Riportiamo dal CORRIERE della SERA di oggi, 01/06/2009, a pag. 13, l'articolo di Federico Fubini dal titolo " Terrorismo, le assoluzioni della Corte Ue " e quello di Guido Olimpio dal titolo " Talebani, la nuova rete mondiale dei finanziamenti ". Segue il commento sull'Onu di Pierluigi Battista. Si sente sempre di più l'urgenza di una riforma radicale di questo obsoleto organismo. Ecco gli articoli:
Federico Fubini : "Terrorismo, le assoluzioni della Corte Ue "
Forse serviva davvero uno sceicco considerato vicino a Osama Bin Laden. Ci voleva che un facoltoso uomo d’affari di Gedda, Yassin Abdullah Kadi, lanciasse la sua batteria di avvocati — tre inglesi e un indiano sikh del foro di Londra — contro il Regno di Spagna, la Repubblica francese, il Regno dei Paesi Bassi, il Regno Unito, la Commissione europea e il Consiglio dei ministri dell’Ue. Occorreva che vincesse questo cocciuto saudita accusato dal Consiglio di sicurezza dell’Onu di essere vicino a Al Qaeda, perché l’Europa battesse un colpo. E vivesse, allo stesso tempo, una nuova tappa di quella che si va dipanando come una sorta di ritirata da Guantánamo in salsa europea.
Suonerà paradossale, indigesto e magari anche autolesionista. Ma l’argomento che qualche mese fa il saudita Kadi ha portato in propria difesa davanti ai giudici della Corte di giustizia dell’Ue è questo: l’Europa deve smettere di essere un nano politico, è tempo che si assuma in proprio le sue responsabilità globali. L’interessante (o il problema) è che Kadi ha vinto la sua causa e a perderla sono state Bruxelles, Madrid, Parigi, l’Aia e Londra, le relative istituzioni e i rispettivi governi.
Nel dare ragione a quel saudita accusato di sostenere il terrorismo, i giudici comunitari hanno stabilito per la prima volta il principio dell’indipendenza delle decisioni europee di fronte al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite. Fosse stata una sentenza della Corte suprema degli Stati Uniti, magari qualcuno avrebbe imprecato contro l’insopportabile unilateralismo americano.
L’antefatto è che il Consiglio dei ministri dell’Ue (che rappresenta i governi dei 27), applicando una risoluzione del Palazzo di Vetro passata subito dopo l’11 settembre, aveva colpito direttamente Kadi. Gli aveva congelato beni, società e conti in banca, in quanto «persona vicina a Osama Bin Laden». Ma sentite cosa sono andati a raccontare i legali dello sceicco ai giudici del Lussemburgo, nel loro appello contro la decisione di «Politica estera e di sicurezza comune» dell’Unione: «Le risoluzioni del Consiglio di sicurezza non attribuiscono (a Bruxelles, ndr) il potere di ledere i diritti fondamentali (di Yassin Abdullah Kadi, ndr) senza giustificare un tale danno presentando le prove necessaria».
Non solo: «In quanto ordinamento giuridico indipendente dalle Nazioni Unite, governato da norme sue proprie — afferma il businessman saudita tramite i suoi avvocati — l’Unione europea dovrebbe giustificare le misure da essa adottate riferendosi ai propri poteri». Insomma non basta all’Europa colpire questo o quello con misure antiterrorismo solo perché il Consiglio di sicurezza le chiede di farlo. Non deve solo eseguire, come fosse un insieme di istituzioni subalterne: deve darsi una propria politica, gli strumenti per attuarla, e deve giustificare in proprio le sue scelte.
Kadi l’ha avuta vinta, al secondo tentativo, in una sentenza del settembre scorso. I suoi beni sono stati scongelati e il Consiglio e la Commissione dell'Ue hanno dovuto pagargli gli avvocati. I giudici comunitari hanno rivendicato il diritto di «garantire il controllo completo della legittimità di tutti gli atti» dell’Unione europea, «inclusi quelli che mirano ad attuare risoluzioni del Consiglio di sicurezza in base alla Carta delle Nazioni Unite ». Come dire che l’Unione europea non riconosce, a priori, nessun potere al di sopra di essa: una forza legale sorprendente per un’entità il cui nanismo politico viene proclamato e deprecato quasi ogni giorno.
La conseguenza (o, appunto, il problema) è un nuovo filone giudiziario, fitto di ricorsi, parallelo all’esperienza dei giudici americani che hanno smontato pezzo a pezzo la legittimità delle detenzioni a Guantánamo. Allo sceicco saudita è stata riconosciuta la violazione dei diritti della difesa e al rispetto della proprietà privata. Ma Kadi non è un caso isolato nella politica antiterrorismo dell’Ue. La stesura delle liste sulle organizzazioni e gli individui sotto accusa, ma soprattutto le sanzioni finanziarie contro questi ultimi, hanno provocato una pioggia di reazioni e battaglie giudiziarie da varie centinaia di pagine di sentenze. Altre al caso Kadi, la Corte di Lussemburgo ha già reso altre quattro sentenze sull’anti-terrorismo e ha ancora diciassette casi pendenti.
Quasi sempre, cioè in quattro ricorsi sui cinque già decisi, le sentenze hanno premiato i sospetti terroristi. Ha vinto la Fondazione Al Aqsa con sede in Olanda, hanno stravinto i marxisti curdi del Pkk-Kongra-Gel. Finora ha perso solo José Maria Sison, il leader storico del partito comunista delle Filippine, che aveva chiesto di consultare i documenti usati dal Consiglio dei ministri dell’Ue contro di lui.
Di recente hanno prevalso invece, e clamorosamente, i Mujahidin del Popolo dell’Iran. Si tratta di un gruppo islamico di ispirazione socialista che negli anni ’70 si costituì in armi contro lo Scià e dopo la rivoluzione khomeinista proseguì la sua guerra anche al regime degli Ajatollah. Fino al 2003, i Mujahidin avevano molte basi in Iraq, dove avevano stretto un’alleanza di interessi con Saddam Hussein. Da ministro dell’Interno, proprio quell’anno, Nicolas Sarkozy li aveva accusati di usare la Francia come loro testa di ponte. Nel maggio del 2003 i Mujahidin del popolo sono stati poi disarmati dagli americani in Iraq e hanno cessato le attività militari. Ma solo all’inizio del 2009, dopo sette anni di battaglie giudiziarie e al terzo appello perso, i governi dell’Unione li hanno tolti dalla lista delle organizzazioni terroristiche e hanno scongelato i loro beni.
La sentenza di Lussemburgo vede i Mujahidin schierati contro Gran Bretagna, Francia e le istituzioni dell’Ue, ed è chiara. È stata la camera di consiglio più veloce nella storia del tribunale di prima istanza dell’Ue: i giudici avevano pochi dubbi. L’iscrizione dei Mujahidin fra i terroristi era in realtà un’iniziativa di Londra, ma una Corte britannica l’aveva già definita «perversa » e «irragionevole», dopo che il governo l’aveva presentata come una sorta di misura preventiva. La Corte di Lussemburgo ha stabilito che quella misura violava i diritti della difesa, anche perché non era adeguatamente motivata: temi già utilizzati dai giudici americani su molti prigionieri di Guantánamo.
Non è un caso, forse, che alcuni analisti nel 2003 leggessero nelle accuse di Londra ai Mujahidin un segnale di disgelo verso Mohammad Khatami, l’allora presidente moderato dell’Iran. Quel gruppo era considerato una pedina di scambio, prima che i giudici comunitari facessero valere il garantismo dell’Ue. Ora molti diranno, non senza argomenti, che la tutela dei diritti scopre il fianco dell’Unione al terrorismo. Ma in tempi di politica fragile a Bruxelles, della forza della legge europea non si può dire altrettanto.
Guido Olimpio : " Talebani, la nuova rete mondiale dei finanziamenti "
WASHINGTON — I controlli sul finanziamento del terrore esistono, le leggi pure ma è difficile provare il reato. E dunque diverse formazioni hanno continuato a ricevere denaro ma sono diventate scaltre nel nascondere le tracce e a diversificare le fonti.
In Europa
I militanti di origine nordafricana si autofinanziano con il crimine. Spaccio di stupefacenti, traffici legali e illegali di vetture, racket dei documenti falsi, piccoli commerci. Una specialità è quella delle false griffe: borse, scarpe da ginnastica, capi di abbigliamento taroccati. Merci acquistate dai cinesi e poi rivendute sulle bancarelle. Non si tratta di un tesoro, ma i simpatizzanti della Jihad sono parsimoniosi e spartani. Bastano poche centinaia di euro per alimentare la causa. Soldi con i quali permettono ai mujahidin di raggiungere il teatro iracheno e aiutano i loro compagni che agiscono in Algeria.
In Iraq
Gli insorti hanno «fonti» dirette e indirette. Le prime sono rappresentate da taglieggiamenti, sequestri di persona, contrabbando, mercato nero delle armi e del petrolio. Le seconde sono garantite da rimesse che arrivano da cittadini iracheni residenti in Siria e simpatizzanti che vivono nei Paesi del Golfo Persico. Se la ribellione persiste è merito anche del flusso continuo di risorse.
In Afghanistan e Pakistan
Nello scacchiere ribattezzato Af-Pak (Afghanistan- Pakistan) la droga garantisce al movimento talebano notevoli risorse, stimate dai 150 ai 300 milioni di euro. Ma negli ultimi due anni, i militanti si sono dedicati con profitto al contrabbando di legno, marmo e smeraldi. Proprio nella regione pachistana di Swat, al centro dei furiosi scontri di queste settimane, c’è la centrale del traffico di pietre preziose. Le gemme seguono un percorso ben organizzato: prima tappa Jaipur in India, quindi Bangkok (Thailandia), Svizzera e Israele, dove sono tagliate e poi rimesse sul mercato. In alcune zone i talebani hanno ottenuto la collaborazione della popolazione locale in cambio di buone percentuali. Un asse solido nelle regioni tribali dove, a cadenze mensili, si svolgono assemblee alle quali sono invitati commercianti legati ad alcuni clan. Ognuno offre una quota destinata ai mujahidin e si impegna a raccogliere risorse. Alcuni — i più importanti — garantiscono altre risorse operando all’estero. Gli Emirati Arabi (specie Dubai) sono la piattaforma preferita: qui, gli imprenditori amici dei talebani riservano una quota per i guerriglieri e favoriscono collette tra i nababbi del Golfo. Quasi sempre si tratta di soldi in contanti e pertanto è difficile ricostruire l’origine o il percorso. Non diverso è quanto avviene con i terroristi indiani. Organizzazioni mafiose che hanno basi sempre nel Golfo, uomini d’affari e società di copertura alimentano gruppuscoli di varia ispirazione. E l’inchiesta sulla strage di Mumbai (novembre 2008), compiuta da separatisti del Kashmir basati in Pakistan, ha fatto emergere dettagli interessanti su come siano stati finanziati. Dollari sono arrivati da un imprenditore arabo d’origine indiana basato in Oman e legato al mondo integralista. Spese sono state sostenute grazie a piccole rimesse di complici itineranti, alcuni dei quali operanti a Brescia e città della Spagna. Parliamo di somme modeste che, tuttavia, messe insieme hanno permesso di risolvere problemi logistici anche minimi, come l’acquisto di schede telefoniche «pulite ».
L’insieme dei casi citati testimonia l’abilità di molte organizzazioni terroristiche. Anche con risorse contenute sono in grado di fare danni e superare muniti apparati di difesa. Chi ha le casse piene — ad esempio i talebani — è invece in grado di mantenere una pressione più lunga alimentando una vera guerriglia. Il segreto è quello di creare un apparato parallelo, non strettamente collegato al movimento e magari impegnato in imprese commerciali assolutamente legali. Un perfetto paravento per continuare a finanziare la violenza ed evitare un’eventuale condanna in tribunale.
Pierluigi Battista : " Onu, il campione delle occasioni perdute "
Non basta la documentazione fotografica della grande strage fornita dal Times. Non bastano i 20.000 civili che con plausibili approssimazioni si suppone siano stati massacrati nello Sri Lanka durante l’offensiva che ha sgominato le Tigri Tamil. Né i rastrellamenti dei bambini, le esecuzioni dei profughi da parte delle truppe paramilitari al servizio del presidente Mahinda Rajapaksa, l’emergenza umanitaria denunciata dalla Croce Rossa, le centinaia di orfani che secondo Save the Children, come ha scritto Cecilia Zecchinelli sul Corriere, «vagano terrorizzati» attorno ai campi profughi. Niente. Il Consiglio Onu per i diritti umani ha deciso a Ginevra di bocciare la proposta europea di un’indagine su quanto è accaduto. La visita di Ban Ki-moon a Colombo ha prodotto i suoi effetti. L’Onu non farà nulla, non indagherà, non si occuperà di diritti umani calpestati, dimostrerà ancora una volta la sua totale assenza di credibilità.
L’organismo internazionale preposto alla loro difesa tratta i diritti umani come un elastico, da manipolare secondo convenienza, sul metro dei rapporti di forza e nell’assoluta noncuranza dei princìpi. Mette a capo delle commissioni che dovrebbero tutelare l’integrità dei diritti nel mondo, nazioni che ne fanno scempio quotidiano. Anziché occuparsi della piaga razzista che ferisce la dignità di milioni di uomini organizza a Durban e Durban2 fiere internazionali dell’antisemitismo. Non spende una parola sulle atroci dittature che infestano il pianeta. Accoglie tra le sua braccia un tiranno come Mugabe, che si fa ritrarre mentre assieme ai suoi ospiti divora aragoste giganti sebbene lo Zimbabwe sia alla fame. Assiste senza fiatare alle impiccagioni seriali di minorenni a Teheran. Bacchetta l’Italia per la sua politica di «respingimenti » di clandestini che vengono rispediti nei Paesi che non rispettano i più elementari diritti, ma non affianca alla protesta neanche una nota di allarme per quegli stessi Paesi da cui masse di diseredati fuggono con disperazione.
Gravano sul passato dell’Onu le umilianti manifestazioni di impotenza di fronte agli eccidi di Srebrenica e del Ruanda. L’ombra dei sospetti di corruzione, come quello di Oil for Food nell’Iraq di Saddam Hussein. Appare sempre più senza freni e inibizioni il suo strabismo ideologico che accende l’indignazione per l’intervento israeliano a Gaza ma nello stesso tempo alimenta il silenzio sui massacri dei civili in Sri Lanka.
L’espressione convenzionale «sotto l’egida dell’Onu» sta diventando sinonimo di sicuro insuccesso tutte le volte che nel mondo esplodono crisi in grado di mettere a repentaglio le popolazioni civili. Adesso il bavaglio imposto da Ginevra a chi vuole sapere cosa sia accaduto nei campi fotografati dal Times: l’ennesima occasione perduta per riscattare l’onore ormai svanito.
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