Riportiamo dal RIFORMISTA del 05/05/2010, a pag. 10, l'intervista di Anna Momigliano a Ugo Volli dal titolo " Il JCall degli ebrei, pressione indebita ", dal RIFORMISTA di oggi, 07/05/2010, a pag. 10, l'articolo di Anna Momigliano dal titolo " La diaspora ebraica può criticare Israele? Dipende", preceduto dal nostro commento. Da LIBERO, a pag. 22, l'articolo di Angelo Pezzana dal titolo " Un nuovo manifesto per condividere le ragioni di Israele ". Dal CORRIERE della SERA, a pag. 49, l'articolo di Antonio Carioti dal titolo " Israele divide gli ebrei d’Europa ".
Ricordiamo il link per firmare la petizione 'Con Israele, con la Ragione':
http://www.petitiononline.com/israel48/petition-sign.html
Ecco i pezzi:
Il RIFORMISTA - Anna Momigliano : " Il JCall degli ebrei, pressione indebita "
Ugo Volli
Nelle intenzioni doveva essere un'iniziativa bi-partisan. Ma a pochi giorni dalla sua presentazione al Parlamento europeo, il documento Jcall - ossia l'appello alla ragionevolezza in cui si critica l'espansione degli insediamenti israeliani, firmato tra gli altri da Bernard-Henri Levy, Gad Lerner e l'ex presidente svizzera Ruth Dreyfuss - sta creando un grande polverone. In Francia stato criticato da Richard Prasquier, presidente della Crif, ossia la commissione che rappresenta le organizzazioni ebraiche d'oltralpe. E adesso il dibattito si sta intensificando anche in Italia. Tra chi si è schierato contro il documento c'è anche il semiologo torinese Ugo Volli, editorialista di Pagine Ebraiche e di Informazione Corretta, l'osservatorio sui media vicino agli ambienti conservatori filo-israeliani. Al Riformista dice di «non capire dove vuole andare a parare» l'appello e di considerarlo «un'iniziativa antidemocratica».
Che cosa pensa dell'appello alla ragione di Jcall?
E' un documento intempestivo, sbagliato e antidemocratico. Arriva nel momento peggiore, dice quello che fino a poco tempo fa diceva Jstreet (il gruppo di pressione filo-israeliana vicino a Obama, Ndr), proprio mentre Jstreet ha smesso di dirlo. Proprio adesso invece, con la minaccia iraniana e mentre Hezbollah e Hamas si stanno riarmando, Israele avrebbe bisogno di sostegno. Perché lo definisce antidemocratico?
Perché i firmatari si assumono una rappresentatività che non ha alcun corrispettivo nei dati elettorali, in Europa e in Italia. Pensano di svolgere una funzione di supplenza nei confronti di una linea politica che è stata sancita da processi democratici, questa almeno è stata la mia impressione leggendo l'intervista a Gad Lerner pubblicata ieri dal Riform ista. Inoltre mi preoccupa il passaggio in cui si chiede a Stati Uniti e Unione europea di influenzare la politica di Israele. Mi chiedo come si reagirebbe in Italia se qualcuno volesse fondare un gruppo di pressione che chiede agli americani di rovesciare Berlusconi.
Nessuno però qui ha chiesto di rovesciare il governo israeliano, né di dettare una linea politica. Si auspicano solo «forti pressioni» da parte europea e statunitense.
Però la teoria è sempre quella del tough love . Anche in una certa sinistra israeliana va di moda pensare che l'unica soluzione è che Obama imponga la sua linea e salvi Israele dalla follia. Io lo trovo sgradevole, specie quando arriva dall'esterno.
Un appello firmato, tra gli altri, da Bernard-Henry Levy non si merita di essere considerato bipartisan?
Davvero? A me sembra che i firmatari siano prevalentemente personaggi legati in modo più o meno lasco a una sinistra più o meno moderata. L'appello di Jcall rappresenta per l'ebraismo europeo quello che i vari Avraham B. Yehoshua e gli intellettuali che ruotano intorno Haaaretz rappresentano nella società israeliana: sono posizioni che rispecchiano sì e no il cinque per cento dell'elettorato. La stragrande maggioranza degli ebrei europei ha una posizione di appoggio a Israele. Come in Israele, per , anche in Europa esiste una piccola minoranza che riceve molta attenzione, specie in rapporto a quello che conta veramente. Sono persone che hanno un buon accesso ai media e di conseguenza lo sfruttano per apparire pi rilevanti di quanto non siano.
A leggerlo il documento non dice cose radicali. Due popoli e due Stati, no alla costruzione di nuovi insediamenti...
In effetti non si capisce dove voglia andare a parare questo documento. I casi sono due. O dice quello che ha già detto il capo del governo israeliano Benyamin Netanyahu, che nel suo discorso di Bar Ilan ha già messo in chiaro di accettare la creazione di uno Stato palestinese. Oppure avvalla, implicitamente, la posizione dell'Anp, che considera tutta Gerusalemme Est un territorio palestinese: questo equivale a considerare le richieste palestinesi nonnegoziabili.
L'appello tocca anche la questione demografica: se Israele mantiene le colonie, non può pi essere un Paese a maggioranza ebraica. Da quando la Realpolitik è solo di sinistra?
Qui si parte da un grave errore di fondo. Nessuno ormai in Israele, se non pochi casi isolati della destra estrema, crede pi che si possa o si debba annettere la Cisgiordania. Neppure Avigdor Lieberman dice cose simili. Il mito della grande Israele non ha più una rilevanza politica. Il problema per è che non si può neppure ritornare ai confini del 1967, come vorrebbe l'Anp. La soluzione più sensata, che è quella cui sta puntando l'attuale governo israeliano, è trovare un compromesso in base alla distribuzione degli insediamenti più grandi.
LIBERO - Angelo Pezzana : " Un nuovo manifesto per condividere le ragioni di Israele "
Angelo Pezzana
Che gli ebrei, dopo quasi venti secoli di esilio, nei quali hanno vissuto da sudditi invece che da cittadini, abbiano sviluppato un senso particolarmente attento a tutto ciò che concerne la giustizia, è un fatto. Che lo dimostrino schierandosi, quando è il caso, in difesa dei diritti dei palestinesi nei territori contesi della Cisgiordania, anche quando uno dei contendenti di una parte di quei territori è lo Stato di Israele, è un altro fatto che semmai torna ad onore di chi dimostra così la propria imparzialità nel giudicare torti e ragioni. Ma quando queste ultime vengono attribuite unicamente a chi in questi sessant'anni non ha cercato altra soluzione se non la distruzione dello Stato ebraico per sostituirlo con uno arabo, allora quel senso di giustizia va chiamato con un altro nome, la cui radice va cercata in un manuale di psicoanalisi, come Freud ci ha insegnato. Solo così si arriva a capire, non a giustificare, ma a capire cosa ha spinto un discretamente folto numero di ebrei europei, in parte francesi, a firmare un appello nel quale, sulla scia della politica mediorientale di Obama, chiedono al governo israeliano di cedere a tutte le richieste che i palestinesi presentano per arrivare ad un accordo di pace con Israele. La nuova tecnica è quella dei diktat, se Israele non ubbidisce, allora vuol dire che non vuole la pace. E dato che questa musica finora l'avevano suonata gli arabi, fino ad oggi senza alcun risultato, allora ecco la nuova linea, passare lo spartito ad alcuni ebrei, e dato che in Israele è difficile trovarne visto che la realtà di quanto avviene la conoscono bene, siano di destra o di sinistra, sostengano il governo o stiano all'opposizione, ecco la diaspora venire in soccorso, in modo particolare in Europa, dove la Pace senza condizioni, con la P maiuscola, è un prodotto molto richiesto sul mercato dei media e della politica. Ne è nato un appello, "Jcall ", che ha trovato le firme di molti intellettuali, circa tremila, anche di provenienze politiche diverse, ma tutti uniti nell'attribuire al solo Israele la responsabilità di un eventuale fallimento delle trattive che stanno per iniziare tra Netanyahu e Abu Mazen, soto la guida di George Mitchell, l'inviato di Obama. Per fortuna all'appello di Jcall, nato anche come un forte attacco contro Elie Wiesel, che aveva esaltato il carattere ebraico di Gerusalemme in una sua lettera- manifesto uscita sui maggiori quotidiani americani, ne è seguito un altro, su iniziativa dell'On. Fiamma Nirenstein, che riunisce saggiamente non solo ebrei ma cittadini di qualunque provenienza, religiosa e politica, che hanno ben chiare le ragioni dello Stato ebraico in un momento nel quale sta lottando contro un pericoloso rinascente antisemitismo, non solo europeo ma fomentato in gran parte del mondo musulmano, aiutato dalla criminale politica iraniana che predica la scomparsa di Israele, e diffuso negli stati islamici, non solo in quelli che condividono le intenzioni del signor Ahmadinejad. Invece di operare affinchè la società palestinese accetti gli standard democratici per una pacifica convivenza con Israele, allo Stato ebraico vengono poste richieste che, se accettate, ne pregiudicherebbero la stessa sicurezza. “Con Israele, con la Ragione, è il titolo dell'appello per dare a Israele la propria solidarietà. Per leggerlo e condividerlo con la propria firma, andare sui siti http://www.fiammanirenstein.com e www.informazionecorretta.com
CORRIERE della SERA - Antonio Carioti : " Israele divide gli ebrei d’Europa "
Gerusalemme
Dal suo incontro alla Casa Bianca con il presidente Barack Obama, martedì scorso, il premio Nobel Elie Wiesel è uscito con la convinzione che le tensioni fra Stati Uniti e Israele siano in via di superamento. Ma certo sono tutt’altro che superati i contrasti sulla questione mediorientale tra intellettuali ebrei (ma non soltanto) innescati proprio da un appello di Wiesel uscito a metà aprile su alcuni tra i più prestigiosi quotidiani degli Usa.
L’anziano premio Nobel era intervenuto su Gerusalemme e sul vincolo «al di sopra della politica» che lega la città al popolo ebraico, affermando che oggi, sotto la sovranità d’Israele, a tutta la popolazione urbana, di qualsiasi fede religiosa, è garantita non solo la libertà di culto, ma anche una condizione di pari opportunità in fatto di licenze edilizie. Parole cui hanno reagito alcuni intellettuali israeliani di sinistra, come l’ex presidente del Parlamento Avraham Burg e lo storico Zeev Sternhell, che vi hanno letto un appoggio alla politica dell’attuale premier Benjamin Netanyahu, leader della destra sionista. È nata così una lettera aWiesel, sottoscritta da 99 studiosi, in cui si accusa il Nobel di sovrapporre un ideale astratto alla Gerusalemme reale, con «errori fattuali e false rappresentazioni», senza tener conto delle discriminazioni cui è sottoposta la popolazione araba della città.
Poco dopo veniva diffuso in Europa un altro documento molto critico verso il governo israeliano, su iniziativa del gruppo di intellettuali ebrei progressisti JCall (da European Jewish Call for Reason, «Appello alla ragione ebraico europeo»). I firmatari (tra cui Bernard-Henri Lévy, Alain Finkielkraut, Gad Lerner, il leader ecologista Daniel Cohn Bendit, il regista Elie Chouraqui) riaffermano «il legame con Israele» come «parte costitutiva» della loro identità, ma sostengono che l’occupazione e l’espansione delle colonie in Cisgiordania e nei quartieri arabi di Gerusalemme è «un errore politico e morale». Quindi dichiarano che il principio «due popoli, due Stati» è l’unica possibile via d’uscita dal conflitto, chiedono all’Unione Europea e agli Usa di esercitare «una pressione forte sulle parti in lotta», esortano la diaspora ebraica a impegnarsi nella stessa direzione. «Allinearsi in modo acritico alla politica del governo israeliano— si legge nel documento— è pericoloso perché va contro i veri interessi dello Stato d’Israele», in quanto la sua sopravvivenza «come Stato ebraico e democratico» risulta «strettamente legata alla creazione di uno Stato palestinese sovrano e autosufficiente».
L’appello di JCall, che ha raccolto ad oggi circa 5.000 firme, fa emergere con chiarezza il nucleo della contesa che divide il mondo ebraico circa il conflitto mediorientale. C’è chi, come i firmatari del documento, ritiene che Israele non faccia abbastanza per creare le condizioni di un accordo con i palestinesi e c’è chi invece indica nel rifiuto arabo e musulmano (corroborato dalle minacce atomiche dell’Iran) verso lo Stato ebraico il vero nodo da sciogliere, che rende impraticabile la soluzione «due popoli, due Stati».
Su questa linea si collocano infatti due appelli stilati in esplicita polemica con la linea di JCall. Il primo è stato diffuso in Francia da personalità come lo studioso del razzismo Pierre-André Taguieff e il direttore della rivista «Controverses», Shmuel Trigano. Il secondo, benché lanciato in Italia dalla giornalista Fiamma Nirenstein, deputata del Pdl, ha un carattere internazionale. Lo hanno sottoscritto, tra gli altri, Paolo Mieli, Giuliano Ferrara, Giorgio Israel, Riccardo Pacifici, ma anche il padre nobile dei neocon americani Norman Podhoretz, lo storico Michael Ledeen, l’editorialista del «Jerusalem Post» Caroline Glick.
Il documento francese afferma che JCall «va contro i suoi obiettivi dichiarati», perché «contribuisce ai tentativi di boicottaggio e di delegittimazione che minano lo Stato d’Israele», ignorando completamente che ogni segnale di buona volontà proveniente dallo Stato ebraico (come il ritiro dal Sud del Libano e quello dalla striscia di Gaza) non ha fatto altro che imbaldanzire la parte più fanatica ed estremista della controparte araba.
Ancor più duro l’appello di Fiamma Nirenstein, che attacca anche gli intellettuali scesi in campo contro Wiesel, critica la linea di Obama e difende Netanyahu. «Voler spingere Israele a concessioni territoriali senza contraccambio— dichiarano i firmatari— significa semplicemente consegnarsi nelle mani del nemico senza nessuna garanzia». Le tesi di JCall vengono qui presentate come parte di «una triste epidemia perbenista, con la quale probabilmente si pensa di fornire un po’ di ossigeno ai movimenti pacifisti», mentre non si fa altro che favorire i nemici d’Israele, consentendo loro di dire: «Anche molti ebrei sono dalla nostra parte».
Accuse alle quali Lèvy, su «Le Monde» di ieri, risponde ricordando il suo lungo impegno a favore di Israele. Il filosofo francese denuncia la furia «islamofascista» di Hamas e avanza qualche riserva sul testo dell’appello di JCall, ma ribadisce che si tratta di «una buona iniziativa», poiché a suo avviso amare lo Stato ebraico significa anche distinguerlo dalla politica del suo governo, al quale addebita errori molto gravi. Su una linea analoga, in Italia, l’assessore alla cultura dell’Unione delle comunità ebraiche Victor Magiar, secondo cui l’appello contro JCall contiene «una distorsione delle tesi altrui».
Certo è che, se i sostenitori di Israele appaiono divisi, i suoi avversari non demordono anche dalle iniziative più oltranziste. Basti pensare che oggi a Torino Gianni Vattimo e altri docenti universitari lanciano un «appello per il boicottaggio accademico e culturale» dello Stato ebraico, che tacciano di «politica genocidaria» assimilandolo al Sudafrica razzista dell’apartheid.
IL RIFORMISTA - Anna Momigliano : "La diaspora ebraica può criticare Israele? Dipende"
L'articolo di Anna Momigliano,paradossalmente, è utile per comprendere la situazione, dal momento che ciò che descrive è l'esatto opposto di ciò che accade.
Ecco il pezzo:
Anna Momigliano
Una volta mi è capitato di parlare, in un'associazione ebraica fenmiinile milanese, con una donna israeliana che si era trasferita da tempo in Italia e che qui aveva messo su famiglia. Mi aveva confidato di non sentirsela proprio di occuparsi di politica: «Non sono i miei figli che stanno facendo il servizio militare in Israele». Non ho potuto fare a meno di ripensare a quella conversazione, quando ho letto le dichiarazioni di Sergio Minerbi, ex ambasciatore israeliano presso l'Unione europea, al Foglio: «E vergognoso che intellettuali che se ne stanno comodamente seduti sulle loro poltrone parigine lancino sentenze su Israele», ha detto, riferendosi all'appello JCall contro l'espansione degli insediamenti, sottoscritto finora da circa 5mila ebrei europei, incluso Bernard-Henri Levy. E ancora: «Mi rifiuto di prendere in considerazione ciò che alcuni illustri fuggiaschi vorrebbero dettarci». Le parole di Minerbi riflettono un'attitudine diffusa in alcuni circoli israeliani - specialmente, ma non solo, conservatori: gli ebrei della diaspora «non hanno alcun diritto di immischiarsi nelle faccende interne di Israele», come ha detto recentemente un deputato del partito Unione nazionale, Aryeh Eldad. Sotto molti aspetti questa rivendicazione di indipendenza è moralmente giustificata: è facile, per gli ebrei europei, prendere posizioni sulle spalle degli altri. Tuttavia sorprende un po' che questi sussulti d'orgoglio si facciano sentire, quasi sempre, quando a parlare in modo critico è la parte più progressista dell'ebraismo europeo o statunitense. Eppure in altre occasioni le critiche ai governi di Gerusalemme, specie quando si tratta di governi inclini a fare concessioni ai palestinesi, non sono mancate dalle voci conservatrici della diaspora, e quasi nessuno li ha accusati di tradimento. Inutile negarlo: tra lo Stato di Israele e la diaspora c'è sempre stato un rapporto controverso, da quando i primi sabra , i figli dei pionieri nati in terra d'Israele, ripresero l'espressione biblica dor ha-midbar (la generazione del deserto) per riferirsi agli ebrei che raggiungevano la terra promessa in età adulta: non pi schiavi dell'Esilio, ma neppure nati liberi. Un rapporto di amore e odio, e a tratti scalfito da un accenno di disprezzo, descritto egregiamente dal romanzo di Yael Dayan, figlia di Moshe, La Morte Aveva due Figli e dall'opera teatrale I Figli dell'ombra di Ben-Zion Tomer: entrambi raccontano i tormenti di due appartenenti alla generazione del deserto che fanno di tutto per superare il loro complesso di inferiorità trasformandosi in veri israeliani . Persino lo scrittore A. B. Yehoshua è entrato in polemica con la diaspora, sostenendo che solo Israele consente a un ebreo di vivere appieno la propria identità. Tuttavia a Gerusalemme non mancano neppure voci che si sono espresse a favore della diaspora e del suo diritto di critica. Un recente editoriale di Haaretz faceva notare che in passato il governo israeliano ha sollecitato il sostegno da parte di alcuni intellettuali ebrei statunitensi: «Chi arruola gli ebrei di destra affinché sostengano la sua politica deve accettare che gli ebrei di sinistra esprimano la propria opinione». In un'intervista al Rformista lo scrittoreAssafGavron ha spiegato di considerare «ipocrita accettare il sostegno economico e politico della diaspora per poi offendersi quando arriva qualche critica». Ora, senza nulla togliere alla profonda stima per i colleghi di Haaretz e per Gavron, qui il discorso rischia di farsi poco elegante, specie se fatto dalla diaspora. Più che rivendicare una voce in capitolo in virtù del sostegno politico e del denaro elargiti (cosa che JCall, è bene ricordare, non ha mai fatto), i firmatari di JCall potrebbero fare notare che finora sul diritto di critica a Israele è sempre stato applicato un doppio standard disarmante. Molti commentatori conservatori, anche ebrei, hanno contestato dall'Europa e dagli Stati Uniti la decisione di Ariel Sharon di ritirarsi da Gaza. Altri hanno incitato Israele a intraprendere una linea più aggressiva con Hezbollah, prima che Ehud Olmert lanciasse la campagna militare del 2006. Nessuno li ha accusati di tradimento, né di parlare sulle spalle altrui. Eppure non risulta che questi pundit della diaspora si trovassero in prima linea nel difficilissimo lavoro di pattuglia dell'esercito israeliano nei Territori occupati, né tanto meno che siano stati i loro figli a morire in Libano. Incitare dall'esterno un governo altrui ad andare in guerra, e aversare il sangue dei propri cittadini, è per qualche ragione considerato pi accettabile che invitarlo a negoziare una pace a caro prezzo. Forse il paradosso sta proprio qui.
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