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La Stampa-Corriere della Sera- La Repubblica Rassegna Stampa
02.06.2010 E gli ebrei fuori da Israele ? Tre giornali a confronto
gli articoli di Marta Ottaviani, Rinaldo Frignani, Paolo Conti, Marco Ansaldo

Testata:La Stampa-Corriere della Sera- La Repubblica
Autore: Marta Ottaviani, Rinaldo Frignani, Paolo Conti, Marco Ansaldo
Titolo: «Tra gli ebri di Istanbul, al sicuro ma inquieti-Slogan contro israele e scritte in arabo davanti all'ambasciata-Gli ebrei romani : abbiamo di nuovo paura- Noi ebrei di Istanbul solidali con la gente di Gaza»

Che ci sia interesse verso gli ebrei che vivono fuori da Israele è comprensibile. In un mondo in cui l'antisemitismo è in crescita, è meglio sapere che cosa succede e dove. L'attacco nei confronti della azione difensiva di Israele non poteva non produrre episodi odiosi di stilità nei confronti degli ebrei e contro qualunque cosa vi fosse collegata. Riprendiamo quattro articoli, il promo dalla STAMPA, rassicurante, come se a Istanbul non fossero state attaccate solo pochi anni fa le sinagoghe, fatto che non è entrato nell'articolo, che doveva essere, appunto, tranquillizzante.
Più corretti i due pezzi del CORRIERE della SERA, che descrivono la situazione a Roma per quello che è, preoccupante.
Un titolo alla Manifesto, quello di REPUBBLICA, francamente disgustoso. Fra i tanti ebrei di Istanbul, più di ventimila, hanno intervistato quello giusto.
Ecco gli articoli:

La Stampa-Marta Ottaviani: " Tra gli ebri di Istanbul, al sicuro ma inquieti "

Istanbul, interno di una sinagoga

A poche ore dall'attacco di Israele alla Mavi Marmara il primo pensiero di molti in Turchia è andato a loro, ebrei di fede e turchi di nazionalità. Sono i sefarditi, che vivono nel Paese dalla Mezzaluna da quando era ancora impero ottomano, per la precisione dal 1492, quando la Reconquista di Isabella di Castiglia la Cattolica, e Ferdinando II di Aragona li costrinse alla fuga. Sospesi fra la loro fede e la loro madre patria vivono con apprensione queste ore. La Turchia è la loro casa, ma questo è il momento della calma. Proprio per questo il premier Erdogan due giorni fa ha pensato a loro, sottolineando che i Sefarditi sono «sotto la diretta protezione dello Stato». Come a dire che nessuno nel Paese gli farà mai del male.
Ma la situazione potrebbe scappare di mano, soprattutto a causa degli animi esacerbati. Due giorni fa un ciclista israeliano che partecipava a una competizione internazionale ha rischiato un pugno. Le prenotazioni negli alberghi sono state cancellate quasi tutte. Le autorità della comunità ebraica di Istanbul preferiscono non parlare. Sul loro sito hanno pubblicato un sintetico comunicato stampa con il quale partecipano con dolore alla notizia dell'attacco da parte della marina israeliana. Pochi giorni fa, prima dell'attacco, il rabbino capo della Turchia, Ishak Haleva, rispondendo al quotidiano islamico «Yeni Shafak», aveva definito «inappropriato» fare a lui domande sulla questione palestinese, sottolineando che gli ebrei di Turchia non avevano nulla che vedere con la situazione.
Incontrare i sefarditi in questi giorni non è facile. Si sa che sono circa 20 mila, distribuiti soprattutto a Istanbul e nella zona attorno al quartiere di Beyoglu, fin dai tempi dell'Impero Ottomano punto di riferimento per gente di ogni etnia e religione.
Per carpire qualche informazione sulla loro quotidianità ci si deve rivolgere alla redazione del quotidiano «Shalom», edito in turco e che tira circa 4000 copie. Gli scaffali sono pieni di Cd di musica, libri e giornali. E arriva la prima sorpresa. Sono tutti in turco e in spagnolo antico, la lingua che li contraddistingue e che hanno ereditato dai padri, tramandandola oralmente da secoli. In ebraico ci sono solo le scritte su alcuni oggetti sacri.
«I sefarditi di Istanbul sono fra i pochi gruppi di ebrei che non vivono in Israele a non parlare l'ebraico», spiega Gila Erbes, direttore della testata. Ha un tono pacato. «Mi sento sicura, ma il momento è difficile», ammette. Fuori da quelle stanze, ad Ankara, il premier turco islamico moderato sta tornando ad attaccare lo stato di Israele, parlando di «sanguinoso massacro» e di «punizione necessaria». Il ministro degli Esteri, Ahmet Davutoglu, sta chiedendo agli Stati Uniti una condanna ferma dell'attacco e tutti i giornali turchi, anche i più liberali, sono usciti con titoli duri contro Tel Aviv. La loro condizione di ebrei in Turchia, a chi non è turco e non conosce la storia del Paese sembra paradossale, invece da loro viene vissuta con grande naturalezza.
«Siamo arrivati qui 500 anni, abbiamo sempre vissuto bene - continua Erbes -. Abbiamo forti legami con Israele e siamo ebrei. Ma Istanbul è la nostra casa». La loro è una quotidianità «tranquilla e discreta», che ha risentito drammaticamente, in termini di sicurezza, in seguito agli attentati di Al Qaeda del novembre 2003, che costarono la vita a 66 persone fra cui 16 ebrei. «Siamo una comunità coesa e organizzata, i più religiosi parlano l'ebraico, la stragrande maggioranza osserva le feste. Con l'attività editoriale del nostro quotidiano e della nostra casa editrice cerchiamo di mantenere viva la nostra cultura e le nostre tradizioni. Soprattutto lo spagnolo antico la cui conoscenza purtroppo si sta perdendo. Abbiamo 4 centri fra parte europea e parte asiatica che usiamo per attività culturali e che difficilmente sono riconosciuti da chi non li conosce, lì allestiamo spettacoli e creiamo momenti conviviali per la comunità».
Una vita discreta ma non occulta. Uno dei cori di bambini più famosi, le Estreyikad de Estambul, sono composte da bambini sefarditi fra i 9 e i 14 anni. Ogni anno Istanbul partecipa alla Giornata europea per la promozione della cultura ebraica, a cui partecipano soprattutto persone esterne alla comunità. Una delle sinagoghe più belle di Beyoglu è la sinagoga italiana, a poca distanza dalla Torre di Galata e dove le vetrine di un venditore di arredi sacri ebraici convivono pacificamente da decenni con quelle di un venditore di kebab. Uno dei luoghi di culto più antichi e rappresentativi, dove appena due settimane fa è stata celebrata in un trionfo di rose bianche la festa dello Shavuot, che ricorda la consegna a Mosè delle tavole con i dieci comandamenti.
Di sinagoghe a Istanbul se ne contano a decine anche perché fino all'inizio del XX secolo i sefarditi qui erano circa 150 mila. Hanno una scuola, un ospedale sul Corno d'oro dove si curano anche tanti turchi. Il ristorante di cucina kosher ha chiuso di recente perché travolto dalla crisi. Una vita che corre tranquilla con i suoi ritmi e alcune tradizioni locali, soprattutto nel campo culinario e musicale, dove i sefarditi hanno melodie e piatti diversi da quelli ashkenaziti. «La cosa più strana - conclude Erbes - è quando andiamo in vacanza in Spagna e iniziamo a parlare: ci guardano come se tornassimo dal passato». Sorride. Che qualcosa possa cambiare per i sefarditi non ci vuole nemmeno pensare

Corriere della Sera-Rinaldo Frignani: " Slogan contro israele  e scritte in arabo davanti all'ambasciata "

 ROMA— I tamburi del gruppo musicale Malamurga rompono la quiete pomeridiana dei Parioli. Scandiscono i passi del corteo che, percorrendo via Ulisse Aldrovandi, raggiunge l’ambasciata israeliana. Fumogeni e slogan, striscioni e canti per la «Freedom Flottilla» e per chiedere il rilascio degli attivisti fermati da Israele. Ci sono i ragazzi della «Rete romana per la Palestina», quella delle «Donne in nero». I giovani dei centri sociali con la kefiah al collo, i palestinesi residenti a Roma, i Cobas e i rappresentanti della Sinistra critica. Compare anche il simbolo degli «U.S. Citizens for peace and justice». In 300 gridano «Intifada vincerà!», «Free Palestine! ed espongono striscioni che accusano Israele di essere «uno stato criminale e terrorista». Ma ci sono anche alcuni cartelli con la fotografia di Yasser Arafat e altri sui quali la Stella di David viene paragonata alla svastica nazista.

(Graffiti Press) Protesta Una manifestante ieri al sit-in a sostegno degli attivisti della flottiglia davanti all’ambasciata israeliana a Roma

Dopo il corteo di lunedì pomeriggio passato anche davanti al Ghetto e le tensioni con gli ebrei, ieri l’obiettivo dei manifestanti pro Palestina è stata la sede diplomatica di Israele, blindata dalla polizia. Quartiere in tilt, ammesso solo il passaggio di tram e autobus. Fino alle 8 di sera i cori «Assassini, assassini!» si sono alternati con le dichiarazioni lanciate dall’altoparlante. Nessun incidente, ancora slogan e la scritta «Boicotta Israele» tracciata sui muri, anche in arabo. «Le nostre proteste non si fermeranno», avvertono i manifestanti, che si sono dati appuntamento per oggi a Ponte Sant’Angelo per la «controparata» del 2 giugno, venerdì saranno in piazza della Repubblica «per la mobilitazione nazionale contro Israele» e sabato in piazza del Popolo.

«Ma il blitz dell’esercito israeliano è un incidente in parte annunciato», spiega Renzo Gattegna, presidente dell’Unione delle Comunità ebraiche italiane. «Era noto — aggiunge — che Israele avrebbe permesso l’arrivo a Gaza degli aiuti umanitari solo dopo aver verificato il carico delle navi, come era noto che la flottiglia avrebbe portato fino in fondo la propria sfida tentando di forzare il blocco». Oltre «allo sgomento e al dolore per le vittime— dice ancora Gattegna — sarebbe utile un’inchiesta imparziale che faccia piena luce sull’accaduto e chiarisca le responsabilità sull’uso delle armi. Considerata la presenza, fra i pacifisti, di alcuni ben noti attivisti che avrebbero congegnato un’aggressione contro i militari israeliani. Ora — conclude il presidente dell’Ucei— ci auguriamo che si verifichino quanto prima nuovi fatti positivi che permettano l’inversione di questa spirale di violenza».

Sulla questione interviene anche Riccardo Pacifici, presidente della Comunità ebraica romana, per il quale «l’azione di Israele nasce dalla paura di essere cancellato dalla faccia della terra. Ora l’opinione pubblica trovi il coraggio di dimostrare agli israeliani e ai loro governanti di non essere soli, che non devono avere paura. Cancellare Israele significherebbe cancellare un paese democratico».

Corriere della Sera- Paolo Conti: " Gli ebrei romani : abbiamo di nuovo paura "

ROMA— La scritta è in spray nero: «Boicotta Israele/ Boicotta l’apartheid». Campeggia sul legno che protegge il restauro del cinquecentesco Palazzo Caetani alle Botteghe Oscure. Dietro quell’immensa mole c’è l’antico Ghetto. La città ebraica nel cuore della città di Roma. Lì, almeno dal XII secolo, vive la comunità degli ebrei romani, la più antica della Diaspora nel Mediterraneo, duemila anni di radicamento tra Cesari e Papi. Il Ghetto fu abolito solo nel 1870, ultimo in Europa Occidentale, dopo l’Unità.

Tensione Agenti di polizia schierati nel ghetto ebraico di Roma (Ansa/Guido Montani)

Lo spray, invece, ha poche ore. Risale a lunedì pomeriggio, al corteo pro Palestina. Da lì hanno gridato «assassini, fascisti» al centinaio di ebrei romani corsi con la bandiera israeliana in piazza dell’Enciclopedia Italiana, il varco accanto a Palazzo Caetani, per evitare pericolose «invasioni» del Ghetto. Alberto Mayer, 41 anni, è un commerciante ma è anche uno studioso di ebraismo: «Cantavano "Bella ciao" verso di noi. Io ho dei partigiani, tra i miei familiari. E proprio non vedo similitudine tra la Resistenza e ciò che è avvenuto in queste ore...». I manifestanti non sono entrati ma hanno lasciato una scritta. Che amolti ebrei pare un segnale.

L’antico Ghetto vive ore dure. Polizia e carabinieri hanno triplicato controlli e presenza. L’angoscia stona coi cartelli che invitano all’allegro pranzo di Shabbat «T’empio lo stomaco», organizzato per sabato 5 al prezzo di 15 euro per i giovani romani dai 18 ai 35 anni, cibo kosher assicurato. Più in là, convocazione per il 4 giugno alle 9 al Tempio, 66° anniversario della sua riapertura dopo il fascismo. Prove concrete di dialogo, di confronto, di apertura. Adesso, c’è la paura che le ultime vicende riportino indietro molti, troppi orologi.

Perché tutto è cambiato in tre giorni. Per esempio l’uscita dei bambini della scuola primaria «Vittorio Polacco» in via del Tempio, angolo piazza Giudìa, come qualsiasi ebreo da secoli chiama lo slargone pedonalizzato tra l’attuale via del Portico d’Ottavia e le Cinque Scole. Fino a tre giorni fa i bambini, a scuola finita, giocavano in piazza, si rincorrevano, si perdevano d’occhio, ma non c’era paura. Adesso arrivano genitori, nonni, spalancano le macchine ( « ahò, salite qui, sbrigàteve!»). O si va via subito a piedi. Lo stesso succede ai ragazzi della secondaria «Angelo Sacerdoti». Più fluida l’uscita del liceo «Renzo Levi».

L’incubo degli ebrei romani ha una data: 9 ottobre 1982, attacco al Tempio, un attentato di estremisti palestinesi uccide Stefano Gaj Taché, di due anni appena, e ferisce 24 persone. Andrea Limentani, 35 anni, avvocato, ricorda bene quelle ore: «Lunedì hanno gridato "assassini" a noi ebrei romani. Poco prima dell’attentato del 1982, durante un corteo dei sindacati unitari qualcuno depositò una bara davanti al Tempio, sotto la lapide che commemora la deportazione degli ebrei romani del 16 ottobre 1943. Oggi, stesso clima. Un’atmosfera ostile trasversale, da destra come da sinistra, che spesso diventa antisemitismo. Sull’eccidio non può che esserci rammarico e dispiacere per il dramma dei morti civili. Ma prima di giudicare sarebbe bene capire. Perché tutto è successo su quella sola nave tra le tante altre?».

Ancora Alberto Mayer: «Tuttora non c’è una percezione esatta di cosa significhi essere ebrei italiani, romani ed essere israeliani. Noi siamo cittadini romani ebrei. Amiamo Israele. Ma possiamo nutrire un senso critico verso le sue scelte come qualsiasi altro cittadino europeo. Viviamo a Roma e, di fronte a certe manifestazioni, ci sentiamo impotenti» Il 1982? «Lo ricordo come fosse adesso, avevo 15 anni. Purtroppo le analogie sono tante. Sicuramente è diverso il clima politico».

La vita del Ghetto non si ferma. I turisti affollano i ristoranti kosher («Giggetto al Portico d’Ottavia», «Ba’Ghetto», «Kosher Bistrot Caffè»). Trionfi di carciofi alla giudìa, odore di fritti e di spezie, di dolci caramellati del mitico forno di piazza, tutto si mischia e si lega alla cucina romanesca e del Medio Oriente. Avverte Leo Terracina, 47 anni, commerciante: «Se lunedì pomeriggio non fossimo stati pronti a difendere il nostro territorio, il casino sarebbe stato inevitabile. La paura è che la prossima volta non vengano a manifestare spinti dall’antisionismo ma direttamente dall’antisemitismo. I morti? Arabi o israeliani che siano, quando ci sono, significa che tutti hanno perso».

Angelo Sermoneta, detto «Baffone», motore dell’associazione «I ragazzi del ’48» in via della Reginella: «Ma cosa c’entriamo noi ebrei romani con gli israeliani? Perché devo andare a pregare al Tempio tra camionette di polizia e carabinieri? Forse abbiamo rubato? E poi, per giudicare gli avvenimenti, aspettiamo l’inchiesta, no?». C’è la fila al forno dei dolci. Risate: «C’è la crostata?» Sembra un giorno qualsiasi. Ma no, non lo è.

La Repubblica-Marco Ansaldo: " Noi ebrei di Istanbul solidali con la gente di Gaza"

Mario Levi, scrittore turco

ISTANBUL - «Mi sento completamente diviso. Se fossi musulmano, o semplicemente laico, sarebbe più facile. Ma sono uno scrittore turco ebreo, e allora i miei sentimenti vanno dalla soddisfazione per le parole dure usate dal premier Erdogan contro Israele, all´ira per la stupidità dei governanti di Gerusalemme, alla rabbia per come talvolta vengono presentate qui le cose in tv, anche se non posso affatto parlare di antisemitismo in Turchia».
È un fiume in piena Mario Levi, autore apprezzato anche in Italia (il suo colossale «Istanbul era una favola», più di 700 pagine pubblicate da Bompiani, ha avuto un ottimo riscontro), mentre all´Università di Yeditepe, sulla parte asiatica del Bosforo, corregge gli esami degli studenti, e contemporaneamente pensa alle valigie per volare a Venezia dove da giovedì ha in programma alcune lezioni.
Il titolo del suo prossimo libro, «Dove stavi quando arrivò l´oscurità?», già prenotato in tutta Europa, sembra quasi una metafora della notte maledetta dei pacifisti turchi. E Levi non smette di tornare alla vigilia dell´attacco.
Perché?
«Perché intanto ringrazio il cielo che in Israele ci siano ancora giornalisti come Gideon Levy, che sul quotidiano Haaretz già la scorsa settimana aveva previsto che il suo Paese stesse entrando in quello che ha definito "un mare di stupidità"».
Gerusalemme poteva comportarsi diversamente?
«Altroché. Avrebbe potuto accompagnare la "Mavi Marmara" sotto il suo controllo fino al porto di Ashdod. Non si uccide così deliberatamente come è stato fatto».
C´è chi sostiene la tesi della provocazione.
«Parlerei piuttosto da parte di Israele di una chiara dimostrazione di debolezza e di mancanza di fiducia in sé stessa. Un grande Paese non agisce così, con un atto di terrorismo. Non era quella la soluzione».
Israele ha sbagliato?
«Se io fossi cittadino israeliano, intendiamoci, starei con l´organizzazione pacifista Peace Now. Ho ovviamente simpatia per lo Stato d´Israele. Ma questo non significa non poter criticare un governo in cui c´è un primo ministro sciovinista, Netanyahu, un ministro degli Esteri fascista, Lieberman, e uno della Difesa stolto, Barak».
Gli elettori israeliani hanno scelto liberamente.
«Sì, ognuno si sceglie i governanti che crede. Mi sembra però una situazione paradossale. La gente, in fondo, si sceglie il proprio destino».
Erdogan fa bene a reagire con questa veemenza verbale inusuale contro Israele?
«Erdogan ha fatto un´ottima dichiarazione. Bisogna dire che il suo partito fa molto di più rispetto ai socialdemocratici o ai nazionalisti».
E la comunità ebraica di Istanbul che cosa dice?
«Hanno fatto un comunicato molto duro sul loro sito ufficiale, protestando per l´accaduto. È lo stesso sentimento provato quando ci furono i bombardamenti sulla Striscia di Gaza».
Nessun problema per gli ebrei a vivere in un ambiente a stragrande maggioranza musulmana?
«Io non vivo in questo Paese una sensazione di antisemitismo. Anche se poi, a volte, percepisci quasi di essere considerato uno straniero».

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