Dal CORRIERE della SERA di oggi, 08/02/2009, a pag. 28, l'articolo di Bernard-Henri Lévy " Ebrei e arabi : due battaglie contro il razzismo ".
Due processi a Lione. Il primo, intentato dalla Licra («Lega internazionale contro il razzismo e l'antisemitismo ») nei confronti del caricaturista Siné, è lungi dall'esser vinto. Sia la giurisprudenza che riguarda la stampa sia la prevedibile scaltrezza di Siné rendevano inevitabilmente azzardata un'azione sul tema dell'incitamento all'odio razziale. Detto questo, ed essendo stata presa la decisione, non potevo non essere presente; per niente al mondo avrei abbandonato il mio amico Philippe Val (direttore della rivista Charlie Hebdo, ndt); soprattutto, non mi dispiace avere avuto l'occasione di evocare, con altri e in particolare con l'avvocato Jakubovicz, le mirabolanti imprese di Maurice Sinet, detto Siné. Questi, un giorno, su «Carbone 14» (radio libera dei primi anni Ottanta, ndt), dichiarò: «Sono antisemita e non ho più paura di confessarlo; d'ora in poi disegnerò svastiche sui muri; voglio che ogni ebreo viva nella paura». Un'altra volta, sulla rivista
Charlie Hebdo: «Confesso che, più mi capita di incrociare donne con il velo, che nel mio quartiere proliferano, più ho voglia di prenderle violentemente a calci nel sedere». E ancora: «Volentieri rovescerei il piatto di lenticchie con salsiccia sulla faccia dei ragazzini che rifiutano di mangiare il maiale alla mensa della scuola». Infine, sempre su Charlie Hebdo, la ormai famosa cronaca dedicata a Jean Sarkozy (figlio del Presidente francese,
ndt) sospettato di volersi «convertire all'ebraismo» per far meglio il proprio «cammino nella vita».
C'erano tutti gli ingredienti della miscela antisemita: gli ebrei e il denaro; l'ingresso nell'Alleanza come ascensore sociale; i vecchi stereotipi ammuffiti del best-seller antisemita di Alphonse Toussenel ( Gli ebrei, re dell'epoca,
1845). Forse le sottigliezze della legge permetteranno a Siné, ancora una volta, di farla franca. Ma almeno una cosa è sicura: eravamo in tanti, quel giorno, attorno al presidente della Licra, Patrick Gaubert, ad essere felici che quelle insanie non trovassero più posto sulla stampa francese. Sarà umorismo carognesco, certo. Sarà critica delle religioni e dei dogmi, evidentemente. Però c'è una linea da non oltrepassare ed era bene dirlo: è l'attacco, non alle religioni, ma alle persone e in questo caso a corpi destinati a una presunta natura «proliferante» e quindi «animalizzata ». Il secondo processo, invece, si è già concluso. È quello di Jean-Marie Garcia, riconosciuto colpevole di aver ucciso, il 4 marzo 2006, all'uscita di un bar di Oullins, alla periferia di Lione, il giovane Chaïb Zehaf. Ero stato citato dagli avvocati di parte civile, François Saint-Pierre e Patrick Klugman, per porre una domanda semplice e al tempo stesso terribilmente complessa: cosa pensare della dimensione razzista del crimine? Il fatto che l'assassino la neghi è sufficiente ad escluderla dal campo della deliberazione? Il fatto che a casa sua siano state trovate armi o distintivi nazisti, pur non essendo egli affiliato a un'organizzazione neofascista, è un altro segno, su questo punto, della sua innocenza? Insomma, un atto è razzista solo se verbalizzato come tale? E cosa dire allora del razzismo che non passa attraverso le parole? Per la giustizia, la domanda non era priva d'importanza, poiché la qualifica del reato come razzista costituisce, come tutti sanno, una circostanza aggravante. Per la famiglia, i vicini, gli amici, non era meno essenziale, essendo talmente viva la sensazione che scartarla fin dall'inizio sarebbe stato un atto di disprezzo, un diniego di giustizia, una sorta di secondo omicidio simbolico.
La mia risposta in quanto «testimone »? Difficile, naturalmente. Priva di formule già pronte. Ma si è appoggiata su due solide constatazioni. Innanzitutto, il progresso dello spirito democratico che fa sì che il razzismo si formuli sempre meno apertamente e obbedisca — omaggio del vizio alla virtù — a un regime di enunciazione che è quello del diniego metodico. Poi, un fatto che salta agli occhi: quando un forsennato, trovandosi all'interno di un bar, si preoccupa di sparare in aria; quando, minacciato da civili che, ancora non lo sa, sono poliziotti, si preoccupa di non sparare per niente e quando, per sparare e uccidere, aspetta di trovarsi di fronte a un volto guarda caso abbronzato, ci vuole molta ipocrisia, o leggerezza, o entrambe le cose, per scartare con disinvoltura l'ipotesi della pulsione razzista. È una questione di parole. Cioè, come sempre, di principi. Tant'è vero che, come diceva Albert Camus, e per quanto ne dica la legge, «dare un nome sbagliato alle cose, significa accrescere i mali del mondo ».
Nei giorni dei processi ho dovuto subire ogni tipo di commenti più o meno benevoli. Su un sito internet, un blogger di nome Bilger si è meravigliato che fossi citato in due processi così diversi e, per spiegare la sua meraviglia, si è lanciato in considerazioni perlomeno strane sulla «verità giudaica » (sic) di cui sarei il portavoce. Da parte mia, questi processi sono stati, lo ripeto, l'occasione di ricordare il più prezioso dei principi costitutivi del patto repubblicano. E sono stati anche — perché non confessarlo? — una sorta di viaggio attraverso il tempo: nell'epoca ormai lontana in cui fondammo «Sos Razzismo», basandoci sull'idea semplice, ma apparentemente non così facile da mettere in pratica, che in materia di discriminazione non ci sono mai vittime sospette né colpevoli privilegiati. Una volta dicevamo: «Ebrei a Parigi, arabi a Tolone, sono i nostri amici ad essere assassinati ». Oggi bisogna continuare così: «Che prenda di mira il figlio di un Presidente o un piccolo operaio, che uccida un Ilan Salimi o un Chaïb Zehaf, il razzismo resta razzismo, e quella dei due pesi e due misure resta la forma più subdola della nostra vigliaccheria, se non del nostro consenso».
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