Riportiamo dal CORRIERE della SERA di oggi, 28/06/2009, a pag. 14, la cronaca di Viviana Mazza dal titolo " Iran, gli oppositori sotto tortura ", l'articolo di Guido Olimpio dal titolo "Le «anime nere» del regime che dirigono la repressione " e l'intervista di Federico Fubini a Strobe Talbott, presidente della Brookings Institutions di Washington, dal titolo " Effetto Obama sui giovani di Teheran ". Dalla STAMPA, a pag. 1-33, l'analisi di Barbara Spinelli dal titolo " L'apocalisse maschera del potere " preceduto dal nostro commento e, a pag. 2, l'articolo di Maurizio Molinari dal titolo " Ahmadinejad attacca. ' Gli Usa si pentiranno' ". Dal GIORNALE, a pag. 12, l'intervista di Gian Micalessin a Ahmad Batevi, uno dei leader della rivolta studentesca del 1999, dal titolo " Ora la comunità internazionale aiuti Moussavi ". Ecco gli articoli:
CORRIERE della SERA - Viviana Mazza : " Iran, gli oppositori sotto tortura "
Tutto un complotto straniero, ripetono da giorni le autorità e i media di Stato iraniani. Le proteste contro le elezioni del 12 giugno sarebbero una «rivoluzione di velluto» («fallita ») appoggiata da americani ed europei (che ieri il presidente riconfermato Ahmadinejad ha accusato ancora di interferire), e dai sionisti. Un complotto finanziato dalla Cia e ispirato dai media stranieri. Cosa manca? Solo le prove.
Le autorità stanno torturando i politici riformisti arrestati, denuncia Amnesty international citando «fonti credibili », per farli confessare in tv (come i giovani manifestanti che dicono in onda: «Siamo terroristi»). Secondo diversi siti iraniani, lo scopo finale è di implicare Mir Hussein Mousavi e Mehdi Karroubi, i candidati riformisti sconfitti, nel presunto complotto. I compagni di carcere di tre consulenti di Mousavi (ed ex ministri di Khatami) li avrebbero sentiti urlare sotto interrogatorio nella sezione 209 di Evin (quella dei prigionieri politici). I tre sono Mostafa Tajzadeh, Abdollah Ramezanzadeh e Mohsen Aminzadesh. Anche Reporters sans frontières teme che i detenuti siano torturati. Non possono vedere i parenti, non hanno avvocati. Si trova a Evin anche Saeed Hajjarian, ex consulente di Khatami, finito sulla sedia a rotelle dopo un tentativo di assassinarlo nel 2000. Ha bisogno di costante assistenza medica. La giornalista di Rooz Online Nooshabeh Amiri ha intervistato sua moglie, Vagihe Marsoosi, che lo ha visto l’altro ieri per pochi minuti. «Un agente filmava l’incontro — dice Amiri —. Lui ha pianto per tutto il tempo. Ha detto che non l’hanno picchiato. Ma la moglie, un medico, dice che era in condizioni fisiche terribili ».
Accusa le autorità anche Human Rights Watch: «I paramilitari basiji conducono brutali raid notturni nelle case», afferma l’organizzazione per i diritti umani, «distruggendo intere strade e quartieri» di Teheran per fermare i canti di protesta intonati ogni sera alle 10, l’unico modo ormai per esprimere la rabbia. Non più. «La scorsa notte (23 giugno, ndr) i basiji sono venuti nel quartiere per intimidire chi gridava Allahu Akbar (Dio è grande) dai tetti — ha raccontato una donna —. Hanno preso a calci le porte, sono entrati nelle case, hanno picchiato i residenti ». Avrebbero smontato le parabole che consentono di guardare i media stranieri. E secondo i blogger, ieri è stata repressa sul nascere una protesta delle madri delle vittime della repressione. Il massimo organismo di arbitrato, presieduto dall'ex presidente Rafsanjani, ha chiesto ai candidati sconfitti di «cooperare con il Consiglio dei Guardiani» che sta ricontando il 10% dei voti (sul web Mousavi e Karroubi rifiutano, vogliono nuove elezioni) e ai loro sostenitori di «obbedire alla Guida suprema». A Evin, Hajjarian piangeva. «Conosco mio marito — ha detto la dottoressa Marsoosi —. Piange per l’Iran».
CORRIERE della SERA - Guido Olimpio : "Le «anime nere» del regime che dirigono la repressione "
Mesbah Yazdi, ha lanciato una fatwa contro i riformisti
WASHINGTON – Sono le anime nere. Capaci di reprimere la protesta popolare senza avere il minimo rimorso, prigionieri dei loro dogmi e convinti di godere di una investitura divina. Agiscono nel solco tracciato chi li ha preceduti nella storia della Repubblica Islamica. Come Sadegh Khalkhali, lo spietato capo delle Corti islamiche, un uomo che non riusciva a ricordare quante persone avesse mandato a morire e Asedollah Lajevardi, il responsabile del carcere di Evin soprannominato «il macellaio». Morti da tempo, hanno lasciato gli arnesi del supplizio ad altri.
In cima alla piramide c’è Mesbah Yazdi, l’ayatollah ultraconservatore che ispira e protegge, sotto il profilo dottrinario, il capo dello stato Ahmadinejad. Lui governa a colpi di fatwa. Con l’ultima ha autorizzato a far fuori i riformisti. Discreta e influente la posizione del figlio di Khatami, Mojtaba. È il filtro che protegge la Guida, è il guardiano che disciplina i contatti ma nutre ambizioni politiche che spera di alimentare andando a braccetto con i radicali. Veglia sull’ortodossia l’ayatollah Ahmad Jannati, 83 anni, capo del Consiglio dei guardiani, distintosi per aver bocciato molte candidature riformiste. Agli ideologi si aggiungono quelli che fanno il lavoro sporco. Uomini di legge, sbirri, miliziani. È stato rivelato che manifestanti, bloggers e dissidenti passeranno sotto l’occhio severo del procuratore islamico Saed Mortazavi, il magistrato che dovrà coordinare i processi dove la condanna è già stata scritta. Perché il giudice si è sempre mostrato inflessibile nel tappare la bocca a chiunque contesti. Ha fatto chiudere giornali, ha mandato in prigione giovani studenti, ha minacciato le famiglie degli arrestati con pressioni d’ogni tipo e se ne è anche vantato. Mortazavi è stato poi coinvolto nel caso della fotografa irano-canadese Zahra Kazemi, morta sotto tortura nel 2003. Al procuratore piace la ribalta: si è fatto fotografare alle esecuzioni di oppositori ed è andato in tv per mostrare il materiale sequestrato «alle spie».
Ad alimentare i processi provvederà un sofisticato apparato repressivo coordinato da un quadrumvirato dove brilla la stella di Alì Jafari, il responsabile dei 120 mila pasdaran. Quando Khamenei lo ha messo alla guida dei pretoriani gli ha affidato una missione speciale: quella di contrastare una possibile «rivoluzione di velluto» in Iran. E Jafari ha ristrutturato i pasdaran in base alla «dottrina del mosaico », decentralizzandoli in 31 dipartimenti. Inoltre ha designato le Brigate «Al Zahra» e «Ashoura» come reparti anti sommossa. Ma, risvolto più importante, ha reintegrato la milizia Basij nei pasdaran proprio per avere una forza d’urto in caso di una sfida nelle piazze. A questo fine ha nominato — nel luglio 2008 — comandante dei Basij un ex studente del seminario dell’imam Khomeini, l’hojatoleslam Hussein Taeb. Una scelta mirata. Per gli oppositori il gerarca in turbante ha una solida base ideologica ed ha guidato la facoltà Cultura all’ateneo Hussein, istituto dove si sono formati gli ufficiali pasdaran. Jafari e Taeb condividono un obiettivo dichiarato: la «protezione dei risultati della rivoluzione». E per questo sono pronti a usare ogni mezzo. Con loro collaborano le ombre della Vevak, oltre 30 mila agenti che dipendono dal ministro dell’Intelligence, Gholam Mohsen Ezhei. Esponente del clero, si è distinto nel denunciare il presunto appoggio straniero ai dimostranti. Accuse scontate e fasulle che però possono bastare per mandare un uomo sul patibolo.
La STAMPA - Maurizio Molinari : " Ahmadinejad attacca. ' Gli Usa si pentiranno' "
Ahmadinejad
«Hai fatto un grave errore a schierarti dalla parte dei manifestanti»: Mahmud Ahmadinejad tuona alla volta di Barack Obama, in coincidenza con le notizie che rimbalzano da Washington sulla scelta del Dipartimento di Stato di mettere a disposizione del dissenso fondi per almeno 20 milioni di dollari.
Il presidente iraniano ha attaccato frontalmente l’inquilino della Casa Bianca pronunciando un discorso a dipendenti del ministero della Giustizia. «Siamo molto sorpresi da Mister Obama - ha detto Ahmadinejad, ripreso in diretta dalla tv statale - non ci aveva forse detto che perseguiva un cambiamento? E allora perché ha scelto di interferire in Iran?». E ancora: «Gli americani continuano a dire che vogliono dialogare con l’Iran ma il metodo che hanno scelto non è quello corretto». Da qui l’affondo: «Schierarsi a sostegno dei manifestanti responsabili di gravi disordini e violenze è stato un grave errore».
Le parole di Ahmadinejad arrivano all’indomani della nuova condanna della repressione pronunciata da Obama ricevendo alla Casa Bianca la cancelliera tedesca Angela Merkel, ma ciò che più potrebbe aver irritato Teheran è la decisione presa dal Segretario di Stato, Hillary Clinton, di mettere a disposizione degli attivisti di opposizione fondi federali per 20 milioni di dollari. A darne l’annuncio sono le 31 pagine del bando denominato «Support for Civil Society and Rule of Law in Iran» (Sostegno per la società civile e lo Stato di diritto in Iran), che prevede l’assegnazione di «grants» da parte di UsAid, l’Agenzia per lo sviluppo internazionale del Dipartimento di Stato.
I finanziamenti andranno a chi presenterà progetti e programmi per «promuovere la democrazia, i diritti umani e lo Stato di diritto in Iran» compilando gli appositi moduli disponibili sul sito www.grants.gov e inviandoli all’«Office of Acquisition and Assistance» della UsAid al numero 1300 di Pennsylvania Avenue. I «grant» potranno essere richiesti da singoli o gruppi di cittadini iraniani entro il 30 giugno e sarà poi l’UsAid ad esaminarli ed assegnarli, elargendo cifre da un minimo di 100 mila dollari ad un massimo di 3 milioni di dollari: somme apparentemente non ingenti ma che in Iran possono garantire ampi margine di azione.
Il bando suggerisce ai concorrenti alcuni «esempi» di programmi possibili: denuncia della corruzione, migliore organizzazione delle ong, uso dei nuovi media. Si tratta di una strategia di sostegno all’opposizione in Iran che venne inaugurata dall’amministrazione Bush e che ora Obama dimostra di voler continuare attraverso la «Near East Regional Democracy Initiative». «Parte dei fondi di questa iniziativa sono destinati ad aumentare l’accesso da parte degli iraniani alle informazioni e comunicazioni via Internet» spiega a «UsaToday» David Carle, portavoce della sottocommissione del Congresso che li ha autorizzati, lasciando intendere la volontà di rafforzare le potenzialità del popolo di twitter che nelle ultime settimane si è dimostrato molto attivo nel sostenere le proteste.
Per la Casa Bianca questa scelta non implica comunque «interferenze in Iran». Tommy Vietor, portavoce del presidente, lo dice così: «Gli Stati Uniti non finanziano alcun movimento o fazione politica in Iran, sosteniamo però i principi universali dei diritti umani, della libertà di parola e dello Stato di Diritto». Ian Kelly, portavoce di Hillary Clinton, aggiunge: «Rispettare la sovranità iraniana non significa restare in silenzio su questioni inerenti a diritti fondamentali di libertà, come il diritto a protestare pacificamente». Si tratta di un approccio che ricalca quello avuto dagli Stati Uniti con l’Urss dopo la Conferenza di Helsinki del 1975 quando la Realpolitik del dialogo bilaterale si coniugò al sostegno di singoli gruppi di attivisti per i diritti umani. La differenza rispetto al precedente programma di finanziamenti di Bush - il Segretario di Stato Condoleezza Rice stanziò 66 milioni di dollari per l’Iran nel 2006 - sta proprio nel fatto che allora i fondi andavano a gruppi politici organizzati mentre in questo caso l’assegnazione dei «grant» è a singoli cittadini.
La STAMPA - Barbara Spinelli : " L'apocalisse maschera del potere "
Barbara Spinelli
Barbara Spinelli scrive : "L’Iran lo identifichiamo ormai da trent’anni con il turbante, con il Corano, con la violenza in nome di Dio, con la religione che s’intreccia alla politica e l’inghiotte. Quando i suoi dirigenti si ergono contro il mondo esterno o contro il proprio popolo, subito tendiamo a scorgere la mano e la mente d’un clero retrogrado. Il suo establishment usiamo chiamarlo religioso, nell’élite sacerdotale ci ostiniamo a non vedere altro che integralismo.". In Iran chi ha l'ultima parola su tutto, chi davvero governa, è la Guida Suprema, l'ayatollah Khamenei. E' un religioso, un fondamentalista islamico. Non è un laico. Scrivere che gli ayatollah di Qom sono schierati con Mousavi non corrisponde al vero. Come scritto nell'articolo di Guido Olimpio sopra riportato, a capo della repressione ci sono gli ayatollah.
Ahmadinbejad non è un dittatore laico. E' un conservatore strettamente legato al clero, tanto che ha l'appoggio dell'ayatollah Khamenei.
Per quanto riguarda il giudizio sull'America e i suoi errori con l'Iran, concordiamo sul fatto che l'amministrazione Obama sbaglia con la sua linea morbida della mano tesa. Non sta portando a risultati positivi e la prova sono i brogli elettorali e la continuazione del programma nucleare (che non è pacifico, ma bellico e volto alla distruzione di Israele). Ecco l'articolo:
Ci sono abitudini simili a bende sugli occhi, che impediscono di vedere. O simili a guinzagli, che accorciano il pensiero annodandolo al conformismo. Il nostro sguardo sull’Iran è prigioniero di queste bende e questi guinzagli, fin dai tempi dello Scià e poi anche dopo la rivoluzione di Khomeini. L’Iran lo identifichiamo ormai da trent’anni con il turbante, con il Corano, con la violenza in nome di Dio, con la religione che s’intreccia alla politica e l’inghiotte. Quando i suoi dirigenti si ergono contro il mondo esterno o contro il proprio popolo, subito tendiamo a scorgere la mano e la mente d’un clero retrogrado. Il suo establishment usiamo chiamarlo religioso, nell’élite sacerdotale ci ostiniamo a non vedere altro che integralismo.
È dagli Anni 50 che le amministrazioni americane sbagliano politica in Persia, suscitando sistematicamente le soluzioni peggiori e trascinando negli errori anche l’Europa. Tanto più urgente è congedarsi da bende e guinzagli, e cominciare a guardare quel che veramente sta succedendo in Iran.
Da quando si sono svolte le elezioni, il 12 giugno, sui tetti delle case si aggirano giovani assetati di libertà che gridano nella notte «Allah Akbar», Dio è grande, aggiungendo immediatamente dopo: «A morte il dittatore», proprio come nel 1979. Sono cittadini che di giorno hanno sfilato per strada contro i brogli elettorali: che hanno smesso la paura, e rischiano la vita parlando con frequenza di sacrificio di sé. Anche Mir Hossein Mousavi, il loro leader, annuncia che resisterà «fino al martirio».
A Qom, che è una delle città sacre dell’Islam sciita di qui partì la rivoluzione khomeinista vive una classe sacerdotale che nella stragrande maggioranza avversa il presidente. Non più di tre, quattro ayatollah lo sostengono, anche se i loro uomini occupano i principali centri di potere (Pasdaran, servizi, giustizia). I massimi teologi del Seminario di Qom hanno scritto una lettera aperta, dopo il voto, in cui dichiarano i risultati «nulli e non avvenuti». Viene da Qom ed è figlio di un ayatollah il presidente del Parlamento Larjiani, ostile a Ahmadinejad. Si è rinchiuso a Qom il numero due dello Stato, l’ayatollah Rafsanjani, per verificare se sia possibile mettere in piedi una maggioranza di religiosi, nel Consiglio degli esperti che presiede, capace di destabilizzare e forse spodestare la Guida suprema, l’ayatollah Khamenei che ancora difende la legittimità di Ahmadinejad. Il Consiglio degli esperti nomina la Guida suprema a vita, ma può destituirla se essa non mostra saggezza. Sembra che Rafsanjani abbia già convinto 40 capi religiosi, sugli 86 che compongono il Consiglio. Nella città religiosa di Mashhad, molti sacerdoti musulmani hanno partecipato alle manifestazioni contro il regime. Non trascurabile è infine il simbolo della resistenza: verde è il colore dell’Islam. Questo significa che non siamo di fronte a una sollevazione contro lo Stato religioso. Per il momento, siamo di fronte a un’insurrezione fatta in nome dell’Islam contro un gruppo dirigente considerato blasfemo e nemico del clero.
Ahmadinejad ha questo vizio blasfemo, agli occhi della maggioranza dei sacerdoti tradizionali e di grandissima parte della popolazione. In lui non si percepisce un leader integralista, ma un dittatore che ha motivazioni tutt’altro che religiose. Il suo potere è innanzitutto militare, e nel frattempo è anche divenuto economico. Le sue parole d’ordine sono improntate a un nazionalismo radicale, estraneo alla spiritualità. Il corrispondente della Frankfurter Allgemeine, Rainer Hermann, è un fine conoscitore del paese e parla di «svolta pakistana»: sotto la presidenza Ahmadinejad, negli ultimi quattro anni, avrebbe preso il potere un’élite che nella sostanza è laica, e che usa la religione non solo per abbattere ogni forma di democrazia ma per distruggere il clero tradizionale.
L’uso della religione è sin da principio politico, in Ahmadinejad.
Fedele alle dottrine apocalittiche dell’ayatollah Mesbah Yazdi, il presidente si dice convinto che l’era dell’ultimo Imam il dodicesimo Imam messianico, il Mahdi occultato da Dio per oltre 1100 anni stia per riaprirsi, con il ritorno del Mahdi. Tutte le apocalissi, anche quelle ebraiche e cristiane, sono rivelazioni che presuppongono tempi torbidi, in cui il male s’intensifica. Anche per la scuola Hakkani, che Yazdi dirige e cui appartengono gli Hezbollah iraniani, il male va massimizzato per produrre il Bene finale. L’ayatollah ha insegnato a Ahmadinejad l’uso del messianesimo a fini politici, non teologici. I politici messianici in genere parlano di Apocalisse non perché credono nella Rivelazione, ma perché nell’Apocalisse il dialogo con Dio è diretto (nell’Apocalisse di Giovanni scompaiono i templi) e il capopopolo non ha più bisogno del clero come intermediario. L’apocalisse serve a escludere il clero dalla politica e forse anche la religione.
Il segno più evidente della svolta laico-pakistana di Ahmadinejad è la militarizzazione del regime. I guardiani della rivoluzione, i Pasdaran, dipendono da lui oltre che da Khamenei. E i picchiatori delle milizie Basiji non sono nati nel fervore religioso ma nel fervore della guerra di otto anni tra Iran e Iraq. I Basiji erano i bambini o i giovanissimi che in quella terribile guerra, tra il 1980 e il 1988, venivano gettati, inermi, nei campi minati dal nemico: perirono in migliaia. Secondo alcuni storici (tra cui lo specialista Hussein Hassan) Ahmadinejad fu il giovane istruttore di quei martiri forzati. Il suo disegno: rompere il singolare equilibrio di poteri tra sovranità popolare-democratica, sovranità religiosa e sovranità militarizzata che caratterizza l’Iran. Un equilibrio ripetutamente violato ma che rispecchia la storia del paese, sempre oscillante fra il costituzionalismo democratico affermatosi nel 1906 e la brama mai spenta di Stato assoluto. Il potere di Ahmadinejad e dei Guardiani è ormai più forte anche presso i più poveri del paese di quello dei Mullah, i sacerdoti che fecero la rivoluzione.
Quel che è avvenuto sotto Ahmadinejad è una sorta di colpo di Stato modernista, che ha intronizzato l’élite formatasi nella guerra contro l’Iraq. È il potere di quest’élite che Ahmadinejad protegge, e esso non coincide con il potere religioso. Tra molti esempi si può citare la decisione di togliere al clero la gestione dei pellegrinaggi e di affidarla al ministero del Turismo: una misura che ha profondamente umiliato i religiosi. L’apocalisse è strumento di lotta molto terreno: nella conferenza stampa dopo le elezioni, Ahmadinejad ha ripetuto la formula d’obbligo che impone di parlare «in nome di Allah il Misericordioso», ma subito dopo ha rotto la tradizione invocando il dodicesimo Imam. Le milizie Basiji da qualche tempo si son tagliate la barba: è un altro segno di ribellione ai Mullah. Nella campagna elettorale, Mousavi si è presentato con il verde dell’Islam e del movimento riformatore. Ahmadinejad con la bandiera nazionale.
È dunque il nazionalismo militarizzato, il regime che oggi vacilla e sta riducendo al silenzio i riformatori. È il nazionalismo che si è abbarbicato all’atomica, e fatica a negoziare su di essa. Ma l’atomica è al tempo stesso la risposta dell’Iran intero ai tanti errori di valutazione dell’Occidente e alla cecità delle amministrazioni Usa, che mai hanno capito le riforme di cui questo paese aveva bisogno (non lo capirono con il Premier Mossadeq, che spodestarono nel 1953 per tutelare lo Scià e le vie del petrolio; non lo capirono quando minacciarono Teheran nonostante al governo ci fossero riformatori come Rafsanjani o Khatami). La sfida atomica iraniana non verrà meno, il giorno in cui vincessero i riformatori. Ma almeno non sarà al servizio del più tremendo dei nazionalismi: quello che sceglie come maschera l’Apocalisse.
CORRIERE della SERA - Federico Fubini : " Effetto Obama sui giovani di Teheran "
Strobe Talbott
VENEZIA — La chiama «una risonanza fra l'effetto Barack Obama e quello che accade nelle strade di Teheran ». Poi Strobe Talbott, presidente della Brookings Institutions di Washington, vice segretario di Stato con Bill Clinton e ora molto vicino a Hillary, quasi si impressiona davanti alla sua stessa idea, o alla dimensione degli eventi. «Qualunque altra ipotesi è valida — frena — nessuno capisce fino in fondo le dinamiche dell'Iran oggi».
Lei però sospetta che il discorso di Obama al mondo musulmano dal Cairo dia più coraggio ai ragazzi delle piazze di Teheran?
«Penso che la voglia di Obama di tendere la sua mano, anziché mostrare un pugno chiuso, contribuisca alle convinzioni di larghe parti della popolazione in Iran: sono coloro che non vogliono un Paese isolato, ostile all'Occidente e soprattutto agli Stati Uniti».
In sintesi, c'è un effetto Obama sull'Iran.
«Certo, c'è un effetto Obama e sta giocando un ruolo nelle aspirazioni di molti iraniani, in particolare i più giovani, cosmopoliti e sintonizzati con il mondo esterno, quelli che usano Internet di continuo e vogliono essere parte del mondo. A loro Obama sostanzialmente sta dicendo: vogliamo che voi siate parte del mondo».
La Casa Bianca aveva aperto in qualche modo al dialogo con il regime.
Questa repressione la mette in imbarazzo?
«Non vedo perché dovrebbe: Obama non ha mai sostenuto il regime. Piuttosto, ha mostrato di capire che l'Iran è una società complessa. È un Paese più democratico di molti altri nel Medio Oriente, Turchia esclusa, direi il più democratico dopo — guarda un po' — Israele. Ma la Casa Bianca non si è mai giocata la reputazione sulle scelte del regime: ha solo ricordato che siamo di fronte a un Paese in movimento, ricco di gruppi con cui dovremmo parlare se vogliono parlare con noi. I fatti lo confermano ».
Eppure per i repubblicani, e certi democratici, Obama non sostiene abbastanza i giovani nelle piazze di Teheran.
«Sì: il presidente su questo incassa bordate sul fronte interno, ma credo abbia assolutamente ragione a mostrare una certa cautela. Applaudire e incoraggiare i manifestanti da Washington non li aiuterebbe affatto, al contrario sarebbe visto come il bacio della morte del Grande Satana. E i ragazzi che chiedono più democrazia laggiù sono i primi a non volere la benedizione americana: vogliono che l'America tenga la bocca chiusa».
A causa delle sanzioni, i gruppi petroliferi dell'Ue hanno rinunciato ai più recenti giacimenti in gara in Iran ma sono subentrati i cinesi. Le sanzioni servono davvero?
«Sono uno strumento decisivo per gestire la questione nucleare. Assistiamo a eventi spiegabili solo con l'aspirazione dell'Iran ad avere armi atomiche in violazione del Trattato di non proliferazione. In questa situazione, ci occorre la carota del dialogo ma anche il bastone delle sanzioni. A maggior ragione, visto che credo l'opzione di un attacco militare sull'Iran sia irrealistica. Anche la Russia e la Cina, che siedono in Consiglio di sicurezza dell'Onu, dovranno dare più sostegno a questo approccio ».
Il GIORNALE - Gian Micalessin : " Ora la comunità internazionale aiuti Moussavi "
Ahmad Batebi
«Quando alzai quella maglietta insanguinata non pensavo ad infiammare la piazza ma a fermarla. Un ragazzo era stato appena colpito da un proiettile, gli avevamo levato la maglia e l'avevamo usata per tamponargli le ferite... mi era rimasta in mano così l'alzai e la mostrai a quella piazza scalmanata ed entusiasta pronta a lanciarsi contro le forze di sicurezza. Volevo fargli capire che si dovevano fermare, che rischiavamo di finire tutti arrestati o di fare la fine di quel ragazzo. Quella maglietta alzata divenne il mio capo d'accusa. La foto fece il giro del mondo e io mi ritrovai in carcere davanti ad un giudice che mi diceva “Con quella foto hai firmato la tua condanna a morte”».
Succedeva nel luglio di dieci anni fa, in quel 18 di Tir ricordato come la prima rivolta studentesca contro il regime della Repubblica islamica. Oggi Ahmad Batebi ha 32 anni e vive a Washington. Per quella foto pubblicata in tutto il mondo si è fatto otto anni di carcere, ha subito due terrificanti finte impiccagioni, è stato torturato e bastonato. L'anno scorso, approfittando di una licenza dal carcere non è più tornato in cella, si è dato alla macchia, ha attraversato dopo una fuga avventurosa il confine con l'Irak. Oggi risponde da un cellulare di Washington e spiega al Giornale le differenze tra la rivolta di dieci anni fa e quella dell'onda verde di Moussavi.
«La differenza più grande, credetemi, è nella sostanza. Nel 1999 a subire la violenza del regime c'eravamo solo noi studenti, oggi tutti gli iraniani si sentono minacciati, percepiscono la consistenza della minaccia. Nel 1999 non potevi accusare l'intero sistema perché al governo c'era il presidente Khatami, al massimo potevi chieder di far punire i responsabili delle violenze sugli studenti. Oggi l'intero regime è colpevole, colpevole di aver rubato i voti e di aver scatenato la repressione. Per questo la rivolta è destinata ad aumentare e si estenderà. Oggi nessuno si accontenta di vedere in tribunale qualche comandante della polizia o dei basiji. Oggi la gente grida "Morte al Dittatore" e vuole la testa della "Suprema Guida". Dieci anni fa nessuno si sarebbe sognato una cosa del genere».
Che differenza c'è tra i giovani di oggi e i suoi coetanei?
«La consapevolezza. Noi eravamo mossi da una sorta di malessere, da una voglia di cambiamento, nessuno sapeva se le ragioni dei suoi compagni coincidevano con le sue. Oggi con internet e televisioni satellitari tutti si muovono per delle ragioni comuni... hanno un nemico comune rappresentato da chi ha rubato il loro voto e truccato le elezioni».
L'ex presidente Rafsanjani può cambiare le cose?
«Rafsanjani è un uomo potente e abile, ma è un uomo di quel sistema, molti degli errori commessi in 30 anni sono i suoi errori. Il vero cambiamento sarebbe limitare l'influsso della religione e questo nel caso iraniano significa cambiare la sostanza del sistema».
Hossein Moussavi e questa generazione di nuovi oppositori ce la possono fare?
«Solo se la comunità internazionale si decide ad aiutarli. Loro hanno fatto il possibile ora devono entrare in gioco i governi di tutto il mondo e garantirgli sostegno diplomatico. Devono smetterla di riconoscere il governo di Mahmoud Ahmadinejad e boicottarlo perché quell'esecutivo è frutto di un colpo di Stato».
La morte di Neda per lei cosa rappresenta?
«A nove anni vidi la lapidazione di un uomo... per molti anni quelle immagini non mi fecero dormire. La morte di Neda è un nuovo incubo. Mi dà la nausea, non mi abbandonerà per mesi».
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