroristiche dell’Ue e che ha massacrato tutta la dirigenza palestinese fedele ad Abu Mazen nella Striscia) «partito legittimo che legittimamente difende la sua terra». Poi, cavalcando l’onda della protesta popolare islamista in Turchia ha preso in giro Israele e gli israeliani in una sorta di suo show in televisione: «Io parlerò il vostro linguaggio, il vostro sesto comandamento recita “non dovrei uccidere”! Avete capito? Lo ripeto, lo dico in inglese “you shall not kill». Non avete capito ancora, allora lo dico nella vostra lingua, in ebraico “Lo Tirtzakh”! Capito?!» Ieri poi, un giornale libanese ha sostenuto che il premier turco si appresta a visitare Gaza per fare un gesto decisivo nella direzione della fine dell’embargo. Ad un esame superficiale sembra che Erdogan sia tornato ai furori giovanili, quando militava nel Refah, movimento legato ai Fratelli Musulmani di Erbakan e che sia irriconoscibile rispetto al premier moderato dei primi governi marcatamente filo americani dell’Akp del 2002, tutti tesi ad accelerare l’ingresso della Turchia nell’Ue, che hanno stretto rapporti e contratti (e collaborazioni dei Servizi Segreti) sempre più intensi con Israele. La realtà, però è più complessa. Erdogan ha infatti maturato dopo la seconda vittoria elettorale del 2007 una serie di convinzioni che l’hanno spinto a riposizionarsi fortemente sulla scena regionale. La prima certezza è che la Ue “non esiste” dal punto di vista politico, che è solo un formidabile patto economico-monetario, e che comunque gli interessi elettorali di chiunque si candidi alle elezioni in Germania e in Francia impongono un netto “no” all’ingresso di Ankara in Europa. Quindi, su questo scacchiere, la Turchia considera chiusa la partita, senza problemi perché comunque i legami economici tra Europa e Turchia sono enormi e peraltro i recenti disastri dell’euro hanno raffreddato ogni tentazione di incontri troppo ravvicinati. La seconda certezza maturata da Erdogan è che l’Egitto di Mubarak è immobile da 30 anni, che non esercita più né egemonia tra gli arabi, né il ruolo di mediazione con Israele che dal 1979 gli Usa pensano debba svolgere. La terza certezza è che tutta l’immensa area (in buona parte turcofona, ma non solo) delle ex repubbliche sovietiche, in cui vi sono immense riserve energetiche, non è più egemonizzata da Mosca. Il risultato di queste analisi è semplice: Erdogan e intende sottrarre la Turchia dalla collocazione filo occidentale e filo israeliana e seguire una politica neo-ottomana, forte della robusta economia turca, delle sue consistenti forze armate e di una nuova collocazione, non più laica, ma islamica del paese. Una politica che aspira alla mediazione tra forze confliggenti, a costruire nuovi equilibri che ha quindi bisogno di una forte legittimazione da parte arabo islamica. Da qui, la rottura da Israele, non per combatterla frontalmente, ma per imporle il proprio ruolo di mediazione. Da qui le aperture all’Iran e alla Siria, ma non per allearsi, ma per imporre agli Usa il proprio indispensabile ruolo di mediazione. Un gioco arrischiato, con venature di avventurismo cinico (come si è visto con la Mavi Marmara), ma che è sotteso da una strategia non priva di intelligenza.
Corriere della Sera-Davide Frattini: " Macchè avanzata islamica, Ankara vuole l'Europa "
Ahmet Altan, il furbacchione
Leggendo le opinioni dello scrittore turco, si capisce meglio titolo e contenuto del pezzo di Frattini. Altan ha molto in comune con certi nostri intellettuali, si dichiara perseguitato e all'opposizione e poi si scopre che è contro i militari, unica garanzia (ormai tramontata) per un ritorno alla democrazia, e sta dalla parte di Erdogan, l'attaule boss onnipotente. Il pezzo di Frattini è da meditare, ci fornisce tutte le motivazioni per le quali la Turchia non deve assolutamente entrare in Europa. Se ne stia con l'Iran, con la Siria, con Hamas, ci chiediamo quale reale interesse abbia la Nato ad averla fra i paesi membri, visto che quando c'era bisogno (il passaggio degli aerei alleati che andavano in Iraq) rispose un secco no.
ISTANBUL — Ne ferisce più la penna che la spada, dicono. Ahmet Altan ci crede, ma per precauzione gira con una Sig Sauer 9 mm, autodifesa tascabile per un intellettuale che ha collezionato minacce di morte, una cinquantina di querele (per un totale di cent’anni di carcere rischiati) e il nemico peggiore che ci si possa fare in Turchia: le forze armate. «E’ anche vero che le pistole mi piacciono — ammette —. Sono pacifista, non pacifico».
Romanziere da un milione di copie (in Italia è pubblicato da Bompiani), da tre anni è tornato al giornalismo, come direttore-fondatore di Taraf, il più piccolo e il più aggressivo tra i quotidiani del Paese. Altan chiede ai suoi reporter di immergersi in quello che qui chiamano «derin devlet», lo Stato profondo, gli angoli oscuri del potere che sono stati illuminati dallo scandalo Ergenekon, la Gladio turca, una rete segreta ultranazionalista (generali in pensione, ufficiali, industriali, accademici) finita sotto processo. Il suo giornale è quello che ha rivelato i documenti più importanti dell’inchiesta, fino a essere accusato di parteggiare per l’Akp di Recep Tayyip Erdogan e di ricevere sovvenzioni dagli islamici.
Gli uffici sono all’ultimo piano sopra una libreria, quartiere di Kadikoy, dall’altra parte del mar di Marmara, un piede dentro l’Asia. «La strategia del governo turco guarda a Oriente — commenta il romanziere — non perché voglia allontanarsi dall’Occidente. Al contrario, Erdogan e i suoi uomini sono stati costretti a irrobustire l’influenza della Turchia nella regione, perché l’Unione Europea li stesse ad ascoltare e dimostrasse più rispetto. La strada della nostra integrazione passa da Est. Non è una politica neo-ottomana. Il Paese sta finalmente aprendosi ai suoi vicini: la Siria, l’Iran, la Grecia, la Russia. Prima era impossibile, ragioni da Guerra Fredda. Adesso ne abbiamo bisogno per far crescere l’economia».
Come il Nobel per la letteratura Orhan Pamuk e molti altri scrittori, Altan è stato castigato in nome dell’articolo 301, codice penale, quello che punisce «gli attacchi all’integrità dello Stato». Con il titolo «Oh fratello mio», aveva dedicato un editoriale al genocidio armeno («parole ancora inaccettabili nel vocabolario turco»). Nell 1995, è stato licenziato dal quotidiano Milliyet per un articolo intitolato Atakurd (gioco di parole con Mustafa Kemal Atatürk, il padre della patria). «Il primo ministro deve spiegare perché piange per i bambini di Gaza e non per quelli curdi. Sta provando a chiudere la guerra con i ribelli, ma sa che il suo partito Giustizia e Sviluppo non è abbastanza forte. A Occidente, rischia di perdere i voti dei nazionalisti turchi. A Oriente, quelli degli islamici, se non mantiene le posizioni sui palestinesi». I dossier sull’organizzazione di Istanbul che ha sponsorizzato e coordinato il viaggio della flotta verso Gaza non lo inquietano. «Le intelligence occidentali dicono che sono fondamentalisti? L’errore è stato di Israele, con la strage li ha trasformati solo in vittime».
Radikal, il quotidiano di riferimento della sinistra europeista, ha pubblicato qualche settimana fa un commento per rintuzzare la paura della minaccia integralista. «Guardate Eurovision», è lo slogan. Da quando l’Akp è al governo — scrive— la Turchia ha presentato in concorso gruppi punk e ballerine seminude. «Io sono ateo— incalza Altan —. Eppure sostengo che l’avanzata islamica è una leggenda ripetuta dai generali e dai kemalisti per impedire le riforme costituzionali che l’Unione Europea ci chiede. I religiosi sono i miei lettori, è vero. Conservatori per come si vestono o mangiano, aperti al mondo perché favorisce i loro affari. E’ la classe di nuovi ricchi dell’Anatolia». Erdogan e i suoi sostenitori — insiste — non vogliono solo partecipare a Eurovision, vogliono entrare in Europa.
Il Giornale-Gian Micalessin: " Pronta l'offensiva della Turchia: cannoni contro il blocco di Gaza"
Erdogan con i nuovi amici, Assad, Meshal,Ahmadinejad
La scaramuccia è finita, ma la guerra vera è solo all’inizio. E Gaza rischia di diventarne la nuova Danzica. Dopo l’abbordaggio della Rachel Corrie, ultimo bastimento pacifista diretto verso la Striscia, sull’asse Gerusalemme-Gaza-Ankara non si profila un futuro facile. Apparentemente ieri tutto è filato liscio.
La marina israeliana ha abbordato la Rachel Corrie alle prime luci dell’alba e - a differenza di lunedì mattina - non ha trovato alcuna resistenza. Così il premier israeliano Benjamin Netanyahu ha potuto rimarcare la distanza tra pacifisti veri e pacifisti travestiti: «Oggi abbiamo visto la differenza». Parole seguite dall’impegno dell’esercito a trasferire a Gaza gli aiuti scaricati dalla Rachel Corrie nel porto israeliano di Ashdod.
Dietro l’apparente lieto fine covano però la crisi dei rapporti tra Israele e Turchia, una deriva islamista che il governo di Ankara non sembra voler arginare e una politica turca ispirata a un crescente nazional islamismo. Quest’ultimo elemento sembra la cartina di tornasole per comprendere le mosse di Erdogan. Il premier turco secondo alcune fonti starebbe pensando d’imbarcarsi personalmente su una nuova flottiglia per sostenere - anche con l’ausilio delle proprie navi da guerra - la necessita d’infrangere l’embargo da Gaza. Uno scenario da brivido che evoca l’immagine di una flotta guidata dal premier di un paese Nato pronta, nel nome di Gaza, a cannoneggiarsi con quella israeliana.
Uno scenario a cui s’aggiungono le dichiarazioni dal Libano del segretario di Hezbollah Hassan Nasrallah, pronto ad elogiare il «terremoto» che squassa le relazioni tra Israele e Turchia e minaccia di far cadere il blocco di Gaza. Ad amplificare quel «terremoto» contribuiscono gli ambigui ammiccamenti di Erdogan all’Iran.
Dopo aver guidato con il Brasile una mediazione sul nucleare che rischiava di bloccare le nuove sanzioni auspicate dall’Occidente il premier turco si prepara ora ad accogliere la visita ufficiale del presidente Mahmoud Ahmadinejad. Il premier turco è dunque il sapiente demiurgo di una serie di terremoti geopolitici e strategici che potrebbero spingere Stati Uniti, Unione Europea e Nato a far pressioni su Israele per cancellare l’embargo. Il cedimento israeliano consegnerebbe alla Turchia una vittoria epocale e rappresenterebbe la prima tappa verso quel traguardo evocato ufficialmente lo scorso 5 ottobre quando Erdogan annunciò di perseguire la «restaurazione dell’impero». Il premier in verità sogna un ruolo da «Grande Visir» sin dalla clamorosa vittoria elettorale del 2003. A quel tempo non può certo permettersi d’ammetterlo esplicitamente. A quel tempo sa bene quanto potenti siano ancora magistratura ed esercito, le due istituzioni cardine della Turchia laica e kemalista.
Nel 98 quando da sindaco d’Istanbul ha declamato pubblicamente il poema che recita «Le moschee sono le nostre caserme, le cupole i nostri elmetti, i minareti le nostre baionette...» generali e magistrati lo hanno immediatamente sbattuto in prigione. Così per qualche anno dopo la salita al potere Erdogan dialoga con l’Europa, si cuce addosso un’immagine moderata e lavora sul fronte interno per promuove la carriera di generali e giudici a lui più vicini. La prudente operazione di consolidamento interno dura fino al vertice di Davos del gennaio 2009 quando Erdogan approfitta dell’offensiva israeliana su Gaza per attaccare il presidente Shimon Peres e avviare un brusco mutamento di rotta nei confronti d’Israele. La scelta di trasformare Gaza nella Danzica della nuova politica di potenza turca non è casuale. Gaza è per le opinioni pubbliche mediorientali la ferita aperta che i cosiddetti regimi moderati come Arabia Saudita ed Egitto temono d’affrontare per timore del contagio fondamentalista ispirato da un Hamas succube dell’Iran.
Nella visione di Erdogan una Turchia capace di trasformarsi nel nuovo padrino di Hamas e di strapparlo dall’abbraccio di Teheran risolverebbe le paure del mondo arabo sunnita e restituirebbe ad Ankara quel ruolo di grande califfato svolto un tempo dall’Impero Ottomano. La rottura con Israele, da sempre legata ai vertici laici delle forze armate gli consentirebbe inoltre di rafforzarsi ulteriormente sul fronte interno. Un rafforzamento già avviato a febbraio quando la magistratura a lui più vicina ha sbattuto in galera una quarantina fra generali ed alti ufficiali d’ispirazione laica accusandoli di aver progettato un misterioso colpo di Stato.
Da ieri dunque il risorto impero del Gran Vizir Erdogan tiene nel mirino la Danzica del Mediterraneo e si prepara, intanto, a riconquistare l’intero Medioriente.
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