Il caporale Nabila El Habachi racconta una storia di vera integrazione la scrittrice libanese Vénus Khoury-Ghata risponde a Naomi Wolf, che vede nel velo una
Testata: La Stampa Data: 17 settembre 2008 Pagina: 18 Autore: Laura Secci - Vénus Khoury-Ghata - Naomi Wolf Titolo: «Il mio Ramadan in caserma - Altro che sensualità il velo è una galera - Com'è sensuale quel velo»
Da La STAMPA del 17 settembre 2008 la cronaca di una vicenda di vera integrazione, quella di Nabila El Habachi, prima donna musulmana aurolata nell'esercito italiano:
Il tricolore che sventola alle sue spalle le dona fierezza. Nabila sorride, sotto il cappello degli alpini. La divisa lascia intravedere la freschezza dei diciotto anni e l’orgoglio di essere un soldato. Ultima di dieci figli, Nabila El Habachi è la prima donna musulmana arruolata nell’esercito italiano. «Ho realizzato un sogno che avevo fin da bambina - racconta - Da quando mio cugino entrò a far parte dell’esercito francese anch’io ho desiderato poter servire la nazione a cui appartengo, indossando la divisa. Avevo solo tredici anni e da allora non ho più cambiato idea». La sua famiglia, originaria del Marocco, è arrivata in Italia quarant’anni fa. Dopo un periodo trascorso a Sarno, in provincia di Salerno, si è trasferita a Monzambano, un paese di cinquemila abitanti vicino a Mantova. «Mio padre lavorava in provincia per un’azienda del posto. E’ rimasto invalido a causa di un incidente sul lavoro. La mia è una storia positiva, di integrazione riuscita: sono nata in Italia e mi sento italiana a tutti gli effetti. I miei genitori e i miei fratelli, invece, sono nati in Marocco. Ma non hanno mai avuto problemi ad integrarsi né hanno visto limitata la loro libertà di culto. Mia madre e una delle mie sorelle indossano il velo ma a me non l’hanno mai imposto. Così ho scelto non indossarlo». Questo è il mese del Ramadan, in cui i musulmani praticanti debbono astenersi, dall’alba al tramonto, dal bere, mangiare, fumare e praticare attività sessuali. «Io sono credente e quindi anche per me questo è il mese del Ramadan - precisa - rispetto i precetti della mia religione, anche se non sono solita andare a pregare in moschea. Non mangio carne di maiale, ma nelle mense militari trovo sempre una scelta alternativa». Nabila vive e lavora ad Aosta, al centro addestramento alpino, dal 27 maggio scorso. «Sono felice di essere stata assegnata qui. Mi piace questo paesaggio di montagna e mi trovo molto bene con i colleghi. Poi, il mio sogno è sempre stato quello di entrare a far parte del corpo degli alpini e l’ho realizzato». Volontaria in ferma prefissata di un anno, tra poche settimane riceverà il grado di caporale e spera di poter proseguire la carriera nell’esercito. Dopo un anno di servizio Nabila potrebbe partecipare ad una delle missioni militari in cui è attualmente impegnato l’esercito italiano. «E’ proprio quello che mi auguro. Del resto è uno dei motivi che mi ha spinto ad arruolarmi. Sarebbe un’esperienza umana e professionale impagabile». Non dovrebbe essere così difficile per una ragazza che parla correttamente la lingua araba e conosce gli usi e i costumi musulmani, due requisiti che potrebbero rivelarsi molto utili nelle missioni in Afghanistan e in Libano. I genitori originari del Marocco assistono al giuramento della figlia alla Repubblica. E’ stato difficile comprendere la sua scelta di intraprendere la carriera militare? «No. Anzi. Ne sono felici e mi incoraggiano a proseguire. Il loro sostegno è molto importante per me».
La scrttrice libanese Vénus Khoury-Ghata risponde alla femminista americana Naomi Wolff, che sulla STAMPA del 10 settembre aveva teorizzato la valenza liberatoria del velo
Dire che il velo ha liberato la donna è doloroso per coloro che lo indossano come una prigione, un sarcofago, un feretro ambulante. È un'offesa per le donne afgane imbavagliate dalla paura, che contano sulle loro sorelle occidentali con la speranza che possano battersi per loro, per liberarle dal velo. Dire che il velo ha liberato le donne farà sanguinare il cuore di Maryamou di Mechhed, di Azadée di Teheran, delle studentesse che indossano il velo all'università diretta da religiosi ma che, non appena rientrate a casa, strappano via il tchador come una pelle da rimuovere per ritrovare la loro vera pelle. Dire che il velo ha liberato le donne, rende amareggiate le afgane rese cieche dal burka che indossano, rasentate dalle automobili, uccise dalle automobili che vedono soltanto all'ultimo momento. Dire che il velo ha liberato le donne è un'offesa per coloro che si erano battute nel corso del secolo per liberare le donne dal velo, per renderle uguali all'uomo che cammina con il viso scoperto al sole. Un dolore per coloro che vorrebbero mostrare la loro chioma, considerata dagli adepti del velo come la capigliatura del sesso. È possibile definire il velo come liberatorio delle donne quando ostacola tutti i loro gesti e le rende pari a dei muli che circolano nella strada con delle fessure per gli occhi che impediscono di guardare di lato? Dieci anni fa, su richiesta di una parlamentare europea, ho condotto un sondaggio in Libano, il mio paese, presso alcune donne che hanno frequentato l'università, al fine di conoscere i motivi per i quali hanno iniziato ad indossare il velo mentre prima non lo portavano. La prima, direttrice di un'agenzia di PTT, ha detto di indossare il velo per essere rispettata dai suoi confratelli che considerano come prostitute qualsiasi donna senza velo (questa donna viveva in una città del sud del Libano, diventata islamica dopo l'uscita di Hezbollah). La seconda indossava il velo per motivi economici: i figli delle donne con il velo possono entrare in ospedale senza pagare in anticipo, altrimenti sono respinti (problema cruciale in un paese in cui la previdenza sociale non esiste). La terza ha dichiarato che senza il velo, tra un vestito di Dior e un vestito acquistato in un negozio monoprezzo non c'è nessuna differenza. Camminando per la strada, è al pari della moglie del deputato e della moglie del sindaco della sua città. La quarta indossava il velo per beneficiare dell'acquisto di un appartamento pagato in venti anni senza interessi. Si tratta degli appartamenti costruiti da Hezbollah, finanziati dall'Iran e che hanno trasformato gli stabili di due piani in grattacielo. La quinta, una ragazza bizzarra, giornalista per un quotidiano arabo islamico, mi ha detto di indossare il velo per prendersi gioco di sua madre che si era battuta più di trent'anni fa per liberare le donne dal velo. Dichiarare di amare il velo mi fa pensare a una parigina eccentrica che si era fatta realizzare delle manette in oro da un gioielliere, che esibiva la domenica pomeriggio quando ci offriva il tè. Bisogna scendere in strada per conoscere la povertà, diceva il ricco Sénèque. Bisogna aver vissuto con donne che indossano il velo per avere il diritto di parlare a nome loro. Bisogna soprattutto intervistarle lontano dallo sguardo del marito, del padre, del fratello, i quali si trasformano in lapidatori non appena ritengono che il loro onore sia stato infangato. Non potrò mai dimenticare l'immagine di una donna lapidata dagli uomini della sua famiglia perché sospettata di aver avuto una relazione con un'altra donna, agonizzante sotto le pietre mentre suo fratello la filmava con il cellulare. Il fratello filmava con una mano e tirata le pietre con l'altra. Le donne che portano il velo non l'hanno per forza scelto. Alcune credono di averlo scelto perché risponde al voto o alle imposizioni del marito o dell'uomo amato. Si sono ritrovate di fronte al loro destino. Molte l'hanno scelto per sottomissione, perché credono che l'uomo sappia cosa vada bene, cosa sia meglio per loro. L'uomo pensa per loro che non sanno pensare. Come dice un proverbio arabo, la sottomissione è generatrice di felicità. La schiavitù può essere volontaria. L'asservimento può essere voluto per conservare il cuore di un uomo, il suo rispetto, il rispetto della sua comunità fa credere ad alcune donne che il velo le protegge, il velo è la loro scelta. Il libero arbitrio non esiste per queste donne. Sono condizionate e ignorano che la scelta cessa di essere una scelta quando è il riflesso del desiderio altrui, il frutto dell'autorità altrui. Il velo è una prigione, un feretro, un sarcofago.
Di seguito, riprendiamo dalla STAMPA del 10 settembre l'articolo di Naomi Wolf, intitolato "Com'è sensuale quale velo":
Una donna vestita di nero fino alle caviglie, con la testa coperta da un foulard o dal chador, passeggia per una via dell’Europa o del Nord America, circondata da altre donne in top, minigonna o pantaloncini. Passa sotto enormi cartelloni sui quali altre donne vanno in estasi sessuale, saltellano con addosso solo biancheria intima o si stiracchiano languidamente, quasi completamente nude. Potrebbe esserci qualcosa di più appropriato di queste immagini per rappresentare il disagio dell’Occidente verso i costumi sociali dell’Islam, e viceversa?
Le battaglie ideologiche vengono spesso combattute con i corpi delle donne, e l’islamofobia occidentale non fa eccezione. Quando la Francia ha bandito i foulard dalle scuole, ha usato la hijab come emblema dei valori occidentali in senso lato, compreso un appropriato status delle donne. Quando gli americani si preparavano all’invasione dell’Afghanistan, i taleban furono demonizzati perché negavano alle donne i cosmetici e le tinture per capelli; quando i taleban furono rovesciati, i giornalisti occidentali sottolineavano spesso che le donne si erano tolte il velo.
Ma noi in Occidente non stiamo forse fraintendendo radicalmente i costumi sessuali musulmani, in particolare il senso del velo o del chador? Non siamo forse ciechi di fronte ai nostri marcatori di oppressione e di controllo delle donne?
L’Occidente interpreta il velo come repressione delle donne e soppressione della loro sessualità. Ma quando, viaggiando nei Paesi musulmani, sono stata invitata a partecipare a incontri con sole donne all’interno di case musulmane, ho imparato che l’atteggiamento musulmano verso l’aspetto e la sessualità femminile non ha le sue radici nella repressione, ma in un forte senso del pubblico rispetto al privato, di ciò che si deve a Dio e ciò che si deve al proprio marito. Non è che l’Islam sopprima la sessualità, è che ha un fortissimo senso di come vada incanalata in modo appropriato: verso il matrimonio, verso i legami che sorreggono la vita familiare, verso l’attaccamento che protegge la casa.
Fuori dei muri delle tipiche case musulmane che ho visitate in Marocco, in Giordania, in Egitto, tutto era modestia e decoro. Dentro però le donne erano interessate al fascino, alla seduzione e al piacere come qualunque altra donna al mondo.
A casa, nel contesto dell’intimità maritale, c’era abbondanza di biancheria sexy e di creme per la pelle. I video dei matrimoni che mi sono stati mostrati, con la danza sensuale che la sposa impara come parte di ciò che la rende una magnifica moglie, e che offre con orgoglio al suo sposo, suggeriva che la sensualità non è estranea alle donne musulmane. Piuttosto, piacere e sessualità, sia negli uomini sia nelle donne, non devono essere mostrati in maniera promiscua - e potenzialmente distruttiva - agli occhi di tutti.
Molte delle donne musulmane con cui ho parlato non si sentivano affatto asservite dal chador o dal velo. Al contrario, si sentivano liberate da quello che avevano sperimentato come lo sguardo occidentale intrusivo, oggettivante, bassamente sessuale. Molte mi dicevano: «Quando indosso abiti occidentali, gli uomini mi fissano, fanno di me una donna oggetto, oppure mi trovo a confrontarmi con le modelle sulle riviste, un livello difficile da raggiungere, e ancora più difficile a mano a mano che passano gli anni, per tacere di quanto sia faticoso essere continuamente in mostra. Quando ho il velo o il chador, la gente si mette in rapporto con me come individuo, non come oggetto. Mi sento rispettata». Il pensiero femminista non è molto lontano da ciò.
Questa liberazione l’ho sperimentata anch’io. Un giorno in Marocco ho messo un shalwar kameez e un velo per andare al bazar. Una parte del calore che ho trovato era probabilmente dovuto alla novità di vedere una donna occidentale vestita così, ma mentre giravo per il mercato - la curva del seno coperta, la forma delle gambe oscurata, i lunghi capelli che non svolazzavano intorno al viso - ha provato un insolito senso di calma e serenità. Mi sono sentita, in un certo modo, libera.
Le donne musulmane non sono sole. La tradizione cristiana occidentale dipinge tutta la sessualità, anche quella coniugale, come peccaminosa, mentre l’islam e il giudaismo non hanno mai avuto quello stesso tipo di separazione spirito-corpo. In queste culture la sessualità incanalata nel matrimonio e nella famiglia è vista come fonte di grande benedizione approvata da Dio.
Questo spiega perché sia le donne musulmane sia le ebree ortodosse non solo descrivono il senso di liberazione offerto dai loro abiti modesti e dai capelli coperti, ma esprimono anche, nella loro vita coniugale, livelli più alti di gioia sensuale di quanto non sia usuale in Occidente. Quando la sessualità è tenuta privata e diretta su strade considerate sacre - e quando il marito non vede sua moglie (o altre donne) mezza nuda tutto il giorno - quando il velo o chador cadono nella sacralità della casa, si possono sperimentare grande potenza e intensità.
Tra i giovani uomini sani dell’Occidente, cresciuti nella pornografia e nelle immagini sexy a ogni angolo di strada, la scarsa libido è quasi un’epidemia. È facile invece immaginare il potere della sessualità in una cultura più pudica, le esperienze positive che le donne - e gli uomini - possono avere in culture dove la sessualità è gestita in modo più tradizionale. Non intendo condannare le leader femminili del mondo musulmano che considerano il velo come un mezzo per controllare le donne. La possibilità di scegliere è tutto. Ma gli occidentali dovrebbero riconoscere che quando una donna in Francia o in Gran Bretagna sceglie il velo, non è necessariamente un segno della sua repressione. E, cosa più importante, quando tu scegli la tua minigonna e il tuo top - in una cultura occidentale nella quale le donne non sono così libere di invecchiare e di ignorare i negozi del lusso in Madison Avenue, e non sono sempre rispettate come madri, come lavoratrici e come esseri spirituali - vale la pena pensare in modo più sfumato a che cosa sia davvero la libertà femminile. Copyright Project Syndicate, 2008
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