Sul CORRIERE della SERA di oggi, 04/10/2009, a pag. 30-31, con il titolo "L'antisemitismo cristiano ha radici pagane ", Paolo Mieli ne analizza la storia.
da sin.Tito, Adriano, Giuseppe Flavio
La Storia dell’antisemitismo scritta da Léon Poliakov a ridosso del processo di Norimberga e pubblicata poi negli Anni Cinquanta (in Italia da Sansoni) dedica un numero di pagine davvero limitato alla origine dei sentimenti di ostilità nei confronti degli ebrei che pure si registrano prima dell’età cristiana: «Non scopriamo nell’antichità pagana — scrisse Poliakov — quelle reazioni passionali collettive che in seguito renderanno la sorte degli ebrei così dura e precaria». Riconosceva, Poliakov, che si deve fare un’eccezione per la città di Alessandria, dove esisteva una grande comunità ebraica e i conflitti tra gli ebrei e la popolazione greca erano «frequenti e acuti» così che dovettero registrare ripetute «esplosioni di collera popolare contro gli ebrei». Ma, aggiungeva, «come regola generale l’Impero romano dell’epoca pagana non ha conosciuto l’antisemitismo di Stato». E con questo ridimensionava del tutto le espressioni antiebraiche che troviamo in abbondanza negli scritti di Diodoro Siculo, Filostrato, Pompeo Trogo, Giovenale, Tacito, Orazio, Valerio Massimo e Seneca.
Qualche decennio dopo Peter Schäfer in Giudeofobia.L’antisemitismo nel mondo antico (Carocci) si è soffermato — in base a un’ampia documentazione — su un’indicazione che il re greco di Siria Antioco VII ricevette dai suoi consiglieri all’epoca dell’assedio di Gerusalemme (135 a.C.) secondo cui non ci si doveva limitare a espugnare la città ma sarebbe stato opportuno «estirpare completamente la razza dei giudei ». A partire da ciò Schäfer ha sostenuto che si può parlare di antisemitismo in pieno rigoglio «ben prima dell’avvento del cristianesimo ». Ne è nato un dibattito dalle evidenti implicazioni. E furono in molti a polemizzare — sia pure tra le righe — con Schäfer. Uno per tutti lo studioso di Oxford Jasper Griffin il quale (recensendo Giudeofobia su «La Rivista dei libri», settembre 1999) riconobbe che sì, anche in età precristiana «ci furono casi in cui si proiettarono sugli ebrei fantasie di sacrifici umani e giuramenti ratificati con sangue umano» ma, aggiunse, «sono storie rare, che si narravano anche al riguardo di altri gruppi, druidi, cristiani, congiurati di Catilina e non erano dunque prerogativa esclusiva degli ebrei».
Adesso la discussione è destinata a riaprirsi per merito di un voluminoso saggio di Martin Goodman, la cui parte conclusiva prende in esame lo scontro che oppose Roma a Gerusalemme tra la fine del primo e l’inizio del secondo secolo dopo Cristo. Una resa dei conti spietata che, secondo le stime contenute nella Guerra giudaica di Giuseppe Flavio, provocò oltre un milione e centomila morti. Cifra sbalorditiva per l’epoca. Era inevitabile, si chiede l’autore, l’urto tra romani e giudei che ebbe come esito, nel 70 d.C., quella carneficina e soprattutto la distruzione del Tempio di Gerusalemme? O quantomeno era inevitabile che quel conflitto assumesse un tratto per così dire definitivo? Assolutamente no. Anzi, la tesi di tutta la prima parte del libro di Goodman Roma e Gerusalemme. Lo scontro delle civiltà antiche , che Laterza sta per mandare in libreria nell’impeccabile traduzione di Michele Sampaolo, è che quei due mondi avrebbero potuto benissimo coesistere come avevano fin lì coesistito: fu la lotta per il potere a Roma che provocò la catastrofe. In che senso? L’occupazione romana della regione si era protratta per oltre un secolo (dal 37 a.C.) senza che mai si dovessero affrontare crisi di quelle proporzioni. Dapprima per effetto della repressione messa in atto da Erode; successivamente (dal 6 al 66 d.C.) non ci fu bisogno neanche di quella.
Ma alla fine del regno di Nerone le cose cambiarono. Nel maggio del 66 con un banale pretesto — gli abitanti avevano rifiutato di andare in processione a salutare due coorti dell’imperatore — il procuratore romano della Giudea, Gessio Floro, scatenò le sue truppe contro il mercato superiore di Gerusalemme provocando in un solo giorno tremilaseicento morti, la maggior parte donne e bambini. Energica fu la reazione giudaica, che portò alla costituzione di uno Stato indipendente; anche se gli abitanti di Gerusalemme restarono divisi tra coloro che volevano riprendere un percorso di pace e quelli intenzionati a insistere sul terreno delle armi. La situazione, però, in quel momento era ancora recuperabile. A provocare la rottura di questo equilibrio fu, nel giugno del 68, la morte di Nerone.
Quando l’imperatore fu ucciso dal liberto Epafrodito, Tito Flavio Vespasiano, un soldato assai capace (ma niente di più) che si era distinto vent’anni prima nella conquista della Britannia, colse l’occasione derivatagli dall’essere comandante in campo della guerra in Giudea per sfruttare la guerra stessa e con essa dare la scalata al potere nella capitale dell’impero sconvolta dalle divisioni per la successione tra Galba, Otone e Vitellio. Vespasiano riuscì nel suo intento (69) grazie anche ai consigli di Giuseppe, un sacerdote gerosolimitano che, dopo aver comandato le truppe ribelli in Galilea, era stato catturato dai romani e si era messo a disposizione del futuro imperatore vaticinando per lui fin dal 67 (cioè ben prima della morte di Nerone) l’ascesa al sommo incarico. Giuseppe avrebbe poi spiegato nei sette magnifici libri della Guerra giudaica di cui si è detto all’inizio — scritti nel 70 quando il figlio di Vespasiano, Tito, distrusse la città e il Tempio — come i suoi antichi correligionari si erano fatti sopraffare. Nonostante le successive sollevazioni in Cirenaica e in Egitto (72) e l’ultimo tentativo di resistenza a Masada (73). E qui si arriva alla parte più interessante del libro di Goodman, dove si approfondisce quel che rese per così dire definitiva la crisi del 70.
Il Tempio di Gerusalemme era già stato distrutto seicentocinquanta anni prima, nel 586 a.C., quando la città era stata conquistata dai babilonesi di Nabucodonosor e gli ebrei erano stati mandati in esilio. Ma nel 539 l’impero babilonese era stato travolto a sua volta dal re persiano Ciro che aveva consentito ai giudei di rientrare a Gerusalemme e riedificare il Tempio. E adesso nel 70 i loro discendenti pensavano che la storia potesse ripetersi. Aspettavano la comparsa sulla scena di un «nuovo Ciro» in grado di sgominare i romani come l’imperatore persiano aveva fatto con i babilonesi. Per qualche tempo si pensò che il nuovo Ciro potesse essere addirittura un redivivo Nerone. Si è soffermato su questa circostanza Giulio Firpo in un gran bel libro — Le rivolte giudaiche (Laterza) — nel quale racconta di come in quel periodo avessero cominciato a circolare a Roma strane voci secondo cui Nerone non era morto e anzi stava apprestandosi a tornare dall’Oriente per riprendere il potere; in seguito tre personaggi cercarono di accreditarsi come Nerone, in Grecia, in Asia Minore e in Mesopotamia. Riferimenti a queste notizie sono rintracciabili in un testo di oltre dieci anni dopo la distruzione del Tempio, gli Oracoli sibillini giudaici, dove l’annunciato e imminente ritorno di Nerone dalle regioni al di là dell’Eufrate o dalla provincia d’Asia viene finalizzato all’abbattimento della potenza romana; «nella prospettiva giudaica — scrive Firpo — la figura di Nerone redivivo assumeva involontariamente un ruolo positivo, quello cioè di vendicatore inconsapevole delle offese arrecate dai romani al popolo giudaico, dal momento che, colpendo i propri connazionali, Nerone li avrebbe puniti anche per aver distrutto il tempio e perseguitato Israele». Il che ci dice molto della radicale ostilità nei confronti di Roma che in quel periodo andò formandosi in ambito giudaico.
Roma non fu da meno. Tra l’era di Vespasiano (regnò dal 69 al 79), gli anni di suo figlio Tito (79-81) e quelli del loro erede Domiziano (81-96), i tre imperatori Flavii, per i giudei furono tempi tragici. I Flavii erano in costante ricerca di una conferma della loro legittimità nella «grande vittoria» contro quel popolo e nella enfatizzazione del rischio di trovarselo nuovamente nemico sul campo di battaglia. «La necessità dell’imperatore di manipolare la sua immagine pubblica per assicurare il sostegno al suo regime», sostiene Goodman, va individuata come la causa principale del particolare «maltrattamento dei giudei » durato oltre due decenni. Così Roma non concesse agli ebrei quel che aveva sempre permesso ai suoi sudditi di religione diversa: costruire o, in caso di distruzione, ricostruire i loro santuari. Il Tempio di Gerusalemme non sarebbe più stato riedificato. Domiziano, il più tirannico di questi tre imperatori (fu ai suoi tempi che Quintiliano definì i giudei una «nazione funesta»), mise addirittura a morte il console Flavio Clemente, accusandolo di essersi «lasciato trasportare verso le usanze giudaiche». Poi, quando Domiziano fu ucciso nel settembre del 96 e il suo successore, l’anziano aristocratico Marco Cocceio Nerva, fece abbattere la statue e abradere le iscrizioni dedicate all’ultimo dei Flavii, i giudei sperarono che fossero finiti i tempi della persecuzione e si prospettasse un’età della tolleranza. Ma già nell’autunno del 97 la guardia pretoriana si ammutinò, chiedendo che fossero mandati a morte gli assassini di Domiziano e, dalla lotta per il potere che ne seguì, uscì vincitore Marco Ulpio Traiano. E furono ancora lutti. Il nuovo imperatore aveva un padre che si era guadagnato lustro (assai modesto per la verità) nella guerra contro i giudei: «Era dunque interesse di Traiano che la visione flavia della guerra giudaica come un grande trionfo di Roma e dei giudei come i naturali nemici dello Stato romano venisse tranquillamente ripresa», scrive Goodman. E a questo punto si riaccese il conflitto.
Tra il 115 e il 116 ci fu una grande insurrezione giudaica contro i romani ed è lì che cominciano a diffondersi giudizi demonizzanti nei loro confronti: riferisce Cassio Dione che i giudei «mangiavano la carne delle loro vittime, si facevano delle tende con i loro intestini, si aspergevano con il loro sangue e indossavano la loro pelle come vestiti... li segavano in due, dalla testa in giù... li davano in pasto alle bestie feroci». È in margine a questo conflitto che nei documenti romani comincia a comparire l’espressione «empi giudei ». Traiano morì nell’agosto del 117, mentre era impegnato in una campagna militare in Mesopotamia, e la decisione del suo successore, Adriano, di ritirare le truppe proprio da quella regione fu interpretata dai giudei come l’apertura di uno spiraglio. In realtà si trattava di una scelta tattica e presto Adriano riprese una politica di ostilità contro i giudei che era diventata ormai usuale. Si spinse a proibire la circoncisione e questo provocò l’ultima grande rivolta giudaica tra il 132 e il 135, guidata da Shimon bar Kosiba. Adriano in persona assunse il comando delle operazioni militari per fronteggiare quella rivolta, lo spargimento di sangue fu spaventoso, Gerusalemme cessò di esistere (si chiamò Aelia Capitolina) e il nome dell’intera provincia fu cambiato in Syria Palaestina. Che una provincia cambiasse nome per ragioni amministrative non era insolito, nota Goodman, mai invece era accaduto che il cambiamento fosse deciso come punizione dei nativi per la loro ribellione, né in Pannonia, né in Germania, né in Britannia, «solo i giudei cessarono di avere una patria a causa di quello che avevano fatto». Lo stesso Poliakov del resto aveva riconosciuto che gli editti antiebraici promulgati da Adriano nel 135 e ripresi dal successore Antonino tre anni dopo vanno considerati come una «eccezione» a quel discorso sull’assenza di tracce di antisemitismo nell’antichità pagana di cui s’è detto all’inizio. E sulla base di questa ricostruzione Goodman può spingersi a definire la comparsa dell’antisemitismo cristiano come un «sottoprodotto dell’ostilità di Roma nei confronti dei Giudei ».
In seguito, sostiene Goodman, per guadagnare credibilità nel mondo romano i cristiani avvertirono la necessità non soltanto di negare la loro ascendenza ebraica ma di attaccare il giudaismo nel suo insieme: «Sarebbe stato del tutto possibile per i primi cristiani mantenere una visione del giudaismo come un’altra, più antica, relazione con Dio, come avevano fatto a volte Paolo e come è diventato più comune tra i moderni teologi cristiani; ma se volevano difendere la propria buona fama e cercare convertiti in un mondo romano in cui, dopo il 70, il nome degli ebrei suscitava disprezzo, era più facile per i cristiani unirsi all’attacco e concordare con i pagani che la sconfitta dei giudei e la distruzione del Tempio dovevano essere celebrati come espressione della volontà di Dio». In altre parole, l’antisemitismo cristiano fu, se non un «sottoprodotto », una conseguenza di quello dell’età pagana. Che è, se non da ristudiare, quantomeno da approfondire.
Ragioni storiche, conflitti ideologici: il dibattito fra gli studiosi:
Léon Poliakof
S’intitola Roma e Gerusalemme. Lo scontro delle civiltà antiche (traduzione di Michele Sampaolo, Laterza, pp. 752, € 35) il libro di Martin Goodman, storico inglese e docente a Oxford, che sarà in libreria dal 15 ottobre. Esso riapre la discussione sulle radici precristiane dell’odio antiebraico, appena sondate da Léon Poliakov nel primo volume della sua classica e ponderosa Storia dell’antisemitismo (Sansoni) e invece ampiamente trattate da Peter Schäfer, uno studioso tedesco che insegna all’università americana di Princeton, nel saggio Giudeofobia. L’antisemitismo nel mondo antico (Carocci). Le tesi di Schäfer, che attribuisce grande rilievo all’antisemitismo pagano, sono state criticate da Jasper Griffin, docente di Letteratura classica a Oxford, mentre la vicenda delle ripetute sommosse degli ebrei contro il dominio dei regni ellenistici e dell’impero romano è sintetizzata nel saggio di Giulio Firpo Le rivolte giudaiche (Laterza). Inoltre in Italia è appena uscito il volume Le radici storiche dell’antisemitismo (Viella editore, pp. 288, € 30), curato da Marina Caffiero (docente di Storia moderna alla Sapienza di Roma), che raccoglie gli atti di un convegno tenuto nel dicembre del 2007.
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