Viaggio a Gerusalemme sulla linea 18 che è stata la più bersagliata dal terrorismo suicida palestinese
Testata: Autore: Umberto De Giovannageli Titolo: «Israele, sul bus della morte»
L'UNITA' del 1 ottobre 2008 pubblica un articolo di Umberto De Giovannangeli, che rievoca gli anni delle campagne di terrorismo suicida palestinese. U.d.g. riporta le dichiarazioni di membri di Parents Circle, associazione che riunisce genitori israeliani e palestinesi di vittime del conflitto. Organizzazione caratterizzata, ci sembra, da un'assimettria: gli israeliani condannano, come presunta causa del perdurante stato di guerra, l'"occupazione", mentre i palestinesi tacciono sull'incitamento all'odio e alla violenza terrorista che pervade la loro società. E' una disparità comprensibile: Israele è un paese libero, nel quale tutte le opinioni possono esprimersi. La società palestinese è violenta e intollerante anche al suo interno, e in essa il dissenso è molto pericoloso. Disparità comprensibile, dunque, ma della quale occorrerebbe tener conto.
Ecco il testo:
VIAGGIO nel cuore della Gerusalemme ebraica. Negli anni sanguinosi della seconda Intifada la linea 18 era quella preferita dai kamikaze. Oggi gli sguardi dei passeggeri tradiscono ancora l’angoscia di chi teme per la propria vita. C’è paura. Ma questo è anche un Paese che non si arrende e vuole ancora il dialogo
Si sono sposati giusto dopo una terza guerra e hanno avuto un figlio prima o dopo la guerra successiva», sintetizza con efficacia Nahum Barnea, prima firma di Yediot Ahronot, il più diffuso quotidiano d’Israele. È così. Ma nonostante questa amara verità, Israele resta una fortezza ma non è mai stata una guarnigione. È una società militarizzata ma mai pervasa da una cultura, da una ideologia militarista. Un anno fa, in occasione del Capodanno ebraico, il quotidiano Ma’ariv aveva chiesto ai suoi lettori di cosa fossero più orgogliosi come israeliani: le conquiste scientifiche e tecnologiche venivano prima delle forze armate. Un popolo in trincea che non smette di sperare di poter vivere, un giorno non lontano, una vita normale in un Paese normale. Non sarà facile. Perché non è facile liberarsi dal peso di una memoria collettiva segnata da lutti, guerre, terrore. E da una ferita che resta aperta: quella della Shoah. Una memoria che spiega molto delle paure e i pregiudizi, le passioni, le sofferenze e l’orgoglio che continuano a far girare la vita pubblica. Con me, sul «bus della morte», ho una copia, ingiallita dal tempo, dell’ultima pagina del 2 aprile 2002 di Haaretz, il giornale progressista israeliano. Una pagina dedicata ai morti, nella quale sono riportati i loro nomi in bianco su sfondo nero, fitti fitti, perché ci stessero tutti nella pagina. E a piè di pagina c’è scritto: morti dal 27 settembre 2000 fino a ieri, primo aprile 2002. Tutti morti per strada, al ristorante, al bar, andando a scuola, facendo la spesa. Dilaniati dalle bombe umane, dai kamikaze palestinesi. Molti di loro, donne, giovani, anziani, viaggiavano su un bus della linea 18. Ricorda Manuela Dviri, scrittrice coraggiosa, che ha saputo trasformare un dolore indicibile - la morte in combattimento in Libano del figlio Jonathan - in energia positiva, spesa nel dialogo con altre donne, israeliane e palestinesi, segnate dallo stesso dolore: «424 nomi, nessuno può ricordare 424 nomi, 424 facce di donne, uomini, bambini apparse per un attimo alla televisione o sulle pagine dei giornali e poi ripiombate nell’anonimato e dimenticate per sempre. 424 storie, una diversa dall’altra, e ognuna - osserva Manuela - sarebbe potuto essere la mia. Se avessi fatto quella strada e non quell’altra, se fossi andata al supermarket invece che dal fruttivendolo, se invece di stare a casa avessimo deciso di andare al ristorante del pesce… Quante volte il mio nome sarebbe potuto finire nella lista». «Ma siccome non c’è finito ho imparato come tutti a convivere con la paura. E ci si convive - osserva ancora Manuela Dviri - con , alla buona, con un po’ di fatalismo e una buona dose di classica scaramanzia». Convivere con la paura. Senza restarne schiacciati, annichiliti, annientati dal di dentro dell’anima. Scommettere sulla vita. Una vita normale. Senza Nemici da annientare o disegni di grandezza da realizzare. È il coraggio dell’Israele che non si arrende. L’Israele che scommette sul dialogo con i palestinesi non per un astratto senso di giustizia ma per un ben più concreto, salutare, insopprimibile bisogno di normalità. È l’Israele di Zeev Sternhell. Era l’Israele di Yitzhak Rabin, Può essere l’Israele della «nuova Golda Meir»: Tzipi Livni, anche lei entrata nel mirino dei fanatici oltranzisti sostenitori di «Eretz Israel». È l’Israele di Adel Misk e Rami Elhanan. Adel Misk ha perso il padre, ucciso davanti a casa senza alcuna ragione da un colono israeliano. Rami Elhanan, ha perso Yael, la figlia quattordicenne, in un attentato kamikaze a Gerusalemme. Adel e Rami fanno parte dell’associazione Parents Circle che riunisce oltre 500 famiglie palestinesi e israeliane che hanno perso dei famigliari a causa del conflitto. Avere la guerra negli occhi. E nel cuore un dolore indicibile. Convivere con una ferita dell’anima che sai non potersi più rimarginare. E poi.Poi ricominciare una lenta, eroica risalita dall’inferno. Trasformare una pena in energia positiva. Riuscire a non essere travolti dall’odio e cercare, invece, di far nascere da uno strazio condiviso una esperienza collettiva di riscatto: è il messaggio di speranza incarnato dalle famiglie di Parents Circle. «Stiamo cercando di far arrivare ai nostri leader un messaggio: è importante fare presto per non far soffrire altre persone. E se noi, che siamo quelli che hanno pagato il prezzo più alto, possiamo ancora parlarci l’ un l’ altro, allora chiunque lo può fare», dicono Adel Misk e Rami Elhanan. Adel e Rami sono convinti che gli individui hanno il potere di arrestare la violenza anche in una regione così devastata dalla disperazione, anche correndo il rischio, reale, di essere considerati dei traditori da parte di gruppi estremisti o che credono alla politica del dente per dente. Traditori da entrambe le parti. Ma loro insistono, perché «il dolore di una madre è universale, e la perdita di un figlio devasta chiunque», come dice Adel. E Rami aggiunge: «Bisogna elaborare il dolore, riconoscerlo nell’altro, non volere vendetta ma giustizia, essere insieme non solo per dialogare ma per contribuire a risolvere l’ingiustizia e l’illegalità dell’occupazione militare israeliana, riuscire a vivere in pace tra palestinesi e israeliani». Ma perché questo «miracolo» possa avverarsi occorre che Israele faccia i conti, fino in fondo, con l’ambiguità della sua «doppiezza». Perché oggi esistono due Israele, come rimarca anche un documentato rapporto pubblicato dal New York Times Books Review: uno dentro la frontiera del 1967, l’altro oltre questa linea, nei Territori occupati. Il primo è una democrazia vibrante, con arabi membri del Parlamento, professori universitari e avvocati, reginette di bellezza e soldati. Non ci sono strade separate per arabi ed ebrei, non villaggi inaccessibili, non posti di blocco né barriere di sicurezza. Ma oltre la linea c’è un altro Paese: non Israele né Palestina ma un luogo senza legge dove il colono ebreo, fucile in una mano e libro delle preghiere in un’altra, è il re indiscusso. Gli insediamenti sono illegali, in contravvenzione all’articolo 49 della Quarta convenzione di Ginevra che impedisce a una potenza occupante di trasferire la sua popolazione civile nei territori occupati. Ma per coloro che rivendicano un mandato divino, la Convenzione di Ginevra è solo carta straccia. Scavare nel dolore, nelle paure, nelle speranze di israeliani e palestinesi, significa cogliere l’essenza di un conflitto che si protrae da decenni: «Alla base di tutto - riflette Amos Elon, tra i più impegnati scrittori israeliani - vi è una disastrosa lotta tra due diritti, uno scontro tra due necessità insopprimibili, l’essenza stessa della tragedia». L’unico modo per risolvere il conflitto, l’unica soluzione giusta e praticabile - sottolinea Elon - «sarebbe quella di dividere il Paese tra i due contendenti». La pace fondata sul principio di due popoli, due Stati. La pace dei coraggiosi. Ne abbiamo incontrati molti, in Israele e nei Territori. A unirli c’è la consapevolezza che quella che si sta combattendo da una vita è la guerra che non si può vincere. E che l’unica strada per conquistare la pace è quella del dialogo, dell’incontro, del riconoscere, reciprocamente, il diritto dell’altro. È la convinzione che anima l’esperienza umana e intellettuale di David Grossman. «Israeliani e palestinesi - ci dice - devono rafforzare chi fra loro, e anche fra gli appartenenti all’altro popolo, è davvero interessato alla pace, chi è maturo per un sofferto compromesso». «Se non lo faremo - avverte lo scrittore - il campo sarà definitivamente occupato dagli estremisti, dai violenti, dai guerrafondai. Se non lo faremo, i nostri figli potranno solo vagamente ricordare per cosa vale la pena di combattere e a cosa possono aspirare». È una scommessa sul futuro. Un investimento collettivo. «La pace - sottolinea Grossman - è l’unica opportunità che abbiamo di vivere una vita piena. In condizioni difficili, certo, privi di illusioni e dolorosamente consapevoli di tutti i nostri volti e di tutte le nostre cicatrici. Ma vivere, finalmente, non solo sopravvivere fra una tragedia e l’altra».
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