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Corriere della Sera Rassegna Stampa
04.01.2009 Angelo Panebianco senza se e senza ma contro l'Onu di Richard Falk
con cronache e commenti di Battistini,Frattini, Offeddu,Santucci, Salom, Olimpio, Moni Ovadia, Furio Colombo

Testata: Corriere della Sera
Data: 04 gennaio 2009
Pagina: 1
Autore: Panebianco-Battistini-Frattini-Offeddu-Santucci-Olimpio
Titolo: «Onu, Gaza, Unione Europea, Bandiere che bruciano»

Anche oggi, 04/01/2009, prendiamo dal CORRIERE della SERA commenti e cronache. Cominciamo con l'editoriale di Angelo Panebianco, come sempre accurato nel registrare i pregiudizi contro Israele:

Angelo Panebianco - " Gli infortuni dell'Onu "

(nella foto: Richard Falk)

C' è una differenza fra la guerra del Libano del 2006 e l'attuale conflitto a Gaza. Questa volta, sono molti di più i governi disposti a riconoscere le ragioni di Tel Aviv. Per conseguenza, anche l'opinione pubblica internazionale, e occidentale in particolare, non si è compattamente e pregiudizialmente schierata contro Israele. I regimi arabi moderati, che temono più di ogni altra cosa le aspirazioni egemoniche dell'Iran (alleato e protettore di Hamas) mantengono, nonostante l'opposizione delle piazze, un atteggiamento prudente. La fazione palestinese moderata di Abu Mazen (sanguinosamente cacciata da Gaza, nel 2007, dai miliziani di Hamas) considera Hamas l'unica responsabile dell'attacco israeliano. Anche in Europa il vento è in parte cambiato. I governi tedesco, italiano e dei Paesi dell'Europa orientale hanno preso chiare posizioni a favore del diritto di Israele a difendersi dai missili di Hamas. E il Presidente Sarkozy, nonostante la tradizione francese (poco sensibile alle ragioni di Israele), sarà obbligato, nel suo prossimo tentativo di mediazione, a tenerne conto. Comincia a farsi strada la consapevolezza che fra le molte asimmetrie del conflitto c'è anche quella rappresentata dal diverso valore attribuito dai contendenti alla vita umana. Per gli uomini di Hamas, come per Hezbollah in Libano, la vita (anche quella degli appartenenti al proprio popolo) vale talmente poco che essi non hanno alcun problema a usare i civili, compresi i bambini e le donne, come scudi umani. Per gli israeliani, le cose stanno differentemente. Cercano di limitare il più possibile le ingiurie alla popolazione civile anche se, naturalmente, la natura del conflitto esclude che essa non sia coinvolta. L'attacco dell'esercito, appena iniziato, volto a bloccare definitivamente Hamas, è stato a lungo ritardato. Tra le ragioni del ritardo c'era anche il timore per l'alto costo in vite di civili che l'attacco potrebbe comportare.
Insomma, di fronte alla complessità del problema e alla diffusa consapevolezza che non si può negare a uno Stato il diritto di difendersi da un'organizzazione di fanatici votati alla distruzione di quello stesso Stato, c'è questa volta, in giro, meno voglia di dare addosso pregiudizialmente a Israele. Ma con un'eccezione di assoluto rilievo: le Nazioni Unite. Richard Falk, «relatore speciale sulla situazione dei diritti umani nei territori palestinesi», rappresentante dell'Human Rights Council (Consiglio per i diritti umani) delle Nazioni Unite, sta usando la sua carica, e la sponsorizzazione dell'Onu, per fare propaganda pro-Hamas e antisraeliana. Le sue tesi «sull'aggressione israeliana » a Gaza sono esattamente le stesse di Hamas.
Il caso di Richard Falk è interessante perché ci aiuta a capire come vengano trattati i «diritti umani» alle Nazioni Unite. Ebreo americano, già professore di diritto internazionale a Princeton, Falk è quello che in America si definisce un radical. E dei più accesi. Fra le sue molte imprese si possono ricordare il suo giudizio entusiasta sull'Iran di Khomeini (un «modello per i Paesi in via di sviluppo», lo definì arditamente nel 1979) e i suoi dubbi, alla Michael Moore, sulla «verità ufficiale» americana sull'11 settembre. Nel 2007 paragonò la politica israeliana verso i palestinesi a quella della Germania nazista nei confronti degli ebrei. È persona non grata in Israele.La nomina di Falk (con il voto contrario degli Stati Uniti), nel marzo 2008, a rappresentante per i territori palestinesi del Consiglio per i diritti umani, un organismo dominato da Paesi islamici e africani, ebbe un solo scopo: quello di predisporre un corpo contundente da usare contro Israele.
È un altro clamoroso infortunio dell'Onu.
Dopo quello che, alcuni anni fa, portò la Libia, nella generale incredulità, alla presidenza della Commissione per i diritti umani (poi abolita). Se l'Onu si occupasse seriamente di diritti umani dovrebbe mettere sotto accusa un bel po' dei propri Stati membri, ossia tutti gli Stati autoritari o totalitari (dalla Cina a quasi tutti i regimi del mondo musulmano). Ma non può farlo. In compenso, i diritti umani vengono spesso usati come proiettili per colpire le democrazie occidentali e Israele.
Anche se creare una «Lega delle democrazie» è risultato fino ad oggi impossibile, un maggiore coordinamento fra i Paesi democratici in sede di Nazioni Unite sarebbe quanto meno auspicabile. Al fine di imporre a certi suoi organismi comportamenti più decorosi. Nonostante il credito di cui l'Onu continua a godere, è un fatto che, nelle crisi internazionali, sanno spesso muoversi con maggiore credibilità, pur con le loro magagne e imperfezioni, i governi delle democrazie. Per lo meno, devono rispondere del proprio agire alle loro opinioni pubbliche e hanno comunque (non c'è Guantanamo che tenga) carte più in regola degli altri anche in materia di diritti umani.

Francesco Battistini - " Gli israeliani entrano a Gaza "

Completa e accurata la cronaca di Francesco Battistini: ecco il suo articolo:

GERUSALEMME — Aria. Mare. E infine terra. Cala il buio sullo shabbat, si muovono i carri armati. Dopo 8 giorni di raid aerei e di bombardamenti navali, 460 morti e 2.350 feriti, dopo 4 ore di cannoneggiamenti, alle sette e mezza di sera i primi blindati israeliani sfondano a Beit Hanun. È il Piombo Fuso che penetra nella Striscia. Due sms disperati, in arabo: «Attaccano». La conferma da Gerusalemme: «La fase 2 è cominciata», dice un portavoce di Tsahal, e in quell'esatto istante le telecamere di Ramattan tv accendono i riflettori da là dentro, i blogger si scatenano, arrivano le prime immagini di auto incendiate, il rumore dei colpi nella notte. L'addestramento è durato mesi e si vede: gli incursori colpiscono subito un deposito di gas, bombole per cucina, e l'esplosione è forte.
Offensiva I soldati entrano a Gaza ( Ap/Scheiner). Sotto (Salmoirago) preghiera islamica in piazza Duomo a Milano. Nel tondo la bandiera israeliana bruciata
La conferma da Gerusalemme: «La fase due è cominciata », dice un portavoce di Tsahal, e in quell'esatto istante le telecamere di Ramattan tv accendono i riflettori da là dentro, i blogger si scatenano, arrivano le prime immagini di auto incendiate, il rumore dei colpi nella notte. L'addestramento è durato mesi e si vede: gl'incursori colpiscono subito un deposito di gas, bombole per cucina, e l'esplosione è forte. Poi centrano una cisterna di benzina, e le fiamme s'alzano altissime come un monito, a illuminare tutta Gaza. Il terzo target è un ponte: distrutto. Si combatte strada per strada. Gli elicotteri rischiarano dall'alto, lame di luce, e sotto ci sono i cingolati in avanzata. I traccianti s'incrociano. Passa di corsa un gruppo di berretti viola, le brigate Golani e Givati, uomini delle azioni speciali, i primi militari israeliani nella Striscia, dopo tre anni: sono quelli che hanno sempre cambiato le sorti delle guerre, comunque siano andate. Un paio d'ore, e le notizie parlano già di ventotto morti. Gente di Hamas, ma anche civili: la prima vittima dell'offensiva di terra, annuncia Movawiya Hassanein, un medico palestinese, è un bambino centrato da un obice di carrarmato mentre stava al riparo nella sua casa di Zeitun, un quartiere di Gaza City, assieme ad altre undici persone.
La fase due potrebbe anche essere l'ultima. Perché al momento, dicono fonti militari nella notte — mentre a New York l'Onu annunciava una riunione del Consiglio di Sicurezza nelle ore successive e il segretario generale Ban Ki-moon chiedeva «la fine immediata delle operazioni di terra» — la resistenza pare nulla: in tre giorni è stato ucciso il secondo capo militare di Hamas, Abu Zakaria al-Jamal, e gl'israeliani negano l'uccisione di «molti soldati » proclamata dal movimento islamico. «Vogliamo distruggere le infrastrutture terroristiche di Hamas — è la didascalia dei militari —, prendere il controllo delle postazioni di lancio, per ridurre la quantità di razzi puntati contro Israele». Ehud Barak, il ministro della Difesa che aveva già richiamato 9 mila riservisti, informa come di rito il presidente Shimon Peres, si consulta coi ministri suoi predecessori, quindi firma l'allerta immediato per «altre decine di migliaia» di soldati, perché «non voglio prendere in giro nessuno, non sarà un'offensiva breve né facile» e durerà «numerosi giorni». L'esperienza libanese del 2006 ha lasciato il segno, non si vuole sottovalutare il nemico: «Un gran numero di forze prende parte a questa fase — dicono i vertici militari —. La fanteria, i reparti meccanizzati, il genio, l'artiglieria, l'intelligence, col sostegno esterno dell'aviazione e della marina. Daremo un colpo durissimo. Tutte le forze sono state ben addestrate e preparate per una missione di lungo periodo». Il capo dell'operazione si chiama Yoav Galant, generale marinaio che conosce bene l'area perché negli anni Novanta comandava la regione militare di Gaza ed è un veterano di molte guerre, ultima quella agli Hezbollah: «Gli abitanti della Striscia non sono tra gli obiettivi della nostra offensiva — dice un suo portavoce —. Ma coloro che usano i civili, gli anziani, le donne e i bambini come scudi umani sono responsabili per qualsiasi ferita inflitta alla popolazione civile».
Parole che non spiegano del tutto quel che è accaduto coi primi cannoneggiamenti, all'ora della preghiera: la decima moschea colpita in otto giorni, la Ibrahim al-Maqadmé, con sedici morti e sessanta feriti, bambini compresi. Si levano molte voci di protesta, contro la mano pesante di queste operazioni, e perfino i pochi uomini della Croce Rossa non si sentono al sicuro, «non abbiamo nessun posto dove proteggerci». L'ospedale pediatrico di Medici senza frontiere, rimesso in moto a fatica prima di Capodanno, ha potuto funzionare solo due ore: è vuoto, i medici non sanno come raggiungerlo, i pazienti stanno alla larga per paura. Israele dice che corsie e moschee vengono usate per proteggere terroristi e armi. E se la sensazione è che non tutti siano scudi umani, che il sostegno popolare a Hamas possa rivelarsi maggiore del previsto, ecco che il governo avverte: «Verrà considerato terrorista », e quindi arrestato o eliminato, «chiunque nasconda nella propria casa un terrorista o delle armi».
L'attacco è su tre assi. Da nord, dal centro e dal sud. Si spara anche a Nusseirat e a Dahaniya, vicino al valico di Rafah che porta all'Egitto. A quest'altro colpo mortale, i capi del movimento islamico rispondono per ora con parole. Una quindicina di razzi sulle città israeliane, prima dell'invasione. Poi ecco in tv Ismail Radwan, e il comunicato è veloce per paura d'essere nel mirino: «La vostra invasione non sarà una passeggiata nel parco e Gaza diventerà il vostro cimitero. Pagherete a caro prezzo tutto questo, combatteremo fino all'ultima goccia di sangue, non ci arrenderemo mai. Non avete altra scelta che la fine incondizionata dell'aggressione. Non avrete sicurezza, finché non ne avrà il nostro popolo ». Il richiamo èa «centinaia di kamikaze», pronti a colpire, ed è un'eco la minaccia di rapire altri soldati israeliani, pronunciata nel pomeriggio: «Se entrate, Gilad Shalit avrà finalmente nuovi amici». A preoccupare gl'israeliani, però, sono le mosse a nord. Barak mobilita soldati anche alle frontiere col Libano, anche se Nasrallah finora ha dato solo tanta solidarietà, pochi aiuti ai fratelli palestinesi, e anche adesso li invita a «uccid ere il maggior numero possibile di nemici », senza promettere sostegno. Il leader sciita libanese ricorda una strategia che nel 2006 funzionò: «Un'incursione israeliana qua e là, come fecero contro di noi, non risolverà niente. Resistete, fratelli di Hamas. Infliggete perdite. Quando ucciderete i loro soldati, o distruggerete i loro tank, solo allora si faranno i conti della battaglia». L'aiuto per adesso è tutto qui: e un consiglio, in fondo, non si nega a nessuno.

Luigi Offeddu - " I cechi dividono l'Unione europea "

Via la Francia, arrivano i cechi, ecco la cronaca da Bruxelles:

BRUXELLES — I carri armati di Israele a Gaza, Hamas che chiama alla guerra totale, il Medio Oriente ancora una volta nel rogo: e l'Europa che parla con una, due, tre voci diverse, mai così divisa e incerta. Colui che fino a una settimana fa era il presidente di turno dell'Ue, il francese Nicolas Sarkozy, non ha dubbi: l'attacco di Israele è da condannare. Ma coloro che sono oggi i suoi eredi alla guida della stessa presidenza, i cechi del governo di centrodestra guidato dal primo ministro Topolanek, hanno meno dubbi ancora: no, quella di Israele «è un' azione difensiva». Mentre l'organismo che istituzionalmente dovrebbe affiancarli, la Commissione europea, sembra prendere le distanze con un secco «no comment». Per completare il tutto, nelle prossime ore atterreranno in Medio Oriente due aerei con due delegazioni europee inviate per lo stesso scopo, cioè per inventare un qualche spiraglio di mediazione: una, quella ufficiale della Ue, che oggi comincerà il suo viaggio dal Cairo, con l'Alto rappresentante per la politica estera Javier Solana, il commissario europeo alle Relazioni esterne Benita Ferrero- Waldner, il ministro degli Esteri francese Bernard Kouchner e quello ceco Karel Schwarzenberg; l'altra, quella inviata dall'Eliseo e guidata appunto da Sarkozy. Domani — situazione militare permettendo — le due delegazioni saranno entrambe a Gerusalemme, praticamente nello stesso momento, e vedranno entrambe i leader israeliani e palestinesi. Ma anche se da Parigi e da Bruxelles si continua a sottolineare che si tratta di missioni «coordinate», la distanza fra la «linea ceca» che dovrebbe guidare la Ue — appoggio incondizionato a Israele — e quella francese che ha chiesto finora una immediata tregua umanitaria, è fin troppo evidente.
Sarkozy, ieri, ha affidato il suo pensiero a un comunicato ufficiale del suo ministero degli Esteri: «La Francia condanna l'offensiva terrestre israeliana contro Gaza come condanna il perdurare dei lanci di razzi. Questa escalation militare pericolosa complica gli sforzi avviati dalla comunità internazionale, in particolare dall'Ue e dalla Francia, dai membri del Quartetto e dagli Stati della regione per fare cessare i combattimenti, portare immediatamente aiuto ai civili e giungere a un cessate il fuoco permanente, come chiesto dai 27 ministri dell'Unione Europea il 30 dicembre». Anche David Miliband, ministro degli Esteri britannico, chiede un cessate il fuoco immediato perché un'escalation «causerà paura e allarme». Ben diversi, come si è accennato, tono e parole di Jiri Potuzniku, portavoce della presidenza ceca della Ue: «Al momento, dalla valutazione di questi ultimi giorni noi percepiamo questa mossa di Israele come difensiva, e non come un'azione offensiva ». Solo due giorni fa, un commento della stessa presidenza ceca sulla «guerra del gas» fra Russia e Ucraina aveva ottenuto l'immediato ed esplicito appoggio della Commissione europea. Ma questa volta, non sembra essere così.
Interpellato dal Corriere sulle parole di Potuzniku, il portavoce della Commissione Joe Hennon si limita a dire che «al momento non commentiamo queste dichiarazioni». Aggiunge poi che domani (oggi per chi legge ndr), sarà al Cairo Benita Ferrero-Waldner con gli altri inviati della Ue, e dunque sarà possibile avere qualche reazione in più. A tarda sera, il ministro ceco Schwarzenberg corregge il tiro: «Perfino l'indiscutibile diritto di uno Stato a difendersi non autorizza azioni che colpiscono largamente dei civili. Chiediamo un cessate il fuoco ». Ma intanto, l'Europa cerca ancora una parola concorde sul dramma che si svolge alle sue porte.

Francesco Battistini - " I dubbi degli intellettuali, sì al governo, con qualche ma "

Francesco Battistini racconta le reazioni degli intellettuali israeliani. Che differenza con Moni Ovadia & Co.

GERUSALEMME — «Quella notte ho sognato che ero una donna di quarant'anni ed ero disgustata da me stessa, dalla mia vita. Dal fatto di non avere la patente, di non sapere l'inglese, di non essere mai all'estero. Il sangue mi era gocciolato sopra, dappertutto, stava cominciando a seccare, e io l'avvertivo come una specie di maledizione. Come se questo momento non finisse mai» (Etgar Keret, Gaza Blues).
Non è ancora un incubo, non è più soltanto una necessità. In un Paese che nei sondaggi sostiene all'80 per cento l'attacco, la voce delle coscienze critiche è una vocina, per ora. Gli scrittori israeliani parlano sommessi. Un po' imbarazzati. E prima che un problema di coscienza, Gaza è innanzi tutto un problema lessicale: come chiamare una guerra che il governo israeliano non desidera si chiami così? Meir Shalev, che nei suoi libri spiega ai bambini le sciocchezze dei grandi, i dubbi se li leva subito: «Loro preferiscono "operazione militare"? Io allora preferisco "azione punitiva". Il giorno prima che i nostri jet cominciassero a bombardare, scrissi che non avrei mai sostenuto un attacco tanto massiccio. Pensavo ad azioni rapide e, insieme, un negoziato. Quando Barak ci ha informato che l'operazione sarebbe durata a lungo, ho pensato che il Libano non ci aveva insegnato nulla ».
Dicono e non dicono. I tre moschettieri della letteratura, con sfumature diverse, non hanno urlato l'indignazione. Amos Oz e A. B. Yehoshua, si sapeva: Gaza merita meglio d'un Hamas, dice il primo; Hamas è l'Iran, spiega l'altro. Ma poiché la guerra che non è una guerra spiazza certezze pacifiste, dubita perfino David Grossman, che in Libano ha perso un figlio: appena spera che ci si «fermi unilateralmente per 48 ore», appena si chiede se questo «è possibile, o siamo troppo imprigionati in questa familiare retorica della guerra?», le breaknews
sui raid o sui Kassam lo costringono a mirare meglio, perché «se voi non risparmiate i vostri razzi, noi non interromperemo la nostra offensiva» e «se continuerete a sparare, noi risponderemo alla scadenza delle 48 ore», naturalmente «lasciando sempre una porta aperta a un negoziato». Grossman ne fa un problema di futuro, casomai: «Fino a una settimana fa, Israele ha mostrato una certa freddezza sotto Barak. Ora, non la perda nel calore della battaglia. Non dobbiamo mai dimenticare che prima o poi dovremo diventare buoni vicini, con la gente di Gaza».
Vedere quei morti, però. E i bambini. Dice una preghiera ebraica: «Cieli, chiedete misericordia per me». Tom Segev la usa per un'idea di pietà: «L'altra sera, su Canale 1 si vedevano reporter da Askelon e da Sderot, ma le immagini erano da Gaza. Senza volerlo, davano il messaggio giusto: un bambino di Sderot vale quanto un bambino di Gaza. E chiunque colpisca l'uno o l'altro, è un bastardo».
Parla così anche Yair Lapid, figlio di Tommy: «Gli uomini di fede, s'ipotizza che siano meglio della maggioranza di noi. C'è qualcosa d'inconcepibilmente brutto nel fatto che non abbiamo un leader religioso che prenda posizione su questo dolore degli altri. Anche se Gaza non l'abbiamo distrutta noi. L'ha distrutta Hamas con la sua stupidità, cecità, violenza. Mettendo Dio in prima linea. I bambini morti sono bambini morti. E anche gli ebrei sono scioccati». Qualcuno, la guerra la vive sulla pelle: Shimon Adaf e Benny Barbash sono di Sderot e di Beer Sheva, le città colpite dai razzi, e confessano «l'impossibilità del distacco emotivo». Orly Castel- Bloom rimanda alle sue parole di Dolly City, alla pazzia che «s'appropria delle nostre anime con la stessa velocità con cui l'esercito conquistò Gaza nel '67», risolvendo con un interrogativo i conflitti interiori: «Se Israele non riesce a dominare gli arabi nei territori, perché io, individuo, dovrei riuscire a dominare gli occupied territories interiori? ».
Racconta Eli Amir, israeliano nato a Bagdad, che mercoledì sera stava al Cairo a presentare
Yasmin, il suo ultimo romanzo: «C'erano cento persone e decine di poliziotti. Paura e imbarazzo. Allora ho detto che la contaminazione della cultura araba in quella israeliana è cominciata il giorno dopo Camp David e la pace con l'Egitto: non abbiate paura di mischiarvi al nostro mondo. Se impariamo a vivere in pace, a non spararci più, finalmente potremmo leggerci gli uni gli altri. E imparare, se non ad amarci, almeno a conoscerci. Mi hanno applaudito ».

Davide Frattini - " Tutti se ne vanno, io non ho paura "

Davide Frattini intervista la coraggiosa giornalista di Haaretz, che - differenza della collega Amira Haas - ha scelto di andare a vivere un anno fa a Sderot.

SDEROT — I jet israeliani disegnano un otto sopra il cielo di Gaza. Gli ospiti alzano gli occhi per guardare il calendario della guerra, non c'è bisogno di contare, tutti sanno da quanti giorni dura. In questa casa del kibbutz Migvan, un villaggio urbano nel mezzo di Sderot, si ritrovano ogni sabato i pezzi della sinistra israeliana e qualche estraneo ideologico, come il parlamentare del Likud, Michael Eitan. La maggior parte ha deciso di vivere nella città sotto il tiro dei Qassam, altri vengono in visita al fronte.
Avirama Golan ha lasciato il caos caldo del quartiere Shenkin a Tel Aviv per una villetta con due camere da letto: una è senza finestre, fa da rifugio, quando la voce registrata di donna avverte «codice rosso, codice rosso». «E' un po' pazzia, un po' voglia di credere che l'impegno e la frontiera esistano ancora», spiega mentre il compagno Shmulik Shem Tov sorride e serve i caffé. Lui è tra i fondatori di Peace Now, il padre è stato un ministro di Mapam, il partito marxista-sionista, considerato il progenitore di Meretz. Ha rinunciato al lavoro di produttore televisivo per seguire un progetto che vuole portare internet nei bunker dove si nascondono i bambini di Sderot.
I vicini hanno quasi tutti lasciato la città, i cani abbandonati sono stati adottati da Avirama. «Non ho paura. Ho vissuto la mia prima guerra, quella del 1956, quando avevo sei anni. Gaza è così vicina, lo sento nelle ossa, non posso smettere di pensare ai bambini là dentro ». Come non può smettere di pensare alla bambina della porta accanto, che non può giocare in giardino per paura dei razzi. «Sarebbe facile per me dire che sono contro questa guerra. E so che le armi non risolveranno nulla. Ma uno Stato sovrano non può accettare che la vita dei suoi cittadini venga dettata dal nemico ». Fatica ad accettare l'accusa di uso sproporzionato delle forza. «Anche David Grossman ha spiegato che non avevamo altra scelta, se non quella di attaccare dal cielo. Sarebbe stato più morale mandare i nostri soldati a fare lo stesso lavoro casa per casa?».
Attorno al tavolo, qualcuno non è d'accordo. Naomi Zion guida il gruppo «Un'altra voce », per mesi ha organizzato telefonate di gruppo con gli abitanti di Gaza. «L'unico momento in cui mi sono sentita protetta dal governo è stato durante il cessate il fuoco. La strada è quella dei negoziati». Risponde Avirama: «Io tratterei anche con il diavolo, è Hamas a non voler parlare con noi».
Amos Oz ha scritto «il partito laburista ha concluso il suo ruolo storico». Una frase che non è piaciuta ai suoi alleati di Meretz, che pure vorrebbero sottrarre voti a Ehud Barak. «Io certo non mi riconosco in Barak. In questo momento non ho un partito — dice la scrittrice —. Ho sostenuto Amir Peretz e le riforme sociali che aveva promesso». Ammette: «La sinistra è diventata debole. Una volta, intellettuali come Amos erano in grado di influenzare le scelte del governo. Adesso l'ideologia della destra è diventata dominante e noi siamo rimasti schiacciati tra l'estremismo di Hamas e quello dei coloni. Israele ha perso il vantaggio morale, quando è diventato un Paese occupante ».
Venerdì sera la mensa comune del kibbutz era vuota. Chi ha potuto non è rimasto a veder crescere il grande numero nero all'ingresso della città, tiene il conto dei Qassam caduti. «Mio padre è arrivato in Palestina nel 1925. La sua idea era di creare una società più giusta. E' anche per questo che sono venuta a Sderot. Sta alla periferia del Paese, povera gente, dimenticata da tanti governi. Ci si arriva in un'ora d'auto, eppure sembra così lontana da Tel Aviv».
La scrittrice Avirama Golan con il compagno
Davide Frattini

Gianni Santucci - " Islamici in piazza, bruciate bandiere israeliane "

Tra benedizioni e condanne, l'Italia islamica che condanna Israele ha fatto sentire la sua voce. Quella musulmana moderata non si è vista. Se ha paura, perchè non lo dice ? Invece sceglie il silenzio. Molto grave.

MILANO — Saltellano, sorridono e scandiscono: «Bush, Barak, assassini». Tre bambini con la kefiah al collo, due ragazzine col velo sui capelli, hanno tra i 7 e i 12 anni, si tengono per mano. E ripetono lo slogan che per tutto il pomeriggio ha attraversato il centro di Milano. Una madre li riprende in video con un telefonino. Intorno, in piazza del Duomo, 10 mila persone. Arabi dal Marocco alla Palestina, alla Giordania: riuniti per la più massiccia manifestazione della storia della comunità islamica in Italia. Contro «i bombardamenti su Gaza».
Echi di «Piombo fuso». Mentre Israele avviava l'offensiva di terra, i palestinesi d'Italia hanno portato nelle strade le foto dei bambini negli ospedali della Striscia. L'hanno fatto a Roma, Torino, Brescia, Vicenza. E però si sono anche lasciati dietro, nel centro di Milano e a Bologna, i brandelli di quattro bandiere bruciate: tre israeliane, una americana.
Quando le fiamme sono ancora vive sull'asfalto di Milano, inconsapevole delle polemiche che attizzerà col suo accendino, l'egiziano Khalid Omar, 22 anni, operaio e «semplice cittadino» spiega tranquillo: «Brucio la bandiera di Israele perché è il simbolo di coloro che fanno del male, di chi ammazza senza giusta causa». Intorno, però, altri simboli creano un agghiacciante cortocircuito storico: alla stella di David si affianca la svastica. È un copione che si ripete. E che scatena la polemica politica.
«Vergogna», attacca il portavoce del Pdl Daniele Capezzone. «Bruciare le bandiere di Israele è un atto di fanatismo che va condannato », sostiene il vicepresidente della Camera, Maurizio Lupi (Pdl). Ancor più duro il vice sindaco di Milano, Riccardo De Corato: «Per ore il centro, affollato per l'avvio dei saldi, è stato sequestrato da un migliaio di manifestanti pro Palestina. Gravi atti contro lo Stato di Israele. Piazza Duomo è stata trasformata in una moschea». Risponde Marco Rizzo (Comunisti italiani): «Quando i nazisti uccidevano le persone con un rapporto di uno a dieci le chiamavano rappresaglie, oggi che il governo di Israele uccide con un rapporto di uno a cento tutti tacciono, sinistra compresa ». L'imam della moschea di Segrate, Abu Shweima, liquida le fiamme parlando di «qualcuno che non ragiona». Ma aggiunge che la manifestazione è stata «serena, assolutamente civile e con una grandissima partecipazione».
E infatti, a Milano, nessuna tensione, anche quando il corteo ha proseguito lungo un percorso che non era previsto. Nessun graffito. Nessun vandalismo (alcune uova lanciate contro l'associazione Italia-Israele a Torino). C'era Rifondazione comuni-sta, che ha assicurato un supporto tecnico di camionetta e amplificatori, ma non si sono visti i centri sociali. Molte donne spingevano carrozzine e culle. Padri con bambine per mano: infanzia arabo-milanese in strada e fotografie dell'infanzia di Gaza in ospedale. Scarpe — come quella lanciata contro George Bush in Iraq — innalzate come vessilli su lunghi bastoni. Centinaia di bandiere palestinesi. Qualche stendardo di Hamas, striscioni su Israele «stato terrorista». Un paio di assi di legno facevano da feretro a pupazzi-cadaveri avvolti in lenzuola bianche.
Alle cinque e mezza sulla piazza del Duomo è sceso però il silenzio. L'imam ha impugnato il megafono e gli uomini hanno steso le giacche sul selciato. Si sono inginocchiati. E anche questa è un'immagine simbolica, centinaia di persone inchinate ad Allah a due passi dal sagrato della cattedrale di Milano. La direttrice della preghiera era appena un po' spostata rispetto all'ingresso. La Mecca, vista dal centro di Milano, è oltre il Palazzo Reale.

Paolo Salom - " Uno sfogo controproducente, ma è giusto stare con i palestinesi  "

Non c'è solo il Signor Falk fra gli ebrei che piacciono ai nemici di Israele. In Italia abbiamo Moni Ovadia, che non perde occasione per farci sapere come la pensa. E dire che in tutti festival di cultura ebraica è sempre presente...

Moni Ovadia, le bandiere israeliane imbrattate con la svastica e bruciate nelle piazze italiane...
«La mia solidarietà con i palestinesi è nota. Ma condanno questi gesti: sono sempre controproducenti, inutili, uno sfogo insensato e l'espressione di una visione piatta. In piazza nessuno fa cenno ai missili che cadono su Israele, rudimentali e obsoleti, certo, ma in grado di ferire, uccidere. Ciò detto...
».
Prego...
«Prendersela con chi brucia le bandiere non deve impedirci di ragionare sul perché si è giunti a questo punto. E il punto è che Gaza, dopo il ritiro unilaterale israeliano, si è trasformata in una prigione a cielo aperto, un luogo terribile, inumano in cui si ammassa un milione e mezzo di palestinesi, disperati, umiliati, assediati». Uomo di spettacolo, ebreo bulgaro trapiantato in Italia, Moni Ovadia ha fatto rinascere, in teatro, la cultura yiddish, un tempo parte integrante dell'Europa dell'Est. Ovadia non ha mai nascosto la sua simpatia nei confronti del popolo palestinese: «Una scelta ovvia: sono loro i disperati, i deboli, i battuti».
Ma a Milano, Roma e molte altre città, non solo italiane, gli slogan urlati da chi manifestava solidarietà alla gente di Gaza hanno fatto pensare a ben altro...
«È possibile che ci sia una latenza antisemita, giudeofoba, mascherata da antisionismo. Non lo nego. Ma la reazione di chi si schiera con i palestinesi non si può spiegare solo con questo. Da una parte abbiamo uno Stato forte, armato fino ai denti, prospero, e dall'altra un popolo senza terra, senza speranze, senza futuro. È ovvio stare dalla sua parte».
Ma la tregua è stata rotta dai miliziani di Hamas. Israele dice di voler difendere i suoi cittadini.
«Ragioni e torti si possono suddividere tra le parti. La situazione attuale è il frutto di anni di errori. Anche di Hamas, certo. Ma ora ci vuole uno sforzo, un colpo di reni, molto coraggio. Perché i palestinesi hanno diritto ad avere uno Stato».
Motivi
«Bisogna ragionare sul perché si è giunti fino a questo punto»


Paolo Salom - " Dare alle fiamme un simbolo è solo un atto da delinquenti "

Ottime le affermazioni di Furio Colombo, ma ci chiediamo perchè non le esterna anche ai suoi amici dell'Unità e del Partito Democratico, ambiguo e silente come sempre. Troppo comod fare bella figura sul Corriere e poi scrivere su un giornale come l'Unità.

Furio Colombo, bruciare le bandiere di Israele nelle piazze italiane è antisemitismo?
«Voglio essere chiaro. Non dico che qualunque critica al governo israeliano sia frutto di una visione antisemita. Ed è giusto e normale provare orrore di fronte alla guerra e alle sue vittime. Soprattutto quando sono civili, donne e bambini. Tuttavia quello che è successo nelle città del nostro Paese non può essere archiviato come semplice espressione di protesta ».
Furio Colombo, deputato del Pd, ex direttore dell'Unità, autore di svariati saggi sulla storia di Israele, è convinto che «chiunque abbia bruciato quelle bandiere ha compiuto un atto delinquenziale, privo di senso, totalmente inutile per la pace».
Perché Israele suscita queste espressioni di odio?
«Purtroppo vedo due ragioni. Una reminiscenza della Guerra fredda, per cui il nemico è sempre e solo uno (in più un alleato degli americani, e infatti anche le bandiere Usa sono state bruciate). E, poi, perché gli israeliani sono ebrei. Mi chiedo: Hamas per prima, e unilateralmente, ha interrotto la tregua e creato una situazione tragica. Ma come mai solo gli israeliani sono denunciati come colpevoli e, per di più, con il riferimento (la svastica sulle bandiere di Israele, ndr) agli aguzzini nazisti che hanno tentato di sterminare gli ebrei? Cos'è, un'inconscia nostalgia per uno sterminio non riuscito? Che altro senso può avere?».
Israele è visto come una Potenza che schiaccia un popolo inerme...
«Se così fosse, perché i governi arabi moderati tacciono? Non è colpa di Israele se Hamas ha rotto con il Fatah, spingendo il proprio popolo verso la tragedia. E comunque, pensiamo alle tante crisi mondiali, dal Darfur al Ruanda, le stragi di monaci in Birmania e Tibet: perché nessun pacifista è mai sceso in piazza per bruciare le bandiere del Sudan o della Repubblica popolare, della Birmania? La mobilitazione è sempre e solo a senso unico. E questo dimostra che le motivazioni non sono solo umanitarie».

Chiudiamo con l'analisi militare di Guido Olimpio:

Guido Olimpio - " Obiettivo: tagliare la striscia in tre "

Con l'offensiva su tre direttrici, Israele vuole «accecare» e immobilizzare il nemico. L'azione a nord è tesa a neutralizzare quelle aree di Gaza dalle quali Hamas ha sparato i razzi verso gli obiettivi più lontani, come Ashdod e Ashkelon. Ciò non impedirà ai militanti di lanciare i razzi, ma forse ne ridurrà il raggio d'azione. L'attacco al centro spezza la Striscia in due e impedisce i movimenti sull'asse nord-sud. L'incursione a sud prova a neutralizzare l'unica via di rifornimento palestinese: la rete di tunnel costruiti sotto il confine tra Gaza e l'Egitto.
Non potendo contare sull'effetto sorpresa — mai offensiva è stata annunciata come in questo caso — gli israeliani si sono mossi con l'oscurità e hanno tagliato quel poco di luce che era rimasta nella Striscia. Il suo esercito ad alta tecnologia può così usare il meglio dell'arsenale. I fanti dispongono di visori notturni che favoriscono gli spostamenti e permettono di attaccare un nemico che spesso li scorge solo all'ultimo istante. Stessa cosa per i blindati. È vero che Hamas era pronta per la spallata e addirittura, secondo alcuni suoi capi, la desiderava, ma non è facile per un guerrigliero restare trincerato dentro una buca o all'interno di un bunker mentre piovono bombe e avanzano i corazzati. I collegamenti con gli altri compagni sono precari, le informazioni scarse, l'unica cosa che sai è che «devi resistere» fino all'ultimo uomo. Con anni e anni di operazioni gli israeliani hanno affinato le loro tecniche. Passano di casa in casa bucando le pareti con picconi o speciali attrezzature provate a Jenin. E quando non basta ricorrono ai bulldozer.
Per stanare il nemico alternano il cannone al «cane da guerra», capace di fiutare una trappola esplosiva ma anche di neutralizzare il militante. Di nuovo, tecnologia e fattore umano. Solo nelle prossime ore capiremo quanto sia riuscita la seconda fase di «Piombo fuso».
Le armi
Per stanare il nemico i soldati alternano il cannone al «cane da guerra»

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