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La Stampa - Il Foglio Rassegna Stampa
29.01.2009 Il pugno di Ahmadinejad resta chiuso: chiede all'America di scusarsi e di abbandonare Israele
le cronache di Maurizio Molinari e Tatiana Boutorline

Testata:La Stampa - Il Foglio
Autore: Maurizio Molinari - Tatiana Boutorline
Titolo: «Obama a Karzai: più impegno o vai via - Assaggio d'Iran»
Da pagina 17 de La STAMPA del 29 gennaio 2009, un articolo di Maurizio Molinari sulla politica estera di Barack Obama: "Obama a Karzai: più impegno o vai via"

Barack Obama mette alle strette l’alleato afghano Hamid Karzai, riceve messaggi pacificatori dal rivale russo Dmitri Medvedev e causa irritazione nel presidente iraniano Mahmud Ahmadinejad. All’indomani dell’intervista del presidente Usa ad al-Arabiya, segnata dall’offerta al mondo dell’Islam di un dialogo basato sul «rispetto reciproco», emergono altre novità a raffica nella politica estera americana. A svelare la prima sono alcune fonti dell’amministrazione che descrivono al New York Times l’irrigidimento di Obama con il presidente afghano Karzai. A recapitare il messaggio a Kabul è stato il vicepresidente Joe Biden, prima ancora dell’insediamento, facendo sapere a Karzai che le perodiche videoconferenze che faceva con Bush sono state sospese perché da lui ci si aspetta «più impegno per le riforme interne».
A spiegare di cosa si tratti in concreto sarà Richard Holbrooke, inviato Usa per Afghanistan-Pakistan, che si appresta a recarsi a Kabul per chiedere di combattere la corruzione, ostacolare il traffico di oppio e garantire migliori servizi alla popolazione civile. Obama è convinto, al pari di Biden e Holbrooke, che proprio queste disfunzioni a Kabul consentono ai taleban di continuare ad avere sostegni locali. Sebbene il portavoce Robert Gibbs si limiti a dire che «è in corso una revisione della politica afghana, rispettiamo i presidenti democraticamente eletti» la pressione di Obama su Karzai, in vista delle presidenziali di questa estate, potrebbe segnarne le sorti politiche anche perché Holbrooke sarebbe favorevole a «rafforzare i legami con le autorità nelle province». «Karzai è considerato un ostacolo agli obiettivi in Afghanistan» hanno detto le fonti Usa.
A questo bisogna aggiungere la scelta della Casa Bianca di accelerare l’invio di altri 30 mila uomini - del quale Obama ha parlato ieri con il ministro Robert Gates al Pentagono - al fine di aumentare la pressione militare sui taleban e gli alleati di Al Qaeda. L’impressione è che Obama punti a ridisegnare l’approccio all’intera regione. «Il presidente è stato chiaro nel dirci che dobbiamo considerare il Pakistan nella nostra strategia afghana» conferma l’ammiraglio Mike Mullen, capo degli Stati Maggiori Congiunti, lasciando intendere che alle pressioni su Kabul potrebbero seguirne di ancora più decise su Islamabad, a cui Obama rimprovera un eccesso di tolleranza nei confronti dei clan tribali locali che proteggono i leader di Al Qaeda.
Da Mosca invece le novità sono giunte grazie alle dichiarazioni di «alti funzionari militari» che hanno affidato ad una locale agenzia di stampa l’annuncio del «blocco del dispiegamento dei missili a Kaliningrad». La minaccia di installare i vettori Iskander nell’enclave russa fra Lituania e Polonia era venuta dal presidente russo il giorno dopo l’elezione di Obama e ora la marcia indietro è spiegata dal Cremlino con il fatto che «gli Stati Uniti non stanno procedendo nei piani di dispiegamento del sistema antimissile» in Europa Orientale. La Casa Bianca non ha commentato tali affermazioni e non vi sono state dichiarazioni di Obama sulla sorte dello scudo balistico immaginato da Bush per proteggere l’Europa ma la mossa di Medvedev lascia intendere che dietro le quinte vi sia stato uno scambio di messaggi.
In Medio Oriente l’intervista ad al-Arabiya ha avuto come risultato l’irritazione di Ahmadinejad che di fronte alla mano tesa da Obama verso l’Islam ha reagito parlando di «mosse tattiche senza cambi di strategia», accusando la Casa Bianca di voler ingannare i musulmani. «Sono 60 anni che l’America ci è contro, chi vuole il cambiamento deve scusarsi e pagare i danni per i crimini commessi» ha detto il leader di Teheran, tradendo nervosismo di fronte al rischio che Obama riesca a trasmettere un’immagine positiva degli Stati Uniti.
Anche nella scelta del primo viaggio all’estero Obama vuole distinguersi: se Bush andò in Messico lui il 19 febbraio farà visita al Canada.

Da pagina 2 dell'inserto de Il FOGLIO riportiamo l'articolo di Tatiana Boutorline "Assaggio d'Iran" sulla risposta negativa data dal presidente iraniano Ahmadinejad all'offerta di dialogo proveniente da Barack Obama:

Roma. “Il tempo del bastone e della carota è finito. L’America deve chiedere perdono per i suoi crimini contro il popolo iraniano”. E’ dal 2006 che tra un’invettiva e l’altra Mahmoud Ahmadinejad invoca colloqui bilaterali senza intermediari e senza condizioni, ma proprio quando a Washington vince il partito dell’engagement, il presidente iraniano rilancia lo scontro. Così la prima reazione ufficiale alla “mano tesa” di Barack Obama è stato il consueto pugno chiuso. In un attacco che affonda il coltello nelle relazioni tra Stati Uniti e Iran degli ultimi 60 anni – dal rovesciamento di Mossadeq alla querelle sul nucleare, passando per la guerra in Iraq – Ahmadinejad fornisce al neopresidente un assaggio dell’ambivalenza della retorica e della diplomazia iraniana. Teheran esige anzitutto il ritiro delle truppe dall’Iraq e la fine del sostegno all’“entità sionista”: soltanto allora valuterà se alle parole corrispondono reali intenzioni di cambiamento. L’apertura di Obama mette in imbarazzo Teheran, che è anche disposta a discutere di Comandanti pasdaran e bassiji fiancheggiati da influenti esponenti di governo hanno costituito un comitato per la rielezione. Il gruppo, dotatosi dello slogan “Combattere la guerra psicologica del nemico”, ha dato il via alla distribuzione di dvd che illustrano “gli storici risultati” ottenuti da Ahmadinejad. Attraverso il suo network di moschee e la solerte manovalanza di volontari bassiji, il comitato si pone il duplice obiettivo di rinverdire la popolarità del presidente e di delegittimare i suoi avversari. “Il nemico” infatti non è rappresentato soltanto dal Grande Satana statunitense e dal Piccolo Satana israeliano, ha chiarito Masoud Jazayeri, uno dei promotori del comitato: “Nemmeno il suono di una voce a sostegno dell’occidente deve essere udita”, ha detto, facendo un riferimento tutt’altro che velato all’ex presidente Mohammed Khatami e ai cosiddetti pragmatici di regime (come Ali Akbar Hashemi Rafsanjani e Ali Larijani) già ripetutamente additati come pedine dell’imperialismo occidentale. E’ Khatami in odore di ricandidatura il fulcro dell’aggressiva campagna stampa dei supporter di Ahmadinejad. “Khatami non ha il fegato per presentarsi alle elezioni”, ha sentenziato il quotidiano Kayhan, ricordando come anche l’ayatollah Ali Khamenei a dicembre abbia invitato il popolo iraniano a scegliere un leader rivoluzionario, efficiente, attivo e coraggioso, che si riconosca nei principi e nell’identità del sistema, un identikit che stona con quello del presidente-filosofo Khatami e della sua impalpabile “democrazia islamica”. Ma i nemici di Ahmadinejad non si annidano soltanto al vertice della piramide e lo stato maggiore del presidente gioca d’anticipo neutralizzando il dissenso con l’intimidazione. Nel mirino i soliti “untori” studenti, ricercatori, professori universitari , blogger, esponenti di ong, rappresentanti dei lavoratori, tutti accusati a vario titolo di complottare una rivoluzione di velluto per rovesciare il sistema. “I bassiji devono prepararsi anche ad affrontare eventi come manifestazioni e scioperi”, ha avvertito Abdollah Araghi, comandante della base militare Mohammed Rasoul Allah, responsabile della sicurezza di Teheran. Un saggio della determinazione del partito dei martiri di Ahmadinejad è arrivato dal trattamento riservato al Daftar-e-Tahkim-e Vahdat, la principale associazione studentesca iraniana. Con uno sforzo coordinato tra giornali vicini all’Amministrazione e agenzie filogovernative l’organizzazione è stata proclamata illegale. Una presa di posizione arrivata a pochi giorni dalla pubblicazione di una dichiarazione del Daftar-e-Tahkim-e Vahdat pubblicata dal quotidiano Kargazaran in cui l’associazione denunciava da un lato “gli atti criminali” di Israele e dall’altro Hamas e la sua pratica “inumana e deplorevole” di nascondere militanti armati negli asili e negli ospedali, causando così la morte di civili innocenti. Dopo aver tolto la patente di legittimità all’organizzazione, l’Amministrazione Ahmadinejad ha chiuso anche il quotidiano Kargazaran. un accordo ad interim sulla spartizione del medio oriente, ma non a recedere dai suoi obiettivi atomici: per Ahmadinejad l’opzione nucleare è l’unica che possa garantire all’Iran lo status di superpotenza regionale. “Questo pugno chiuso è l’unico capitale del regime – scrive il quotidiano Resalat – sarebbe una follia cedere quando non si è sicuri di ciò che si avrà in cambio”. La dirigenza iraniana è scettica riguardo al cambiamento incarnato dal neopresidente americano. Per il quotidiano dei falchi Keyhan “Obama cammina sulle tracce di Bush”. Davoud Ahmadinejad, fratello del presidente, dice: “Obama è il nuovo Gorbaciov”, così come è caduto il comunismo, crollerà l’imperialismo americano. Teheran alza i toni per prendere tempo e non svelare le sue carte, persuasa che la diplomazia diretta e rigorosa annunciata dal nuovo ambasciatore americano all’Onu, Susan Rice, si tradurrà presto in altre sanzioni unilaterali da parte di Washington, cosicché la differenza rispetto alla “diplomazia muscolare” di George W. Bush sul campo si rivelerebbe irrisoria. “Dopo aver cambiato la loro immagine si presenteranno al mondo e la comunità internazionale si chiederà perché l’Iran che si opponeva a Bush si oppone anche all’innocente presidente Obama. Intanto cercheranno di affondarci economicamente”. Con una leadership appannata dalla crisi in cui versa l’economia iraniana, Ahmadinejad deve pensare a lanciare la sua campagna elettorale. In una stagione in cui il prezzo del pane è prima raddoppiato e poi triplicato, in patria l’iperbole retorica è un’arma spuntata. E’ dunque ripartita la gioiosa macchina da guerra di Ahmadinejad.

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