Riportiamo dalla STAMPA di oggi, 16/11/2009, a pag. 33, l'intervista di Maria Giulia Minetti ad Azar Nafisi dal titolo " Essere (stati) laici a Teheran ".
"Le cose che non ho detto" (Adelphi, pp. 342, e19,50), è il suo nuovo libro.
Azar Nafisi
Famosa in tutto il mondo per il suo libro di memorie pedagogiche Leggere Lolita a Teheran, dove si narra di un seminario di letteratura privato e «speciale» tenuto con sei studentesse dopo che l’autrice ha abbandonato l’insegnamento universitario per le vessazioni del regime islamico, l’iraniana Azar Nafisi torna con un’altra opera affidata ai ricordi, ma questa volta si spinge più indietro. Intitolata Le cose che non ho detto (Adelphi, pp. 342, e19,50), è una ricognizione famigliare centrata sulle figure del padre e della madre dell’autrice, personaggi dell’alta società iraniana, progressisti - il padre per parecchi anni sindaco di Teheran, la madre, come molte donne degli anni Cinquanta, divisa tra emancipazione (sarà anche deputato) e tutela di un «retto» comportamento femminile che di fatto continua a limitarne la libertà. Entrambi, e la cerchia maschile e femminile che li circonda, istruiti, poliglotti, franchi nel discutere, laici.
Difficile scorgere una «specificità» iraniana nel ritratto che lei traccia del Paese all’epoca della sua infanzia e giovinezza, signora.
«Questo è un libro di memorie private, non un libro politico o un trattato sociologico. Tuttavia il suo stupore è lo stupore di tanti occidentali che si aspettano, in un Paese orientale, tratti “orientalisti”. L’Iran non era così, semplicemente».
Lei offre il ritratto di una società molto aperta nel discutere. Chi ha letto Shah-in-shah, il reportage di Ryszard Kapuscinski sulla rivoluzione iraniana del 1979, ha avuto un’impressione tutta diversa. Il libro comincia narrando l’onnipresenza della Savak, la polizia segreta, che terrorizza tutti, chiude ogni bocca.
«Il governo dello Scià è passato attraverso molte trasformazioni. La Savak è arrivata dopo Mossadeq \. In ogni caso le efferatezze della Savak non sono paragonabili a quelle della Repubblica islamica».
Cioè?
«L’oppressione era assai inferiore. Il numero dei prigionieri politici della Savak era di circa quattromila, ma nel primo mese successivo alla rivoluzione le persone uccise dal regime già superavano quella cifra. Detto questo, certo che l’oppressione dello Scià esisteva. Il no al pluralismo politico portò infine alla sua caduta. Di quell’oppressione nel libro parlo attraverso il racconto della prigionia di mio padre, chiuso in carcere per più di quattro anni con accuse di corruzione e insubordinazione poi completamente smontate».
A partire dalla prigionia di suo padre - peraltro «soft»: ha una cella tutta per sé, riceve visite quotidiane - lei si radicalizza. In America, all’università, frequenta il Movimento degli Studenti iraniani all’estero, che spingono per l’abbattimento della monarchia. Anche lei crede nell’alleanza col clero...
«Noi laici ignoravamo il potere della religione. Perché? Perché in Iran, dopo la Costituzione del 1909, tutti i leader erano sempre stati laici. Credevamo che i religiosi, dopo la vittoria, si sarebbero ritirati a Qom! I mullah, invece, non solo avevano battuto un villaggio dopo l’altro facendo appello alla religiosità della gente, ma promettendo i proventi del petrolio. “Adesso se li tiene lo Scià” dicevano. “Dopo, li distribuiremo a voi”. Così hanno vinto, nel nome del popolo e per il popolo. E poi l’hanno tradito. Dei proventi del petrolio, il popolo non ha visto neppure l’ombra».
Lei lamenta soprattutto il sogno di libertà infranto.
«Dopo la caduta di Mossadeq, che è stato l’idolo dei miei genitori, lo Scià è scivolato sempre più lungo la china della repressione, ogni spazio per il dialogo politico si è chiuso. Una chiusura che mi ha spinto a unirmi al movimento studentesco. Volevamo la libertà politica, capisce? E quello che abbiamo ottenuto è stato non solo una privazione della libertà politica peggiore di prima, ma anche la perdita della libertà personale!».
Il respiro politico appartiene all’ultima parte di Le cose che non ho detto. Prima la narrazione è soprattutto intima, famigliare. Si ha quasi l’impressione che lei tenti un vero romanzo di caratteri, ma la parentela coi personaggi la freni…
«Ho scritto Leggere Lolita a Teheran per mostrare come la gente nel mio Paese attraverso la letteratura riesca a connettersi al mondo. Ma dopo averlo scritto mi sono trovata marginalizzata, relegata alla voce “politica e resistenza in Iran”. Io non accetto questo limite, voglio essere uno scrittore e basta».
L’ultimo libro risponde a questa esigenza o addirittura alla voglia di essere un romanziere?
«Io penso che il romanzo sia la forma suprema del raccontare, ma non so se sarò capace di scriverne uno. Fino a ora ho narrato solo memorie. Spinta da un bisogno politico in Lolita, da una necessità affettiva in Le cose che non ho detto. Dopo la morte dei miei genitori non facevo che pensare al nostro rapporto. Ricco. Complicato. Con mia madre molto doloroso. Scrivendone, ho cercato di venire a patti con loro».
Mi scusi, ma in conclusione vorrei tornare alla scrittrice «politica». Cosa prevede per il suo Paese?
«Sono molto cauta nel fare previsioni, ma è evidente che lo scontento aumenta. Fra la gente, ma anche fra i detentori del potere. Nella capitale, ma anche nelle città di provincia. Invece di “Morte all’America”, “Morte alla Gran Bretagna”, si sente gridare “Morte alla Cina”, “Morte alla Russia”, cioè agli Stati che appoggiano il regime. Ma attenzione, il movimento deve restare pacifico, gandhiano, fino a dare per scontato che ci saranno altri morti, che il regime ucciderà e ucciderà prima di cadere. La forza della rivoluzione khomeinista è stato il suo impeto pacifico. È l’unica lezione che ci può dare. Ma è la più importante».
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