Obama-McCain, le diverse prospettive L'analisi di Danielle Sussmann
Testata: Informazione Corretta Data: 02 novembre 2008 Pagina: 1 Autore: Danielle Sussmann Titolo: «Obama-McCain, le diverse prospettive»
Mancano poche ore dalle lezioni americane. Danielle Sussmann analizza le diverse prospettive.
Una ventata fresca di razionalità e di indipendenza intellettuale ha rischiarato il grigiore fumoso delle analisi su queste elezioni presidenziali italo-americane, ancor prima di essere solo americane. L’articolo di Fiamma Nirenstein sul “meticciato” ancor prima di essere (in parte) una replica alle tesi sostenute da Gad Lerner, uno dei tanti araldi del fideistico ed elettivo allineamento - nonché autoreferenziale - della sinistra italiana ad Obama, è il più onesto contributo ad un’analisi seria sulla realtà americana. Ci si chiede come sia possibile ignorare Colin Powell e Condoleeza Rice dal contesto americano pur di prepararsi l’alibi nell’eventuale sconfitta di Obama, fino a temere un effetto Bradley, candidato alla carica di governatore della California nel 1982. Favorito nei sondaggi, perse per il colore della pelle secondo Severgnini, anche se oggi aggiunge (pare) tra parentesi. Certo, sia Powell che la Rice non sono stati votati ma ciò non toglie che siano assurti a cariche di rilevante importanza. Il Dipartimento di Stato di cui sono stati Segretari, e la Rice lo è tutt’ora, è stato spesso conflittuale con il Presidente degli Stati Uniti. L’abbiamo notato soprattutto nel ping pong della politica americana su Israele fino al 2002. Qualche giorno fa, il Corriere della Sera anticipava nella sua versione internet le analisi su Obama e McCain che sarebbero apparse sul cartaceo Magazine del quotidiano. Un insolitamente scorretto Massimo Gaggi esprimeva un’analisi d’opinione sulla campagna di MacCain (per lo più sfavorevole) che faceva a pugni con il corretto e concreto risalto al programma in vari punti della campagna di Obama, offerto da Paolo Valentino. Un banale sistema comunicativo atto a demolire il candidato non voluto, anziché offrire una corretta ed equa visione su entrambi i candidati. Questo è il sistema tipico della comunicazione partigiana delle politiche di sinistra: tacere ogni riferimento contrario all’elaborazione della propria quadratura del cerchio; scompensare un’analisi a favore dei propri beniamini. Agli sgoccioli della campagna presidenziale, la cautela fa dire che bisogna comunque stare attenti ai sondaggi perché non sempre sono precisi al 100%. Si scomoda l’obsoleto esempio di Bradley, si tentano alibi per riaffermare la propria credibilità di giornalista affermato per non ripetere, ad esempio, la cantonata clamorosa su Kerry, anch’esso privilegiato dai sondaggi, nelle elezioni del 2004. Quello che in Italia, soprattutto manca, è la corretta valutazione di quel quadro d’insieme mediatico che compone la società di ogni Paese. Nel prendere a riferimento solo una stampa schierata sulle proprie posizioni, ignorando l’opposta – e succede con gli Stati Uniti come con Israele – pretendendo di “influenzare” (un gioco preso molto sul serio in Italia) la politica di quelle Nazioni, la cantonata clamorosa è sempre dietro l’angolo. Nel corretto articolo di Valentino, vengono ricordati anche due dei tanti ripensamenti di Obama, per cui la sua politica viene tacciata di essere “flip-flopping” (tira e molla). Rudolph Giuliani disse che se fosse stato al posto di Biden, appena nominato vicepresidente da Obama, si sarebbe fatto notificare nero su bianco l’incarico. Mentre la Palin è stata subito schedata in Italia come pittbull – le sue sostenitrici si sono chiamate “Hockey Mom” e non pittbull, e lo slogan corretto è: “sapete qual’è la differenza tra una Hockey Mom e un pittbull? La Hockey Mom ha il rossetto” – abbiamo mai letto di un “flip flop” Obama? Nemmeno i quotidiani del centro-destra hanno colto questa opportunità. Consola che secondo le proiezioni israeliane, McCain sia votato dal 74% dell’elettorato di cittadinanza americana. Un primo sondaggio, quasi unanime per McCain, si era avuto qualche tempo fa in Israele sugli evangelici americani (circa un migliaio) residenti nello Stato, mentre era del 40% (su 70 milioni) favorevole a McCain da parte degli americani evangelici negli Stati Uniti. Chi vive in Israele, si rende conto di quanto sia ben più concreta e lucida la politica repubblicana rispetto a quella democratica. Vi è tuttavia un elemento importante, essenziale, che deve essere preso in considerazione. Si avverte nei commenti agli articoli dei quotidiani israeliani sui candidati presidenziali. La crisi economica americana è percepita dolentemente dagli americani che intervengono e che la ricordano come fattore decisivo per la vittoria del candidato. Non c’è dubbio che il sostegno dei Paesi sponsor del terrorismo ed antiamericani ad Obama, giochi in modo favorevole alla campagna di quest’ultimo. Obama è visto dalla mid-class come il suo unico traghettatore per uscire dalla crisi economica proprio per i sostegni che riceve da questi Paesi e dalle organizzazioni terroriste. In teoria, nulla da eccepire. Le frontiere libere, i patteggiamenti, servono almeno al breve periodo anche se poi innescano i conflitti, alzando il livello di capacità del terrorismo che in tal modo si può ancor meglio organizzare. Il fatto è che questa mid-class, di politica estera (ma anche di geografia) non sa né vuole sapere nulla. Se Obama vincesse non potrebbe venir meno agli impegni assunti dai governi americani precedenti e non può ignorare i rischi di ritiri azzardati dalle zone di guerra. Le promesse elettorali di questi ultimi giorni, già contengono una serie di passi indietro, tipici della politica “flip-flopping” di Obama. Dà da riflettere la sua offerta di ieri per un governo bipartisan. Forse per la spinta ricevuta dal Repubblicano Powell e dai delusi clintoniani (Hillary più a destra e sostenitrice di Israele) grazie all’apporto di Bill. Poi c’è un’insinuante campagna ebraica democratica e della sinistra italiana, che punta sui egami parentali di Obama con un rabbino fino ad arrivare all’etimologia semita del nome arabo, ricordando l’ovvietà che deriva dall’ebraico Baruch. Volutamente non contrapponendo l’arabo Daoud all’ebraico David, con tanti Daoud (ma anche Barack) che hanno ucciso ed ucciderebbero israeliani ed ebrei. Perché l’elettorato – che a dire dei media italiani – sarebbe disgustato dalla politica di Bush, dovrebbe accettare anche i repubblicani nel governo di Obama? Da un lato, l’offerta sembrerebbe dimostrare un segnale di timore opposto ai favorevoli sondaggi pro Obama; dall’altro, costargli del tutto la presidenza. C’è chi ha detto che se vincesse Obama, Israele attaccherebbe l’Iran l’indomani. Ovvio che si tratti di una freccia spuntata, ma d’effetto. Benché, alcuni segnali americani, ma non israeliani, portino un vento di decisionismo verso il conflitto. Abbiamo visto un serio attacco americano in Siria per eliminare il capo della cellula di al-Qaeda responsabile del reclutamento di gruppi armati stranieri da far entrare in Iraq per combattere gli americani, e responsabile del contrabbando d’armi e denaro ai gruppi che sostengono al-Qaeda e l’Iran. Lo stesso attacco – il primo di tale imponenza – è stato un forte avvertimento alla Siria. Forse, è per questo, che Obama ha fatto la proposta bipartisan? A noi sfugge cosa significhi realmente l’attacco americano in Siria a pochi giorni dal voto, ma proprio per via di questa scadenza, in molti abbiamo fatto una valutazione che va nel senso di un decisionismo per azioni tese a provocare una minaccia tangibile, finalizzata al conflitto, nella regione mediorientale in caso di vittoria di Obama. Non che il terrorismo – a cui troppi scordano gli Stati Uniti hanno dichiarato guerra – non giustifichi l’applicazione di azioni che pur rischiano la destabilizzazione ulteriore dell’area (anche se la Siria non è in grado di replicare in modo convenzionale), ma non sarebbe certo un regalo per un presidente “flip-flop”.