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La Stampa - Liberal Rassegna Stampa
08.04.2010 Erdogan contro Israele
Cronaca accondiscendente di Marta Ottaviani, analisi di Alexandre Del Valle

Testata:La Stampa - Liberal
Autore: Marta Ottaviani - Alexandre Del Valle
Titolo: «Erdogan: Israele minaccia la pace - Nuovo impero Ottomano»

Riportiamo dalla STAMPA di oggi, 08/04/2010, a pag. 13, l'articolo di Marta Ottaviani dal titolo " Erdogan: Israele minaccia la pace  ", preceduto dal nostro commento. Da LIBERAL,del 07/04/2010, l'articolo di Alexandre Del Valle dal titolo " Nuovo impero Ottomano ". Ecco i due articoli:

La STAMPA - Marta Ottaviani : " Erdogan: Israele minaccia la pace "


Erdogan stringe la mano ad Ahmadinejad

La cronaca di Marta Ottaviani è fortemente sbilanciata  favore della Turchia e delle tesi islamiste.
Le 'motivazioni' dell'astio di Erdogan contro Israele sono specificate con dovizia di particolari e mai contraddette. Anzi, Ottaviani le sposa, dal momento che scrive : "
L’indignazione di Erdogan per l’eccidio di bambini e le accuse pesanti rivolte al presidente dello Stato d’Israele Simon Perez sono state la prima incrinazione su un’alleanza che andava avanti da 60 anni ". Non c'è stato nessun eccidio di bambini durante la guerra a Gaza. E' ovvio che, essendo una guerra, le vittime ci sono state, da entrambe le parti.
Ottaviani avrebbe potuto ricordare il fatto che, durante Piombo Fuso, Hamas ha usato scudi umani e ricordare anche che, da quando Hamas è al potere nella Striscia, ogni giorno vengono panciati razzi contro Israele. Le vittime israeliane non contano? E il fatto che Hamas continui a lanciare razzi qassam contro Israele (oltre 300 dalla fine di Piombo Fuso), nemmeno?
Consigliamo a Ottaviani l'articolo di Alexandre Del Valle, pubblicato in questa pagina, per farsi un'idea di che cosa stia succedendo in Turchia e su quali siano le reali motivazioni che stanno allontanandola da Israele.
Ecco l'articolo di Ottaviani:

Da grande mediatore a principale voce critica di Israele, definito ieri, durante la visita a Parigi da Sarkozy, addirittura «la maggiore minaccia per la pace in Medio Oriente». La parabola del premier turco Recep Tayyip Erdogan si è consumata in poco più di un anno. Era il 7 dicembre 2008 quando Israele decise di reagire agli attacchi di Hamas e dette vita all’operazione «Piombo fuso» a Gaza. Fino a quel momento il primo ministro turco era riuscito a conquistarsi la fiducia di Gerusalemme. Proprio prima dello scoppio della guerra l’esecutivo islamico-moderato stava per compiere un passo storico: mettere d'accordo Gerusalemme e Damasco sulle Alture del Golan, che Israele era pronta a restituire in cambio di garanzie da parte della Siria e l’estradizione di alcuni capi di Hamas. Le trattative erano condotte da Ahmet Davutoglu, uomo di fiducia del primo ministro, che pochi mesi dopo verrà nominato ministro degli Esteri.
Stando a quanto scrisse la stampa turca in quel periodo, sembra che a fare irritare il primo ministro sia stata la decisione di Israele di attaccare senza avvertire la Turchia. Ad avvalorare l’ipotesi c’era il fatto che Ehud Olmert, il premier israeliano in quel momento, appena 5 giorni prima si era recato in Turchia e alla situazione di Gaza non aveva fatto il minimo accenno. Ankara si sarebbe in un certo senso sentita tradita, senza vedere riconosciuti gli sforzi che aveva compiuto. Il perdurare delle violenze contro i civili palestinesi, poi, avrebbe spinto l’esecutivo a cercare di fare cessare il conflitto il prima possibile. L’indignazione di Erdogan per l’eccidio di bambini e le accuse pesanti rivolte al presidente dello Stato d’Israele Simon Perez sono state la prima incrinazione su un’alleanza che andava avanti da 60 anni.
Secondo molti analisti però la vicenda presenta risvolti interessanti anche dal punto di vista interno. Erdogan ha realizzato che il criticismo nei confronti di Israele rapprsenta uno strumento elettorale potentissimo e concorre nello stesso tempo a indebolire maggiormente i militari, esponenti per eccellenza dello Stato laico, con i quali il premier non è in grande sintonia, che proprio con Gerusalemme hanno sempre intrattenuto rapporti ottimi. La prima prova di quanto potente fosse quest’arma il premier l’ha avuta al suo ritorno da Davos, quando trovò ad aspettarlo fuori dall’areoporto migliaia di persone in delirio. Per una delle tante contraddizioni della Turchia moderna, infatti, a fronte di un’alleanza che andava avanti da decenni, il popolo turco, per legami eminentemente religiosi si è sempre sentito molto partecipe delle sofferenze dei palestinesi. Il primo ministro lo ha capito subito e nel gennaio scorso ha anche dovuto garantire alle comunità ebraiche americane che era in prima fila per tutelare i circa 20 mila ebrei che vivono sul territorio turco, ribadendo che non dovevano essere collegati con quello che stava succedendo in Terra Santa. Da quel momento però la politica nei confronti di Israele è stata caratterizzata dall’impressione che Ankara volesse prendere le distanze dall’alleato storico.
Il rischio è enorme, anche perché all’allontanamento da Israele si sono accostati non pochi momenti di tensione con gli Stati Uniti, anche a causa della vicinanza del governo di Ankara all’Iran di Ahmadinejad. Erdogan con la sua politica, ha aumentato i consensi all’interno del Paese e posto ancora una volta la Turchia come punto di riferimento per tutto il mondo musulmano. La diplomazia della Mezzaluna è in mano a un fine stratega come Davutoglu, che fino a questo momento ha sempre saputo perfettamente fin dove poteva spingersi.
Ma i quotidiani nazionali si interrogano sul futuro, sul fatto se la Turchia possa realmente fare a meno dell’alleanza con Israele. E se, in questo caso, non si rischi una rottura troppo netta con un’impostazione durata decenni, che ha fatto della Turchia, musulmana e laica, un Paese unico in tutto il Medio Oriente.

LIBERAL - Alexandre Del Valle : " Nuovo impero Ottomano "


Recep Tayyp Erdogan

Quelli che credono che la prospettiva europea di Ankara sia una garanzia di "occidentalizzazione" e di rifiuto dell'islamismo radicale, commettono un grave errore. Perchè la diplomazia turca è sempre stata a vasto raggio e complessa: non meno asiatica, araba, persiana di quanto non sia europea o occidentale (quando non va contro i suoi interessi), e oggi sopratutto panislamica o "neo-ottomana". Paradossalmente, i turchi più laici ed europeizzati dell'Ovest (Istanbul, Smirne), ultimi difensori del modello secolarista kemalista ideato da Ataturk, minoritari, rappresentati sopratutto dal partito kemalista republicano del Popolo (Prp) e vicini al potere militare, sono spesso contrari all'adesione della Turchia all'Unione europea. Mentre il partito islamico Akp, che rappresenta le nuove élite economico-politiche reislamizzate dell'est anatolico, è il più grande sostenitore dell'adesione all'Ue. E non lo è diventato perché sostiene i valori filosofici dell'Occidente e condivide la storia e la cultura giudaico- cristiana e umanista della Vecchia Europa, ma perché la strumentalizzazione delle regole europee permettono di smantellare progressivamente il sistema militare-kemalista laico in nome della democrazia. Molti sostenitori della candidatura turca all'Ue affermano che questa sarebbe una "prova" di occidentalizzazione e che "garantirebbe" l'attacamento della Turchia all'Ovest e l'allontanamento dai paesi dell'islamismo radicale antioccidentale.
I fatti dimostrano proprio il contrario: nel 2005, appena cominciati i negoziati per l'adesione, il Consiglio Nazionale di sicurezza turco (Mgk), controllato dai militari, che poteva legalmente ostacolare le leggi anti-laiche, fu trasformato in un organo consultivo come esigeva il "quinto pacchetto di riforme"di Bruxelles.Venne così smantellata la più importante istituzione (dopo la presiden za della Repubblica, oggi in mano all'islamico Abdullah Gül) a garanzia del laicismo. Seguendo la stessa logica, in questi giorni, l'Akp si appresta a modificare la carta costituzionale, in vigore dall'inizio degli anni Ottanta e basata sulla laicità kemalista. Il vice-premier Cicek giustifica i cambiamenti in nome dei negoziati con Bruxelles. Nell'ambito del processo- scandalo nazionale Ernegekon, il governo filo-islamico si appoggia anche sull'Ue per deleggitimare gli ufficiali anti-islamici (ma anche gli intellettuali kemalisti laici membri della rete) accusandoli di preparare un golpe per ostacolare l'islamizzazione. Anche se la rete Ernegekon è effettivamente esistita, rappresentava una tendenza minoritaria dell'esercito ed era composta essenzialmente da ex-ufficiali pensionati e ideologi d'estrema destra anti-Nato ostili al vertice dell'esercito turco.

Con gli incoraggiamenti di Bruxelles, il governo islamico di Erdogan ha approfittato dello scandalo Ernegekon per screditare globalmente i kemalisti e nazionalisti turchi ostili all'islamizzazione. D'altronde, a livello internazionale, i leader dell'Akp vedono nell'adesione alla Ue l'occasione di sostituire la compromettente alleanza israeloamericana con quella, più filomusulmana, dell'Unione. I dirigenti di Ankara vogliono infatti dimostrare alla loro base filopalestinese che aderendo ai Ventisette (e riavvicinandosi all'Arabia Saudita, all'Oci e alla Siria) saranno meno dipendenti dai Satana "americano-sionisti". Per l'Akp, l'alleanza con la Nato e Israele è stata imposta dalla guerra fredda e dai militari kemalisti. Ed Erdogan non può opporvisi troppo per non provocare l'ira dei militari che ne traggono un vantaggio strategico (scambi di spazi aerei, importazione di alta tecnologia militare israelo-americana, ecc). Ciò non toglie che i diregenti Akp abbiano sempre denunciato questa alleanza per non perdere il loro elettorato islamico pro-palestinese. La nuova strategia nazionale, regionale e internazionale della Turchia è quindi basata sulla necessità di "riconciliare" Ankara con il suo vicinato islamico per: 1) favorire gli scambi economici; 2) presentare la Turchia come un "ponte" fra l'Occidente e il mondo islamico; 3) fare perdonare il "peccato originale" dell'alleanza con Israele. Questa nuova strategia panislamica è stata concepita da Ahmet Devatoglu, il ministro turco degli Esteri. Per Devatoglu, che è nato a Konya (Anatolia centrale), la Turchia deve aumentare la sua "profondità strategica", titolo di un suo libro. Una profondità che impone di bilanciare l'alleanza israeliana maledetta con un'alleanza "fraterna" con i vicini islamici, specialmente l'Iran o la Siria. Per Devatoglu, la Turchia, la Siria e l'Iran gettano le basi per un fronte unito dall'Asia ai confini della Cina (turcofona) che potrebbe modificare l'ordine regionale. Quindi, lungi dall'allontanarsi dai paesi islamici più pericolosi, la scelta europea di Ankara ha piuttosto accelerato l'avvicinamento ai peggior nemici dell'Occidente e di Israele. E questo non dovrebbe sorprendere, perché i dirigenti turchi non hanno mai nascosto la loro politica panislamica inaugurata sin dagli anni Ottanta dal premier nazional- islamista Ozal e poi negli anni Novanta dal premier islamico Erbakan, l'ex-maestro di Erdogan. Conosciamo tutti i leit motiv dei sostenitori della candidatura turca come ad esempio: «l'Europa deve provare di non essere un club cristiano» oppure: «è meglio averla con noi che contro di noi». La povertà di questi argomenti retorici risiede nel fatto che non tocca all'Europa scristianizzata (che accoglie milioni di musulmani e presidenmigliaia di moschee) dimostrare di non essere un club cristiano, ma alla Turchia reislamizzata (dove cristiani ed ebrei sono in pericolo) provare di non essere un club islamico. La Turchia di oggi è infatti membro di un club esclusivamente musulmano: l'Organizzazione della Conferenza Islamica (Oci), associazione degli Stati islamici con sede in Arabia Saudita e la cui presidenza è stata affidata a un turco: Ekmeleddin Ihsanoglu. Lo stesso che pretese da Javier Solana e dal Vaticano scuse ufficiali in merito - rispettivamente - al caso delle vignette blasfeme danesi e alle dichiarazioni di Papa Benedetto XVI sull'Islam all'Università de Ratisbona (Regenburg) che provacorono la furia del mondo musulmano (settembre 2006). Contestualmente, Erdogan suggerì all'Europa, secondo lui troppo anti-clericale, di «limitare la libertà d'espressione in materia religiosa».

Ricordo inoltre che alla 36esima sessione dei ministri degli Esteri dell'Oci, riunitasi di recente a Damasco per discutere di "promozione della solidarietà islamica", si è parlato di: "solidarietà" incondizionata ai palestinesi; condanna delle "aggressioni" del regime israeliano; lotta all'islamofobia e anche all'iranofobia, riguardo il dossier nucleare iraniano e il tentativo occidentale di "isolare" e "umiliare" Teheran. Una delle proposte è stata quella di creare dei caschi verdi, composti da truppe dei 57 Paesi dell'Oci, che appoggia l'applicazione della legge islamica e la condanna dell'islamofobia in seno alle Nazioni Unite, dove Ankara esercita, assieme al Pakistan, alla Lega Araba e all'Arabia Saudita, una efficace lobby pro-islamica. Ankara è diventata l'alleata strategica delle dittature islamiche come l'Iran o il Sudan, degli Stati dittatoriali alleati a Teheran e anti-occidentali come la Siria, il Sudan, il Venezuela e la Bolivia. Con la Siria degli Assad, che appoggiano Hamas ed Hezbollah, Ankara ha firmato tre accordi di cooperazione dal 2005. È inoltre diventata un alleato diplomatico del regime militar-islamista del Sudan del generale Al-Bashir, condannato dall'Onu e dalla Corte penale internazionale per genocidio. Dagli anni Novanta,Ankara si è molto avvicinata all'Arabia Saudita. Lo stesso presidente turco Abdullah Gul ha lavorato 8 anni come consulente presso la Banca Islamica dello Sviluppo (Bis) che finanzia organizzazioni islamiche radicali col denaro della Zakat. Parallelmente, la Turchia si è avvicinata all'Iran. Quando nel giugno 2009, i giovani manifestanti democratici iraniani contestavano la legittimità della rielezione di Ahmadinejad, i dirigenti turchi furono tra i primi al mondo a congratu congratularsi con Ahmadinejad. I motivi profondi della nuova alleanza geopolitica Iran-Turchia sono: 1) gli interessi geopolitici comuni. Ankara ha bisogno dell'energia (petrolio e gas) iraniana per il proprio consumo. Le pipeline e i gasdotti attraverseranno sia il territorio turco sia quello degli altri paesi membri dei paesi turcofoni (i cosiddetti T6: Azerbaigian, Turkmenistan, Tagikistan, Uzbekistan, Kirgikistan e Turchia). 2) Gli scambi commerciali, che si calcola supereranno a breve i sei miliardi di euro all'anno. 3) L'antikemalismo: benchè l'Iran sia sciita e la Turchia sunnita, e benchè la costituzione turca si riferisca al kemalismo laico di Ataturk, i due governi sono ugualmente contrari al kemalismo "anti-islamico" inaugurato da Ataturk, visto come un apostata. 4) Il nucleare iraniano: secondo Erdogan, è ingiusto fare pressioni sull'Iran per il suo programma atomico, visto che nella regione "qualcun altro"- ovvero Israele - possiede queste armi. Il governo neo-islamico non ha mai accettato l'alleanza con Israele imposta dai militari kemalisti. Dall'operazione Piombo Fuso a Gaza in poi, Erdogan ha regolarmente criticato Israele. Fino a chiedere il suo bando dall'Onu.

Il raffreddamento nei suoi confronti si è manifestato anche con il recente rifiuto a farsi aiutare dopo il recente terremoto nella provincia di Elazig (Turchia orientale, 41 morti). A giudizio del governo a guida Akp accettare tale offerta d'aiuto sarebbe stato mal percepito dalla popolazione turca sempre più fanatizzata contro Israele. Un diniego arrivato poco tempo dopo la grave crisi turco-israeliana scoppiata a causa di una serie televisiva turca antisemita molto popolare in Turchia, La Valle dei Lupi. Il background ideologico antisemita e anti-israeliano di Erdogan e dell'Akp spiega gli eccessi verbali contro gli ebrei e Israele. Ricordiamo ciò che ha rivelato il quotidiano Hurriyet: nel 1974, all'interno delle attività culturali del partito islamico Msp di Necmettin Erbakan, Erdogan, che era responsabile della Commissione per la gioventù, scrisse e mise in scena in tutto il paese un opera teatrale chiamata Maskomya che stigmatizzava «il complotto degli ebrei, creatori delle lobby massoniche e del comunismo». Nel dicembre 1996, durante il suo mandato a sindaco di Istanbul, e dopo aver fatto visita alla grande sinagoga della città, Erdogan dichiarò che «un complotto mondiale ordito da ebrei sionisti minacciava di prendere il controllo del pianeta». Oggi in Turchia, la recrudescenza dell'odio antigiudaico (legato alla sovraesposizione mediatica del conflitto israeliano-palestinese), ha dato una nuova popolarità alle tesi sul complotto giudeo-massonico e sulla negazione della Shoah.

La lista dei best seller in Turchia include il Mein Kampf di Adolf Hitler, pubblicato 45 volte, l'edizione del Testamento politico di Hitler e del celebre pseudo giudeofobico I Protocolli dei Saggi di Sion, pubblicato più di cento volte tra il 1943 e il 2009.Tra le opere antisemite di gran successo troviamo quelle di Adnan Hoca, alias Harun Yahya, che denuncia il «giogo giudaico-massonico» e «l'alleanza tra nazismo e sionismo » e quelle di Aydogan Vatandas, autore di best seller incendiari tra cui Haarp e Agharta, che denunciano i progetti di dominazione planetaria degli Stati Uniti, delle forze occulte giudaico-massoniche e l'alleanza turco-israeliana. In cima agli scaffali il romanzo fantapolitico più venduto di questi ultimi anni è Metal Firtina (Tempesta di metallo), il solo ad aver tenuto testa al Codice da Vinci. Racconta l'occupazione della Turchia da parte degli Usa e termina con un "happy end": la vittoria del piccolo Davide turco sul Golia imperialista americano.

Nella Turchia candidata ad entrare nella Ue, si osserva una deriva autoritaria preoccupante del governo Akp.Tutto è cominciato quando Erdogan ha intentato un'azione giudiziaria contro il caricaturista Musa Kart, che l'aveva dipinto come un gatto arrotolato in un gomitolo di lana. Kart fu condannato ad un'ammenda di 3mila euro. Da quando è primo ministro, Erdogan ha intentato 130 processi, quasi tutti per degli articoli e delle caricature a suo giudizio lesive. Queste azioni giudiziarie si sono quasi sempre concluse con delle gravi multe per gli autori. Da qualche anno, però, il premier ha deciso di eliminare anche la stampa anti-islamica e i gruppi finanziari che appoggiano i movimenti aleviti laici o le personalità kemaliste anti-islamiche. Come il gruppo Suzer, dell'alevita Mustafa Suzer, finanziere dell'organizzazione alevita di Izzedin Dogan. Erdogan ha fatto proibire le attività bancarie del gruppo Suzer (processo in corso alla corte di Strasburgo) e lo ha fatto condannare a versare millioni di euro per aver appoggiato il capo degli aleviti, accusato di essere vicino a Israele e all'esercito. Poi ha attacato Cem Uzan (ora rifugiato in Francia, anch'egli alevita), proprietario della televisione e dei media del gruppo Star, al quale non ha mai perdonato di aver pubblicato una foto che lo ritraeva inginocchiato (in segno di rispetto) davanti al pericoloso terrorista afgano Gubuldin Hekmatyar, che accolse nel 1998 quando era sindaco di Istanbul.

Ultima delle grandi famiglie alevite perseguitate per aver denunciato «l'agenda nascosta » di Erdogan, è quella del magnate dei media Aydin Dogan, condannato a una multa di 2 milliardi di euro. Il gruppo Dogan Yayin Holdings, con 7 quotidiani (fra cui Milliyet e Hurriyet), 28 riviste e 3 Tv, era l'unico impero mediatico capace di sfidare la potenza crescente dell'Akp. Stranamente in Occidente, dove le limitazioni alla libertà di stampa in Russia suscitano sempre, e a ragione, l'indignazione di tutti, l'episodio non ha provocato la stessa reazione. Delle due l'una: o i turchi islamici si possono perdonare, oppure fanno semplicemente più paura.

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