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Io Donna Rassegna Stampa
16.03.2009 Cent'anni di Tel Aviv
Un articolo di Francesco Battistini

Testata: Io Donna
Data: 16 marzo 2009
Pagina: 58
Autore: Francesco Battistini
Titolo: «Cent'anni di tel Aviv»

Riportiamo da IO DONNA del 14/03/2009, a pag. 58, l'articolo di Francesco Battistini dal titolo " Cent'anni di Tel Aviv " su Tel Aviv. Ecco l'articolo:

“Ai tempi dei kamikaze, era il 2004, stavo a una festa sul lungomare. Qualcuno disse: è appena esplosa una bomba, tre chilometri da qui. Lo disse gridando, perché la musica era alta e non si sentiva. Vicino a me cera una ragazza bionda. Stava bevendo qualcosa. Deglutì. Si girò con una smorfia: Dio, disse, una bomba! Ma è una cosa terribilmente anni Novanta! Ecco, lei era una cosa tipicamente telavivi. Perché ci sono due mondi ebraici: Tel Aviv e il resto d'Israele”. Dizengoff, angolo Jabotinskv. Passeggiano i rabbini e i ragazzi hip-hop. Dal tavolino della sua solita colazione, al Michal Café, ogni mezzodì Keret adora guardare Ha-Buah. La Bolla, come chiamano Tel Aviv. Un mondo a parte che pare sempre sottovuoto, sigillato, scollegato dagli inferi mediorientali, che mezzo Paese per questo detesta e l'altro mezzo. per la stessa ragione, adora. Keret, il più famoso dei giovani scrittori israeliani, “il nostro Carver”, sta nel secondo gruppo: «Durante la guerra di Gaza, tutto il mondo ne parlava. Tutto, meno noi. Ed eravamo a meno di un'ora d'auto dalle bombe».
Te la do io Tel Aviv. Cent'anni fa qui era tutta sabbia e sicomori. C'erano Jaffa, gli arabi, un po' di sefarditi e di askenaziti. Il primo chiosco delle spremute si vede ancora, sulla Rothschild, e fa un buon espresso proprio dove stava il primo lampione a gas: rara reliquia, nella Città Bianca che tutto distrugge e tutto rigenera, peggio che a New York. Se vai a cercare dove abitava Weiss, uno dei 66 fondatori, ci trovi un ristorante di pesce. Se chiedi dov'era il liceo Herzliya, che fino agli anni Sessanta istruiva la classe dirigente, ti imbatti nella Shalom Tower, che vantavano come il grattacielo più alto del Medio Oriente, prima che arrivassero sceicchi e petrodollari. Se vuoi vedere le colorate maioliche Betzalel che ornavano le facciate, ora stanno perlopiù al museo. Non c'è più traccia dell'albergo Sanremo, che negli anni Quaranta faceva ballare gli scampati alla Shoah, o del caffè letterario Kassit. Il centro è un cantiere per le nuove torri firmate Richard Meier o Ieoh Ming Pei e adesso la movida si fa nei locali, nelle librerie, nelle boutique di Michal Negrin a Shenkin e a Florentine, alla Cinemateque e al caffè Herrietta, nei mille sushibar o sulla Taielet.
I ragazzi della notte fanno colazione al chiosco di Abulafia e poi vanno a baciarsi, scambiandosi in bocca l'ovetto al cioccolato di Max Brenner. Alla fine è un miracolo che ci sia ancora Newe Zedek, quartiere un po' artistoide dove il metro quadro ha prezzi inferiori solo a Tokyo e a Manhattan. O sia rimasto in piedi il tesoro delle quattromila case stile Bauhaus, il più grande giacimento al mondo protetto dall'Unesco: il fascinoso hotel Cinema e l'auditorium Mann, le palazzine bianche con le finestre a nastro e a onde, costruite dagli ebrei russi, polacchi, tedeschi che videro in quell'architettura essenziale un buon rimedio al gran caldo e alla loro scarsa dimestichezza con l'edilizia, ma pure la traduzione degli ideali socialisti da kibbutz, vedersi tutti uguali nell'orizzonte di un nuovo Stato. A Etgar Keret piace questo posto orizzontale e senza troppe memorie: «Mi capita anche a Roma: capisco meglio la città se vado nei quartieri di Nanni Moretti, non in piazza di Spagna. Per i monumenti e per affermare le identità, c'è Gerusalemme. Io preferisco un luogo che non ha una grande storia. E che invece ha una grande spiaggia. meglio di Miami, perché ci vai a piedi. Quasi nessuno è nato a Tel Aviv. E se il sabato mi sdraio a Gordon Beach, siamo tutti in costume: immigrati, tutti uguali. Esattamente il contrario di Gerusalemme, dove ci si veste di nero o velati per dire chi si è. Questa è una realtà extraterritoriale. E la spiaggia è la nostra garanzia. Quando ci fu la prima guerra del Golfo, e Saddam ci lanciava gli Scud, tutti sapevamo che il modo migliore per ripararci era quello: buttarsi a mare».
Perché Tel Aviv si chiama così? Molte le spiegazioni e la più suggestiva è che Tel (collina) indichi un'antica necropoli, mentre Aviv (primavera) dia il senso della rinascita. La vita sulla morte. «Ci piace smontare le parole» spiega Keret: «La nostra è una lingua che per duemila anni non c'è stata, un pò come questo luogo. E allora si inventa, si rifà, si prende da altre lingue. Siamo un miscuglio di Iran e di California. Per salutarci, sui boulevard, diciamo tov yalla bye, bene-andiamo-ciao: ebraico, arabo e inglese messi insieme. Per la cocaina c'è un termine nato a Tel Aviv: “leasnif” la traduzione dello sniff inglese. Per parlare d'uno che va a zonzo c'è “lezdangef” , l'anagramma di Dizengoff, la nostra via del passeggio», hanno cambiato il nome anche a Jaffa, per la verità, che ora è Yafo e da sessant'anni è inglobata: dei centomila arabi che ci vivevano allora ne sono rimasti ventimila. La parte antica è stata restaurata per metterci botteghe d'artisti, perlopiù ebrei, spesso fra problemi d'alcol e di droga. «Quello che ha fatto il cristianesimo all'ebraismo» ha scritto Sharon Rotbard nel suo Città nera, città bianca, una storia rivisitata «e quello che ha fatto l'ebraismo a Jaffa». Senza l'antico porto, poco integrati, gli arabi oggi sono una bolla nella bolla: raro che vadano ad abitare a Tel Aviv, anche per i prezzi; frequente che nei periodi caldi si scatenino a sassate. La coesistenza, quando non sfocia nell'intolleranza, si adatta alla reciproca indifferenza. «Qui non è Haifa, che ha mischiato arabi ed ebrei» riconosce Keret. E questa città se l'è scritta da sola, la sua storia: «Sigillati, scollegati. A farsi canne sulle spiagge dell'India. Poi però si scopre che i ragazzi di Tel Aviv sono la maggioranza del volontari nell'esercito. E che i telavivi morti in guerra sono quanti quelli delle altre città. Siamo liberi di testa, non imboscati. E se vuoi un consiglio, fai una camminata sulla Ben Gurion. Parti dalla spiaggia, dove c'è la lapide che ricorda la nave Altalena e lo sbarco degli irredentisti che cacciarono gli inglesi. Poi risali e vede la casa dell'uomo che fondò questo Paese, il primo teatro, il caffè A Propos dove si fece saltare un kamikaze. Alla fine arrivi a piazza Rabin. Il posto dell'assasinio. In un quarto d'ora, attraversi la storia d'Israele. E forse capisci che se scoppia La Bolla, scoppia un intero paese».

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