Per Sergio Romano l'atomica iraniana è accettabile perché vive "nel mondo dei sogni", sostiene Peppino Caldarola
Testata: Autore: Peppino Caldarola Titolo: «Il mondo dei Sergio romano»
Da Il RIFORMISTA del 22 agosto 2008:
In due giorni Sergio Romano ha delineato i tratti di una politica estera che piace all'establishment di destra e di sinistra e che ha una lunga tradizione. L'ex ambasciatore, opinionista del Corriere della Sera , mercoledì ha bacchettato tutti coloro che nella vicenda georgiana non comprendono le ragioni di Mosca. Poi a Cortina ha sostenuto l'accettabilità dell'atomica iraniana. Romano non è un supporter né della Russia di Putin né degli ayatollah, ma propone una concezione del mondo che fa dello status quo e dell'equilibrio del terrore un dato irrevocabile. La bomba iraniana e l'aggressività della Russia putiniana rappresentano invece, per chi ha una visione diversa da Sergio Romano, due pericoli non solo per la pace ma per una politica estera fondata sul binomio sicurezza-libertà. Il mondo di Sergio Romano è un mondo complesso e impaurito che può resistere al rischio di guerre, e della Grande Guerra Globale, solo se trasforma le paure dei soggetti internazionali in una risorsa per la stabilizzazione. Questa visione non è priva di fondamento e ha avuto e ha nella politica estera italiana vasti appoggi. Negli anni della «guerra fredda» il punto di incontro fra Dc e Pci stava nel ricercare un equilibrio nella contesa bipolare, fondata sul terrore atomico, assegnando all'Italia il ruolo di partner atlantico consapevole delle ragioni di potenza sovietiche. Recentemente questa idea di politica estera è venuta alla luce nelle polemiche sollevate dall'ex presidente della Repubblica Francesco Cossiga che ha rivelato il patto di convivenza, sul territorio italiano, fra palestinesi e governi retti dalla Dc. Questa politica estera ha ispirato l'atteggiamento francese sia negli anni del conflitto Usa-Urss sia, in periodi più recenti, nel rapporto fra Occidente e mondo arabo-musulmano. Fino a Sarkozy. Nello stesso establishment americano la cultura di Romano trova radici potenti non solo nella vecchia visione kissingeriana ma fra i repubblicani delusi dall'interventismo profetico di Bush e nei settori più realisti dei Democrats, ad esempio l'ex presidente Carter. Sergio Romano è stato, in Italia, il battistrada di questa visione del mondo. Ricordiamo tutti che la sua fuoriuscita dal mondo delle feluche avvenne a seguito di un giudizio catastrofico sulla politica di Gorbaciov. Mentre l'intero mondo occidentale prendeva sul serio il riformismo gorbacioviano e in nome di un realismo dinamico lo appoggiava, l'ambasciatore vedeva nitidamente solo il profilo catastrofico dell'esperienza della perestroika e invitava ad una presa di distanza. Aveva ragione su Gorbaciov, sbagliava nel pensare che ci fosse un'alternativa al crollo dell'Urss. È importante ricordare questa vicenda perché l'accusa che non si può rivolgere a Romano è quella di essere semplicemente un conservatore. La critica più fondata sta nella mancanza di realismo di una politica estera che, viceversa, si presenta come sommamente realista. Prendiamo il caso russo-georgiano. Romano sostiene che è legittima la paura di Putin di sentirsi accerchiato da una Nato che invece di sciogliersi a vantaggio di un organismo che comprenda Mosca, si rafforza inglobando altri paesi dell'Est. Questa evoluzione della Nato impedisce all'Europa di portare avanti un dialogo con lo zar del nuovo Kremlino fondato sullo scambio tecnologie-idrocarburi. Sullo stesso numero del Corriere che ospitava queste tesi di Romano, Bernard-Henry Lèvy, in uno splendido reportage da Tbilisi, raccontava la rabbia di Saakashvili, leader georgiano, che affermava: «La Russia è alleata dell'Iran. Anche i nostri vicini armeni non sono lontani dagli iraniani. Immaginiamo che a Tbilisi si instauri un regime favorevole alla Russia. Avremmo un continuum strategico che andrebbe da Mosca a Teheran. Spero che la Nato lo capisca». Lo ha capito Sergio Romano che non a caso accetta le ragioni di Mosca e Teheran. Questa politica estera è, lo scriviamo come dato di cronaca non come giudizio morale, priva di princìpi. La stessa cultura di Romano e di tutti i realisti non prevede il ricorso ai princìpi come criterio per leggere il mondo e governarlo. Nell'establishment italiano, sia quello di provenienza cattolico-democristiana sia quello post-comunista sia nel mondo dell'economia, dalla Fiat all'Eni, fino allo stesso Silvio Berlusconi, la lettura realista del rapporto con la nuova Russia, e persino con gli ayatollah, precede ogni ragionamento. E prepara un ragionamento su un'Europa che, in cambio della sopravvivenza energetica, rinuncia a un ruolo nel mondo che non sia quello di contemperare le ragioni dei nuovi soggetti forti e di proporre agli Usa una mediazione. Il realismo che dovrebbe impedire il disastro globale è fondato sull'idea che vada legittimata ogni richiesta di tutti i soggetti emergenti dotati di una forza deterrente. È l'equilibrio di potenza che fa la pace. Siamo al continuum della politica della guerra fredda. L'atomica iraniana per tenere a freno Israele. Blandire Putin per garantire l'approvvigionamento energetico. Questo equilibrio è irrealistico perché non prevede né le lotte di libertà né l'azione della variabile terroristica. Né l'emergere di una politica estera fondata sul binomio sicurezza-libertà. Al dinamismo basato sul reciproco riconoscimento di piccole e grandi potenze, si contrappone il mondo reale che avanza domande di libertà e di giustizia che il mondo di Romano non contempla. Basteranno a farlo saltare un monaco tibetano, l'irriducibilità di Israele o un presidente Usa meno maldestro di Bush ma altrettanto ispirato dall'idea della democrazia come valore universale. La vera critica da fare ai realisti è che vivono nel mondo dei sogni.
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