Sul CORRIERE della SERA di oggi, 05/01/2009, l'editoriale di Piero Ostellino, accurato e senza ipocrisie come sempre. L'analisi di Guido Olimpio sui rapporti con Iran e Siria. La cronaca di Davide Frattini. Tre servizi di Francesco Battistini, il primo sui crimini di Hamas contro i palestinesi del Fatah, il secondo sul dopo - invasione e il terzo un'intervista con Nahum Barnea sul perchè non ci sarà occupazione di Gaza. Ennio Caretto intervista Anthony Zinni sul lancio dei missili di Hamas. Luigi Offeddu intervista il ministro degli esteri ceco Schwarzenberg e riporta le opinioni di Brown e Merkel sul conflitto. Polemiche in Italia fra destra e sinistra nei servizi di paolo Foschi e Roberto Zuccolini. Conclude Paolo Salom con due interviste a Fouad Allam e Dell'Olio, esponente di Pax Christi che si schiera con i fondamentalisti di viale Jenner. Riportiamo anche una breve che riguarda Gad Lerner, che avremmo titolato : " Non è mai troppo tardi ". Ecco gli articoli :
Piero Ostellino - " Chi sono i veri responsabili "
Di fronte alle morti e alle distruzioni di Gaza, «l' obiettivo dell' abolizione della guerra — per dirla con le parole di Immanuel Kant - è un imperativo della ragione». Ma la ragione vuole anche che si sappiano distinguere chiaramente le responsabilità delle parti in conflitto.
La pietà per i morti palestinesi fa dire a Adriano Sofri che «gli invasati, o i farabutti, non rendono un popolo correo del loro fanatismo: nemmeno quella metà del popolo che li ha votati in un'elezione» («Le vittime che servono per dire basta», la Repubblica di ieri). È la stessa conclusione cui erano pervenuti gli spiriti liberi da pregiudizi ideologici, e falsamente antropologici, a proposito dell'accusa di una «responsabilità collettiva» del popolo tedesco per il nazismo e per la seconda guerra mondiale. C'è, invece, come ha scritto Hannah Arendt sul processo Eichmann, una «banalità del male» che inchioda alle proprie responsabilità individuali l'ottuso fanatismo dei farabutti.
Ma se i palestinesi di Gaza cadono, sì, sotto le bombe israeliane, la responsabilità prima di quelle morti e di quelle distruzioni — che ci fanno orrore, come la morte di ogni uomo per mano di un altro uomo — è di Hamas; così come quella delle morti e delle distruzioni delle città tedesche bombardate dagli alleati era di Hitler. Hamas, da un lato, condanna, ora, la reazione militare di Israele come il male, ma poi, dall'altro, sembra dimenticare di aver fornito una giustificazione politica, e persino religiosa, ai propri attacchi missilistici ai territori israeliani limitrofi che l'hanno provocata. Non lo dovrebbero dimenticare, anche e soprattutto, coloro i quali, in Occidente, bruciano le bandiere di Israele e inneggiano alla «guerra di liberazione » dell'integralismo antisemita islamico di Hamas.
Se ai palestinesi che ancora attendono la nascita del proprio Stato — la risoluzione dell'Onu del 1947 di spartizione della Palestina lo prevedeva, con quella di Israele — fosse stato dato di conoscere davvero la natura delle decisioni, ieri dei governi arabi, oggi dei loro rappresentanti, saprebbero che il proprio vero interesse sta nella pace. E che la sola condizione per realizzarla, attraverso il diritto, compreso quello di Israele alla propria esistenza, sarebbe — come ha scritto Jeremy Bentham nel «Progetto di pace universale e perpetua» (1786-1789) — un governo democratico che li rappresentasse.
La pace è la condizione necessaria per assicurare al popolo palestinese libertà e indipendenza. Le guerre — che, a partire dal giorno stesso della sua nascita, gli Stati arabi hanno fatto a Israele; e il terrorismo, che il fanatismo religioso gli ha scatenato contro dalla prima Intifada— l'hanno impedita. Le guerre e il terrorismo — cioè la dichiarata e costante volontà di distruggere Israele e di sterminare gli ebrei — hanno trasformato due diritti «eguali», e parimenti legittimi, ad avere un proprio Stato, in due diritti «contrastanti».
Guido Olimpio - " E' caccia agli ufficiali formati in Iran e Siria "
Contando sul loro strapotere, gli israeliani mirano alla testa di Hamas. In tutti i sensi. Primo. Cercano di uccidere il maggior numero possibile di «ufficiali», quelli addestrati in Iran e Siria, in grado di coordinare la resistenza e tenere insieme l'apparato clandestino. In queste ore ne sono caduti diversi nei combattimenti o in seguito a omicidi mirati. Secondo. Vogliono bloccare i due «centri nevralgici» che Hamas ha creato nel Nord — campo di Jabaliya, Beit Hanoun, Gaza City — e nel Sud della Striscia. Invece che rischiare operazioni diurne, le forze israeliane si rimettono in moto con la copertura delle tenebre provando a distruggere la fascia di difesa che i palestinesi hanno creato a circa tre chilometri dal confine. Di nuovo, le coordinate geografiche di Gaza devono far capire che stiamo parlando di un fazzoletto di terra: la Striscia è lunga solo una quarantina di chilometri e larga tra i 6 e i 12 chilometri. Gli invasori possono entrare ed uscire abbastanza rapidamente avendo il totale controllo dell'unico asse stradale nord-sud e delle poche vie che tagliano, dall'interno verso il mare, l'area. Terzo. È forse l'obiettivo più difficile. Il ministro della Difesa Barak vuole che il colpo su Hamas sia così duro da far passare il messaggio che «la battaglia è persa». E questo, secondo i teorici dello Stato Maggiore, dovrebbe «entrargli nel cervello». Così all'invito di Hamas— venite a prenderci nei centri abitati — rispondono con una brutale franchezza confermata anche dal crescente numero dei morti: non è l'azione ideale, ma se serve lo faremo e non ci faremo fermare dagli scudi umani. Una sfida tra i due campi che conferma — come ha scritto il New York Times — quanto sia forte in questa terra la seduzione della guerra.
Davide Frattini - " Israele circonda Gaza City e avanza ancora nella Striscia "
EREZ — I colpi partono dagli alberi d'arancio e alzano una colonna di fumo bianco dall'altra parte. L'artiglieria batte sulla Striscia, apre la strada ai soldati che avanzano. Sono entrati da quattro brecce per tagliare a metà lo stretto corridoio di sabbia e per circondare la città di Gaza.I palazzoni del centro sono sotto assedio. Le strade sono pattugliate dai miliziani, bandana verde per quelli di Hamas, nera per la Jihad islamica e gialla per i fedeli del presidente Abu Mazen. L'invasione ha riunito i colori delle fazioni che per mesi si sono combattute. Il Piombo Fuso cola dai villaggi sul confine, scende da nord e arriva in piazza Palestina. Un obice cade sul mercato, in cinque restano uccisi, si erano avventurati fuori per provare a recuperare provviste, «l'operazione non durerà pochi giorni», minaccia lo Stato Maggiore israeliano. I palestinesi morti dall'inizio dell'offensiva sono 512. Ieri almeno 42, oltre la metà civili (tra loro una madre e i quattro figli) secondo fonti degli ospedali nella Striscia.
Per la prima volta dal ritiro di Gaza nell'agosto del 2005, i carrarmati israeliani tornano tra le macerie della colonia di Netzarim. Centocinquanta — conta il canale Sky —, piazzati sulle dune di sabbia per controllare la strada che viaggia da nord a sud. È qui che Ahmed Jaabari, di fatto il comandante in capo dell'esercito fondamenta-lista, ha insegnato ai militanti le tattiche utilizzate dagli Hezbollah in Libano. È qui che Hamas ha allevato i suoi soldati: ventimila, stimano i servizi segreti israeliani. Sono quelli che negli otto giorni di bombardamenti si sono nascosti in abiti civili. Al nono, hanno tirato fuori la divisa.
Le forze di terra israeliane si sono addestrate per un anno e mezzo nel deserto del Negev, dove è stato ricostruito un modello del centro di Gaza. I generali hanno simulato l'offensiva nei giochi di guerra per pronosticare e disinnescare le sorprese promesse dagli integralisti.
I fanti della Brigata Golani si muovono in fila, i cani dell'unità speciale Egoz vanno avanti ad annusare l'esplosivo. Prima sorpresa: vie e strade minate. Le truppe non sono ancora entrate nelle aree più popolate. «È lì che stanno cercando di attirarci», commenta Gabi Ashkenazi, capo di Stato maggiore. È la seconda sorpresa: cecchini sui tetti e sparatorie in mezzo ai civili. I primi scontri sono stati in campo aperto, dove è più facile proteggersi dagli attacchi kamikaze. La terza sorpresa. «La linea guida dell'incursione — scrive Alex Fischman su Yedioth Ahronoth — è molto semplice: non prendere alcun rischio. Siamo partiti accompagnati da tutta la potenza di fuoco possibile, inclusa l'artiglieria, per proteggere i nostri uomini. Pagheremo dopo il prezzo della condanna internazionale per le vittime collaterali». Tsahal ha preso il controllo delle aree da dove vengono lanciati i razzi Qassam. «Non vogliamo rioccupare la Striscia di Gaza — spiega una fonte militare al New York Times
—. Resteremo in queste zone almeno per tutta la durata dell'operazione ». Anche ieri i miliziani sono riusciti a sparare quaranta proiettili, tra razzi e colpi di mortaio, sulle città attorno alla frontiera.
Ismail Haniyeh, il primo ministro deposto da Abu Mazen, e Mahmoud Zahar, uno dei leader più oltranzisti, non si sono fatti vedere in giro dall'inizio dei raid, il 27 dicembre. «Non hanno paura di morire, come sostiene il nemico », rispondono i portavoce del movimento. È la guerra psicologica. Come quella attorno al bilancio del primo giorno di scontri frontali. I fondamentalisti proclamano di aver ucciso cinque soldati e di averne rapiti due. «Non ne sappiamo niente», replicano dall'esercito. Le forze armate annunciano di aver ammazzato almeno cinquanta miliziani, tra loro due capi delle Brigate Ezzedin Al Qassam, dagli ospedali di Gaza parlano soltanto di cinque. Lo Stato maggiore ha confermato la morte del primo soldato, negli scontri più pesanti, quelli attorno al campo rifugiati di Jabaliya.
A Gaza non vanno in frantumi solo le finestre. La rete dei cellulari è collassata, il 90 per cento non funziona e i tecnici non possono muoversi per riparare i danni. «Restiamo isolati dal resto del mondo», avvertono dalla Paltel, la compagnia telefonica. L'elettricità va e viene e nelle moschee— dove funzionano i generatori — le file più lunghe sono quelle verso le prese di corrente. «Abbiamo passato la notte nell'ingresso del palazzo», racconta Lubna Karam all'Associated Press. «Da una settimana non abbiamo più acqua e luce nell'appartamento. I vetri sono saltati, il freddo è insostenibile ».
Due anni e un rapporto Winograd dopo, Ehud Olmert sembra aver imparato quali parole scegliere per annunciare al Paese un'offensiva come quella partita sabato. O almeno evitare un'altra commissione d'inchiesta che lo accusi di essersi affrettato a entrare in guerra, commentano i giornali. «Mi sono chiesto e ho chiesto ai colleghi ministri, se esistevano altre scelte, prima di mandare i nostri ragazzi in una situazione così rischiosa. Posso guardarvi negli occhi e dirvi che prima abbiamo tentato qualunque soluzione», ha proclamato il premier israeliano a un gruppo di madri di soldati.
Yuval Diskin, capo dei servizi segreti, è convinto che Hamas sia pronta ad ammorbidire le richieste per il cessate il fuoco. «Hanno subito un colpo durissimo e abbiamo ridotto al minimo la loro capacità di produrre nuove armi». Il presidente Shimon Peres ha escluso per ora una tregua. «I fondamentalisti non possono nascondere di operare per conto dell'Iran. Non vogliamo rioccupare la Striscia di Gaza. Hamas ha bisogno di una lezione seria e la sta ricevendo».
Francesco Battistini - " Il Fatah accusa i nemici , torturati e uccisi decine di nostri uomini"
«Due, Nasser Muhana e Saher al-Silawi, li hanno fatti uscire di prigione: uccisi appena hanno girato l'angolo. Un altro l'hanno messo agli arresti in casa sua e gli hanno detto: "Guai se esci. Ti è concesso d'andare soltanto alla moschea per la preghiera del venerdì".
Trentacinque persone sono state uccise nelle ultime quarantott'ore». La denuncia viene da Ramallah, quartier generale dei moderati Fatah: gli uomini di Hamas stanno imprigionando, torturando, ammazzando tutti i sostenitori di Abu Mazen. «Li accusano d'essere collaborazionisti d'Israele — dice Fahmi Zaarim, portavoce del partito —. C'è chi finisce in carcere con l'imputazione di tramare per rovesciare il governo di Gaza. Calunnie. Ma bastano a fare sparire dalla circolazione chi non la pensa come Hamas».
Secondo l'Autorità palestinese, negli ultimi giorni sono stati perseguitati almeno 75 sostenitori del Fatah: «Spezzano loro le braccia, sparano alle gambe. Sono nervosi, sentono che s'avvicina la fine e si scatenano contro i nostri».
Impossibile verificare l'attendibilità di tutte le denunce, nel caos della Striscia. Ma qualche giorno fa c'è stato anche un rapporto di alcune ong che parlavano di «intimidazioni» rivolte a chiunque sia sospettato di collaborazionismo: pochi giorni prima dell'offensiva, Hamas ha esteso la pena capitale a qualunque «rapporto improprio» con potenze straniere. Il caso più citato è quello di Wisam Abu Jalhum, sostenitore del Fatah nel campo profughi di Jabalya.
Secondo testimonianze, incrociando un attivista di Hamas, avrebbe fatto il segno V della vittoria con le dita. Le minacce sono aperte: «Aspettiamo solo che sui tank israeliani rientrino Abu Mazen e quel traditore di Mohammed Dahlan», ovvero l'ex capo della sicurezza nella Striscia, uomo del Fatah, «e avranno quel che si meritano: verranno appesi nella pubblica piazza».
Francesco Battistini - " Israele e i dubbi sul dopo - invasione: che fare della leadership di Hamas"
GERUSALEMME — Da una settimana, Al Aqsa Tv non ha molto da trasmettere. O i comunicati di Hamas. O il solito video: la mattanza, l'urlo nero d'una madre, le ambulanze, le brigate Al Kassam col passamontagna, i razzi che partono e le bandiere verdi in dissolvenza, i canti di guerra, i pugni alzati per la morte al sionismo... Ieri, di colpo, lo schermo formicolava. Due secondi di nero. Sono comparse le immagini dei capi di Hamas, in fila come ricercati. Un puntino rosso sulla fronte di ciascuno. Un colpo secco, la foto che va giù. Poi una sveglia in sovrimpressione, le lancette puntate sulle 9 e sull'inizio dell'offensiva di terra. Una scritta: «La vostra ora è arrivata».
Hamas vuole la distruzione d'Israele, ma Israele vuole la distruzione di Hamas? «Non abbiamo alcuna intenzione di rioccupare Gaza, né di schiacciare Hamas», ripete il presidente Shimon Peres. Parole più leggere degli obici, però: in tre giorni, l'esercito israeliano ha già ammazzato cinque leader militari del movimento islamico, da Nizar Rayyan a Muhammad Al Shalfu, da Husam Hamdan a Mohammad Hilo. E l'hackeraggio col tirassegno su
Al Aqsa, organizzato dai servizi dello Shin Bet, fa da eco a quel che giorni fa scappò dalla bocca di Haim Ramon, vice di Olmert: «È chiaro che, se entriamo, vogliamo anche un cambio di regime politico nella Striscia...». Non è un caso che Ramon ed Eli Yishai, leader della destra Shas, siano i soli ministri astenuti al Consiglio di gabinetto che ha votato l'attacco: troppo poco, secondo loro, marciare su Gaza solo per smantellare i razzi.
Il problema si porrà, prima o poi. E Haaretz se lo chiede: ma chi comanderà un giorno, nella Striscia? Esclusi i capi di oggi, il «siriano» Khaled Meshaal che sogna solo la distruzione d'Israele, l'ex profugo Ismail Haniyeh che sembra sempre «l'uomo giusto al posto giusto ma nel mondo sbagliato » (definizione d'un giornalista palestinese), quando il Piombo Fuso si sarà indurito, si troverà qualcuno di presentabile? Tutti dicono che la domanda è prematura. A partire dai vecchi capi del Fatah, che un po' ci sperano. Gli eterni Nabil Shaat e Mohammed Dahlan, per dirne due, l'economista e «il colonnello», ex arafattiani che entrarono in conflitto con la Grande Kefiah. Oggi vivono lontano da Gaza, accusati di corruzione, ma hanno da giocare la carta d'un rapporto speciale con Israele: «Sono impresentabili — dice un giornalista pro Hamas dell'agenzia Ramattan —, ma nella storia palestinese queste cose contano fino a un certo punto. Shaat ha molti legami in America. E Dahlan, sospettato d'avere rubato 60 milioni di dollari, è amico del figlio di Mubarak: ha una sua rete di potere».
Anche nell'immobile Hamas, qualcosa si muove. Un segnale è l'offerta al Fatah di Mussa Abu Marzuk, che sta a Damasco, perché «è il momento d'unirsi e dialogare». O di Mohammed Nazal, che chiama a una riunione interpalestinese tutte le fazioni: quel che Abu Mazen voleva un mese fa. Se sopravvivrà alla guerra, qualche aspirante alla leadership è additato: Muhammed Eid Shubair, 62 anni, studi in Egitto e in Virginia, l'ex rettore dell'università islamica che (per una settimana) fu l'unico primo ministro d'unità palestinese, nel 2006; Khalil Al Hayieh, 49 anni, il «sudanese» (ha studiato là), esegeta del Corano e forte di quasi 75 mila voti alle ultime elezioni; Said Siyam, 50 anni, «il taciturno », che ha lavorato una vita per l'Onu... Non ce n'è uno che non si sia beccato il razzo mirato di qualche aereo israeliano, negli ultimi due anni, ma chissà perché passano tutti per uomini nuovi di Hamas. Personaggi tanto temuti quanto popolari. Come Mahmud Khaled Al Zahar, 57 anni, «il medico ». È amico dei Fratelli Musulmani, ha fatto il ministro degli Esteri di Hamas, è stato nelle galere sia d'Israele che dell'Autorità palestinese e, pena accessoria, gli hanno tagliato pure la barba islamica: «Una nuova era sta per cominciare», ha detto qualche settimana fa. Ha appena smesso di fumare, ma forse non si riferiva a quello.
Francesco Battistini - " Ma l'obiettivo non è l'occupazione "
GERUSALEMME — «Sì, Hamas è un argomento che seguo da molto tempo...». Non è facile parlare con lucidità di chi ti ha ucciso un figlio. E se David Grossman è lo scrittore con la famiglia ferita da Hezbollah, a Nahum Barnea i padroni di Gaza ricordano un autobus esploso a Gerusalemme, 1996, e il suo ragazzo che ci viaggiava sopra. 62 anni, ex militare, quattro giorni prima dell'attacco di terra il più acuto analista israeliano ha scritto su Yedioth Ahronot
d'avere un diritto: aspettarsi «qualcosa di più» di quella fragile tregua che seguì l'operazione militare della scorsa primavera.
Intendeva un cambio di regime nella Striscia?
«Tornare a quell'idea di Hamas che avevamo sei mesi fa non basta. Se investi molto nei raid aerei, nel paralizzare la vita d'un decimo degl'israeliani, da Beer Sheva ad Ashkelon, allora t'aspetti di raggiungere qualcosa di più tangibile e significativo d'una tregua come quella. C'è stato un falso cessate il fuoco, negli ultimi due mesi. Serve una tregua più lunga, più solida».
Ma se Hamas verrà spianata, chi comanderà nella Striscia?
«È abbastanza semplice. Nel governo, ci sono due strade percorribili. Una fa capo a una minoranza: ritiene che Israele debba colpire e distruggere Hamas per sostituirlo, almeno temporaneamente, con un'occupazione militare israeliana. La pensa così gente come Ramon, il vicepremier, o il ministro Yishai della destra religiosa. Forse hanno anche il sostegno da gente dell'opposizione di destra. Nella maggioranza, però, l'obbiettivo al momento è diverso: prendere quel che c'è e migliorarlo nell'immediato futuro, se possibile. Essere sicuri che Hamas non userà più i razzi per perseguire i suoi obbiettivi. I leader israeliani, tutti, non hanno interesse a controllare Gaza e a distruggere il regime di Hamas».
Ma come si fa a lasciare Hamas al potere, se intanto se ne ammazzano i leader?
«Mi sembra che l'esercito si stia focalizzando soprattutto sui leader militari, non sui leader politici, che continuano a non essere considerati gli obbiettivi di questo attacco militare. Hamas è più debole e molto diversa dalla leadership libanese degli Hezbollah: nel 2006, quelli erano spaventati dall' idea d'una guerra, anche se il loro potere politico e militare era solido. Hamas vuole la sfida, perché sa che non c'è una classe politica che possa rilevarne il potere politico, per adesso».
E Fatah? La guerra potrebbe riportarlo a Gaza?
«Credo sia troppo presto. Non si può guardare a quel che s'è fatto in Cisgiordania, col sostegno degli americani, dove hanno messo gli uomini dell' Autorità palestinese a ristabilire legge e ordine a Jenin, a Hebron. Quell'esperienza non è ripetibile a Gaza: il mondo arabo non potrà mai accettare che Abu Mazen riceva un regalo, la Striscia, dagli israeliani. E poi c'è anche il fatto che Fatah, a Gaza, è molto debole. Hamas l'ha buttato fuori in due settimane. E l'ha rimpiazzato senza problemi».
Vede qualche leader palestinese emergente?
«Purtroppo, vedo i leader che ci sono adesso. Chi conta è Meshaal, a Damasco. Ismail Haniyeh non è niente, non è importante: lo considerano qualcosa solo dentro i campi profughi, forse. Trovo interessante il punto di vista egiziano su quello che sta succedendo a Hamas: da quasi due anni c'è un vuoto di potere, a Gaza. È un punto di vista oggettivo. È da lì che bisogna ripartire».
Magari organizzando nuove elezioni a Gaza? Il Likud sostiene che quello è stato il più grave errore d'Israele.
«Israele non ha organizzato nulla. La responsabilità è di altri. E comunque, questo è il secondo tempo della partita. A Gaza c'è molta gente che sta soffrendo. E la chiave non sono le elezioni, se si faranno mai, chi le vincerà, chi comanderà. La chiave, quando taceranno le armi, sarà il ruolo dell'Egitto. Perché in quell'angolo di Medio Oriente non s'è mai deciso niente, senza l'Egitto».
Ennio Caretto - " Per Hamas sarà difficile lanciare ancora missili "
WASHINGTON — «Evidentemente l'intelligence israeliana aveva individuato da tempo gli obiettivi da distruggere. L'offensiva di terra a Gaza mi sembra mirata. Non escludo neppure che truppe israeliane si fossero già infiltrate nelle aree prese a bersaglio». Al telefono dalla sua casa di Virginia Beach, il generale a riposo Anthony Zinni, ex capo del Centcom — il Comando centrale Usa del Medio Oriente —, ed ex negoziatore tra Israele e Palestina, dichiara che «se limitata e bene programmata come sembra, strategicamente l'invasione ha un senso». Ma aggiunge che alla fine sarà controproducente: «Indebolirà militarmente Hamas, ma non risolverà i problemi di fondo».
Questa offensiva, quindi, non è un errore?
«Non per la campagna in corso. È chiaro che Israele non sarebbe riuscito a distruggere le rampe di lancio dei missili e i bunker di Hamas né a catturarne i leader soltanto con i bombardamenti. Presumo che l'obiettivo nascosto sia distruggere Hamas come forza politica, ma dubito che venga realizzato».
Israele non rischia un altro fiasco come in Libano nel 2006 contro Hezbollah?
«No, la situazione è molto diversa. Hamas non è forte militarmente come Hezbollah. Gaza poi è più piccola del Libano, e Israele la conosce meglio. Comunque vada, per qualche tempo sarà difficile per Hamas colpire di nuovo. Ma Hamas potrebbe rimanere in piedi».
Non c'è il rischio che Israele faccia troppe vittime civili e si alieni l'opinione pubblica mondiale?
«Il problema umanitario è grave, ma Israele si concentrerà sui bersagli militari. Forse spera che con l'offensiva i palestinesi a Gaza incomincino a guardare ad Hamas come a un pericolo e a spostarsi verso Fatah e Abu Mazen ».
E se Israele restasse impantanato a Gaza?
«Secondo me alla fine proclamerà vittoria e si ritirerà. Dubito che voglia occupare anche soltanto una parte di Gaza. Chiuderà le vie di accesso al proprio territorio e prenderà altre misure preventive».
Nei panni di Israele, lei che cosa avrebbe fatto?
«Temo che Israele non avesse più alternative soprattutto con le elezioni alle porte. Veniva bombardato di missili quotidianamente, e Hamas sapeva che avrebbe reagito. In un certo senso, lo ha provocato».
Lei però ritiene l'invasione controproducente.
«Esattamente. Avrà successo a breve termine, ma a lungo termine alimenterà la spirale della violenza. Le file dei terroristi a Gaza si infoltiranno, i Paesi arabi moderati si troveranno in difficoltà, e in Medio Oriente crescerà l'antisemitismo. La questione palestinese non può essere risolta militarmente».
Vede una via d'uscita?
«Solo se Hamas s'impegnerà a non lanciare più missili contro Israele e aderirà al processo di pace. Su questo devono però intervenire anche i Paesi arabi, l'Occidente non basta. Sarà il compito più urgente di Obama ».
Luigi Offeddu - " Il principe ceco che sfidò a duello Nicolas Sarkozy "
BRUXELLES — Qualche settimana fa il presidente francese Nicolas Sarkozy sembrava snobbare apertamente la presidenza ceca della Unione Europea, ed ecco che lui, il «principe», lo sfidò scherzosamente a duello: all'alba, nel Bois de Boulogne, con la più ampia scelta dell'arma.
Era naturalmente una battuta, ma in fondo ben corrispondeva all'albero genealogico, alle tradizioni familiari, e anche allo spirito scanzonato di Karel Schwarzenberg. Che a 72 anni, con i suoi papillon, i suoi baffoni, e le sue tonanti risate, è molte cose tutte insieme: il ministro degli Esteri ceco, e anche un'«altezza reale» poiché è figlio e nipote di principi dall' antico lignaggio austro-ungarico (e proprio per questo — «troppi legami con l'Austria» — il presidente ceco Vaclav Klaus diffidava un tempo di lui). Poi, è il marito — divorziato, ma in seguito con lei risposato — di una nobildonna; e poi ancora un ricchissimo imprenditore, con tenute appunto in Austria e in Ungheria; e un intellettuale di grande cultura; e soprattutto, per almeno un paio di generazioni di cechi, è un simbolo della resistenza al comunismo.
Schwarzenberg ha vissuto infatti in esilio con la sua famiglia per 41 anni, durante il regime. E caduto quel regime, ha lavorato per qualche anno come cancelliere accanto al suo vecchio amico Vaclav Havel: gli è capitato perfino di essere espulso da Cuba, dove era andato per incontrare certi dissidenti.
Le ultime ragioni della notorietà del «principe» sono essenzialmente due: l'aver sostenuto il trattato sullo scudo anti-missile tanto voluto da George W. Bush, e l'aver appoggiato fino in fondo, anche in contrasto con Sarkozy, le posizioni di Israele durante l'ultima crisi di Gaza.
Luigi Offeddu - " Brown : tregua. Merkel : sicurezza per Israele "
BRUXELLES — Ieri Avi Pazner, portavoce del governo israeliano, ha lodato l'Unione Europea per la sua «comprensione», per aver definito «un'azione più difensiva che offensiva» quella compiuta a Gaza. Ma mentre Pazner parlava dai microfoni di radio Europe 1, la stessa Ue aveva già corretto il tiro, accusando più o meno velatamente Israele di violare le norme internazionali e i diritti umani. Intanto, varie delegazioni partivano o si preparavano a partire per il Medio Oriente, ognuna annunciando la propria versione della pace; e vari primi ministri intimavano ai cannoni di tacere, ciascuno con le proprie motivazioni; e il Papa, dal Vaticano, implorava Hamas e Israele di fermarsi perché «la guerra e l'odio non sono la soluzione dei problemi». Si alzano anche altre voci. La cancelliera tedesca Angela Merkel, dopo aver parlato con il premier israeliano Ehud Olmert, ha chiesto il cessate il fuoco immediato ma «a condizione che la sicurezza di Israele sia garantita ». Condizione ribadita anche dal britannico Gordon Brown. Quanto all'Onu, una volta di più, moltissime parole e un gran vuoto: non si è riusciti a disegnare una risoluzione comune nel Consiglio di sicurezza, per via dei veti incrociati fra il mondo arabo e gli Usa.
In due parole: sono trascorse altre 24 ore di nebbia per le diplomazie di tutti i continenti. Ma sono stati le «auto-smentite» della Ue, più di ogni altra cosa, a dar voce allo sconcerto del mondo davanti al dramma di Gaza. Prima, Karel Schwarzenberg, ministro degli Esteri in quel governo ceco che è presidente di turno dell'Unione, ha definito «un malinteso » e «un grave errore personale » le parole pronunciate dal suo stesso portavoce, quello che aveva parlato appunto di «azione difensiva »: e il portavoce si è scusato. Israele, ha precisato ancora Schwarzenberg, non ha il diritto di condurre operazioni che comportino tante vittime civili: anche se la catastrofe «è stata causata dagli incessanti attacchi di Hamas, che è un'organizzazione terroristica ». Proprio per la gente di Gaza, la Commissione europea ha annunciato uno stanziamento straordinario di 3 milioni di euro. Sono naturalmente aiuti umanitari, per i quali la Ue chiede a Israele l'apertura di un corridoio sicuro, e «il rispetto degli obblighi internazionali ». Ma nel comunicato che dà l'annuncio, c'è qualcosa di più: Israele, per quanto indirettamente, viene indicato come unico responsabile dell'attuale crisi. Nel documento non compare mai la parola «Hamas», né alcun accenno agli attacchi con i razzi contro le città israeliani, mentre si dice che gli aiuti dovranno rispondere alle «necessità vitali della gente colpita dalle incursioni aeree israeliane e dai continui ostacoli frapposti all'accesso nella zona».
Mentre la Ue cerca di far arrivare gli aiuti a Gaza, la sua missione (guidata proprio da Schwarzenberg) è giunta al Cairo e oggi sarà a Gerusalemme. Cercherà di ottenere un cessate il fuoco sorvegliato da osservatori internazionali, che la stessa Ue si dice pronta a inviare quanto prima. Anche Nicolas Sarkozy arriva oggi in Medio Oriente: Hamas, dice, «porta una pesante responsabilità per le sofferenze dei palestinesi di Gaza ». Intanto si continua a sparare.
Roberto Zuccolini - " Chi ha la colpa ? Pd oscilla tra Hamas e Israele "
ROMA — Veltroni sostiene che la linea di Frattini «è particolarmente inadeguata », che bisognerebbe «chiedere subito, con forza, il cessate il fuoco». E il Pd? Gli dà ragione. Ma solo in parte. Perché sull'intervento di Israele a Gaza e, più in generale, su Hamas e la questione palestinese, il partito rappresenta voci e sensibilità diverse.
Per fare un esempio l'ex sottosegretario Gianni Vernetti, già Margherita, vicino a Rutelli, si muove su tutt'altra lunghezza d'onda: «Si tratta di azione difensiva. Perché Israele non è un Paese guerrafondaio: dall'inizio della sua storia non ha mai iniziato un conflitto, ma ha sempre reagito ad attacchi contro l'integrità del suo territorio e contro la sua popolazione. Se ha colpito Gaza è perché Hamas la sottoponeva ormai da tempo a una pioggia quotidiana di missili. Per questo sono convinto che il cessate il fuoco dipenda esclusivamente dalla stessa Hamas: se smetterà gli attacchi e rinuncerà al terrorismo le cose cambieranno un minuto dopo».
Umberto Ranieri, ex diessino e, anche lui, ex sottosegretario agli Esteri, ha una posizione più sfumata, ma giustifica ugualmente la reazione israeliana: «Non bisogna smarrire le responsabilità che sono comunque da attribuire alle scelte di Hamas che ha rotto unilateralmente la tregua e ha trasformato Gaza in una piattaforma di lancio per i missili che colpiscono Israele. Tuttavia sarebbe un errore pensare che la crisi possa risolversi unicamente con la forza militare: una cosa è riconoscere il diritto alla difesa, un'altra è avallare le armi come unica soluzione. Del resto anche nel 2006, per il Libano, lo sbocco alla fine fu quello del negoziato».
Non così si espresse nei giorni scorsi Massimo D'Alema, che da sempre nel Pd viene considerato l'uomo politico più attento alla «necessità» di considerare Hamas un interlocutore «obbligato », nonostante i giudizi negativi («sono estremisti»). Perché, secondo l'ex ministro degli Esteri, se si vuole che il processo di pace riprenda, Hamas deve avere «un certo coinvolgimento» nei negoziati dato che «è stata votata in libere elezioni da metà del popolo palestinese » e non può essere eliminata con le armi «a meno di non voler uccidere decine di migliaia di persone...». Sempre secondo D'Alema, la reazione israeliana può e deve essere definita «sproporzionata». E i dalemiani? Stessa sensibilità, come si nota dalle parole di Nicola Latorre: «Non è il momento di misurare le responsabilità da una parte e dall'altra. Quello che mi preoccupa è che in Israele molti vedano nell'iniziativa militare l'unica via di uscita: questo può essere pericoloso».
Ieri, durante una visita a Ramallah, si è espresso duramente anche Pierluigi Bersani: «L'iniziativa israeliana appare senza proporzione alcuna e con obiettivi ancora non decifrabili. Bisogna assolutamente che la comunità internazionale trovi la chiave per fermare la guerra, che l'Europa faccia meglio la sua parte e che l'Italia si metta nel gruppo di testa europeo e non in quello di coda». Mentre in qualche modo più «centrale» appare la posizione di Piero Fassino: «Come due anni fa in Libano sia l'Unione Europea ad agire subito per ottenere la sospensione immediata del conflitto. Chiediamo al governo italiano di non limitarsi a dichiarazioni formali, ma di assumere tutte le iniziative utili a spegnere l'incendio che sta nuovamente bruciando in Medio Oriente ». Su posizioni sempre mediane, ma più vicine alla linea di Veltroni si collocano in tanti. Non solo il fedelissimo Giorgio Tonini e il portavoce del Pd Andrea Orlando, ma anche alcuni cattolici. Come ad esempio Luigi Bobba: «Ha ragione a dire che il governo italiano deve fare di più, anche perché la posizione di Israele che annuncia di non volersi fermare e allo stesso tempo di non voler occupare Gaza, è decisamente contraddittoria. L'Italia dovrebbe con forza appoggiare la linea dell'Europa che chiede l'immediato cessate il fuoco ». E anche Rosy Bindi è d'accordo: «La posizione italiana è sempre stata quella di "equivicinanza" alle due parti. Nel momento in cui si realizza una sproporzione così evidente ci vuole un'iniziativa forte, altrimenti si dà la sensazione di avallare l'intervento militare e basta. Mi permetto però di precisare che non è Frattini a essere inadeguato perché tutti sanno che la linea la dà solo Silvio Berlusconi».
Paolo Foschi - " Veltroni accusa Frattini : inadeguato. Smentito sull'offensiva di terra "
ROMA — Sono sempre più aspri i toni della polemica fra opposizione e governo sulla guerra a Gaza. Ieri mattina Walter Veltroni ha criticato duramente Franco Frattini. «La posizione del ministro degli Esteri è particolarmente inadeguata» ha scritto il leader del Pd in una nota, chiedendo che «l'Italia si muova per un immediato cessate il fuoco». Più o meno nello stesso momento Frattini, in un comunicato diffuso dalla Farnesina, ha prima ricordato che «il governo italiano ha ancora recentemente riconosciuto con il larghissimo consenso del Parlamento il diritto di Israele all'autodifesa» e poi ha rivolto un «appello accorato agli amici israeliani perché venga fatto tutto il possibile per assicurare la protezione dei civili e l'invio di aiuti umanitari».
Posizioni distanti. E toni tutt'altro che sereni.
Secondo Veltroni, «quello che sta avvenendo in queste ore in Medio Oriente è estremamente grave: c'è il rischio di una pesante radicalizzazione della situazione con conseguenze drammatiche per la stabilità a la sicurezza della regione oltre che per il gran numero di vite umane già travolte o messe a rischio. Siamo di fronte alla conclusione fallimentare della strategia di chi, come l'amministrazione Bush, riteneva che le cose non vadano affrontate con le armi della politica bensì con la politica della forza ». Poi l'attacco al ministro Frattini: «È fondamentale un ruolo attivo sulla scena politica diplomatica degli organismi internazionali e dell'Europa, che però oggi appare divisa e incerta. In questo quadro particolarmente inadeguata è la posizione italiana: Frattini aveva annunciato, solo pochi giorni fa, di aver avuto assicurazioni che non vi sarebbe stata una offensiva di terra e in queste ore viene smentito. Lo stesso ministro degli Esteri aveva parlato di un'iniziativa congiunta italo-francese senza che alle parole seguissero i fatti».
In soccorso di Frattini sono scesi vari esponenti del Pdl: «Polemica sterile è inutile, Israele è aggredito e non aggressore » ha commentato Fabrizio Cicchitto. «Veltroni dimentica improvvisamente le responsabilità di Hamas e si produce in un attacco gaffe contro Frattini, che si sta muovendo in maniera invece ragionevole in linea con l'Europa » ha aggiunto Daniele Capezzone, portavoce di Forza Italia, mentre Denis Verdini, coordinatore nazionale del partito di Berlusconi, ha ironizzato: «Trovo particolarmente inadeguato che in una situazione del genere il leader dell'opposizione non trovi di meglio da fare che prendersela con il governo italiano». Margherita Boniver ha sottolineato che il 31 dicembre «al Senato Frattini ha ribadito la richiesta di cessate il fuoco poi avanzata dal rappresentante italiano all'Onu». A sinistra, invece, per una volta Rifondazione si è schierata con Veltroni: «Frattini? Inadeguato e complice dell'aggressione di Israele».
Paolo Salom - " Fouad Allam : quella piazza preoccupa, c'è il rischio di scontro "
Piazza Duomo a Milano: migliaia di musulmani inginocchiati verso la Mecca, gli striscioni con la Stella di David equiparata alla svastica nazista, roghi di bandiere. Le comunità islamiche in Italia alzano la voce. C'è da preoccuparsi?
«Un rischio esiste — risponde Khaled Fouad Allam, docente di sociologia del mondo musulmano all'Università di Trieste e di islamistica all'Università di Urbino —. Perché l'Italia, ma anche l'Europa nel suo complesso, si trova oggi lungo quella che io chiamo la "linea di frattura". L'eco della guerra in Medio Oriente si amplifica e diffonde nelle comunità arabo-musulmane, man mano che aumenta il loro peso specifico nella società. Il pericolo? È facile scivolare in tematiche che non hanno nulla a che vedere con il conflitto. Il rischio, che vale per tutta l'Europa, si chiama scontro di civiltà».
Cosa intende per «linea di frattura »?
«L'Europa, per vocazione, cerca la pace. L'Unione mediterranea nasce per questo. Ma, nei momenti di crisi, per esempio l'invasione di Gaza, il Vecchio continente si trova su questa linea di frattura che vanifica tutti gli sforzi precedenti ».
Perché le preghiere collettive nelle piazze italiane?
«Perché la religione ha preso il sopravvento anche nel conflitto israelo-palestinese che, venti anni fa, esprimeva invece istanze nazionalistiche. Ecco dunque il prevalere di Hamas che rifiuta di accettare l'esistenza di Israele e alimenta un nuovo antisemitismo che punta a fare dello Stato ebraico un paria tra le nazioni. Le comunità islamiche a Milano come a Parigi sono facilmente influenzabili dagli imperativi della fede.
Nell'immaginario collettivo dell'immigrato c'è, se non lo scontro di civiltà, l'impossibilità di comunicazione tra Islam e Occidente».
Cosa fare per arginare questa deriva?
«La politica, in questo momento, credo possa fare poco. Ci vuole un nuovo "patto educativo". Perché solo l'istruzione, la conoscenza, la memoria condivisa possono formare, per il futuro, cittadini di una società eterogenea, preservandola dalla barbarie».
Paolo Salom - " Dell'Olio (Pax Christi) : preghiera legittima, siamo solidali con loro "
Musulmani in preghiera sul sagrato del Duomo a Milano ma anche davanti alla Basilica di San Petronio a Bologna. Le piazze italiane trasformate in «moschee all'aperto». Le voci degli imam che inneggiano alla «guerra santa in Palestina» e rimbalzano su campanili e chiese. Uno scenario di cui aver timore?
«È molto triste che l'attenzione generale si concentri attorno alla protesta più estrema — risponde padre Tonio Dell'Olio di Pax Christi —. D'altro canto è un fatto che la solidarietà del mondo islamico nostrano per i palestinesi, la parte più debole nel conflitto mediorientale, si esprima anche attraverso estremismi. Che vanno condannati: non si può ricadere nel pregiudizio della condanna di un popolo per le scelte nefande del suo governo. Ma l'attacco israeliano di questi giorni è la maniera peggiore per sperare di risolvere un problema. Dunque capiamo la solidarietà e rigettiamo l'estremismo ».
Le preghiere islamiche in piazza la turbano?
«No. Io credo che nel rispetto reciproco vada considerata come legittima la modalità di espressione di solidarietà che, per i musulmani, passa attraverso la preghiera. Anche noi di Pax Christi, da domani, giorno dell'Epifania, daremo vita a una catena di preghiera per la Palestina. Ognuno parla all'Altissimo nella sua lingua. Ma ci saranno anche momenti di espressione interreligiosi».
Non crede che vedere i sagrati «occupati» da musulmani in preghiera possa al contrario erigere un muro di diffidenza nella società civile?
«Giovanni Paolo II diceva: "Non di muri ha bisogno la Terrasanta, ma di ponti". Noi di Pax Christi da anni portiamo avanti questa speranza, perché anche molte coscienze, qui in Occidente, si muovano nella giusta direzione, che è quella di abbattere gli ostacoli al dialogo. Dobbiamo essere presenti per valorizzare i moderati, chi cerca la pace. E comprendere che non esiste un solo Islam. E nell'insieme dei volti che compongono un corteo ci sono altrettante storie di disperazione ed esilio».
Però nelle piazze italiane si sono bruciate bandiere...
«Sono gruppi minoritari. La maggior parte delle moschee, in Italia, in questi giorni, vedono i propri aderenti raccolti in preghiera. Ma questo non fa notizia».
" Lerner attacca la scelta degli imam : s'inneggia alla guerra di religione "
MILANO — Interviene Gad Lerner contro le manifestazioni islamiche di sabato. Il giornalista, appartenente alla comunità ebraica e attivo nel centrosinistra, attento alla questione mediorientale, prende posizione sul suo blog e attacca gli organizzatori, «parassiti dell'esasperazione e incendiari propalatori di odio etnico».
«La critica a Israele è stata monopolizzata da chi non solo brucia le bandiere con la stella di Davide (un modo di negare il diritto all'esistenza dello Stato ebraico) ma, peggio ancora, inneggia alla guerra di religione».
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