Israele non dimentica i versi omicidi di Mahmoud Darwish grande letterato, ma anche efferato ideologo
Testata: Il Foglio Data: 20 agosto 2008 Pagina: 2 Autore: Giulio Meotti Titolo: «L’Onu piange il poeta Darwish. Israele non scorda i suoi versi omicidi»
Da Il FOGLIO del 20 agosto 2008, un articolo di Giulio Meotti, che restituisce un ritratto del poeta palestinese Mahmoud Darwish molto più equlibrato e veritiero di quelli ,acriticamente elogiativi, letti finora sui quotidiani italiani.
Un grande letterato. Ma anche un efferato ideologo. Mahmoud Darwish è stato un genio nel cantare l’esilio e l’identità araba. Marxistoide insignito del premio Lenin in ritardo rispetto al grande risveglio islamico, Darwish è stato per anni membro dell’Olp. Ne uscì in dissenso non con il terrorismo che faceva stragi di ebrei, ma con gli accordi di Oslo. Soltanto Arafat ha avuto un cordoglio come il suo. Dal leader di Hamas Mahmoud al Zahar (dieci giorni fa) all’Onu (l’altro ieri), tutti piangono Darwish “voce della giustizia universale”. Quest’icona araba ha dominato con i suoi versi la televisione ufficiale palestinese. “E’ tempo che voi israeliani ve ne andiate” recita una sua poesia. “Vivete dove volete, ma non vivete fra noi. Morite dove volete, ma non morite in mezzo a noi”. Darwish non è stato diverso del ritornello dominante sui programmi radiofonici e televisivi e scolastici che i dirigenti palestinesi trasformano in strumenti di odio contro gli israeliani. Suo il “Requiem per Mohammad al Dura”, il ragazzino palestinese ucciso in strada e vittima ulteriore della disinformazione antisemita. Il cuore di al Dura è puro “come una mela” e il suo volto è “come un’alba”. Il “piccolo Gesù” grazie ai versi di Darwish diviene il simbolo per cui vale la pena farsi saltare in aria. Il più duro con lui è stato Marty Peretz su New Republic. Lo definisce “il poeta che ha messo la pistola nelle mani di Arafat alle Nazioni Unite”. Nato in un villaggio vicino ad Acri, Darwish pianse la mancanza di pace, ma fu uno dei suoi primi fucilatori. Il fatto che fosse il poeta più letto nel mondo arabo, e il più ascoltato nei reading all’estero, ha finito per nascondere l’aspetto più terribile della sua carriera. Un resistenzialismo malinconico e atroce, uno straziante cannibalismo dai contorni estetizzanti. Darwish scrive agli israeliani: “Dissotterrate i vostri morti, prendete le ossa con voi e lasciate questa terra”. E’ ciò che ha fatto Ariel Sharon da Gaza, ma Darwish non ha avuto parole di sostegno per quel gesto coraggioso. Decisivo nel dipingere la nascita di Israele come nakba, “catastrofe”, i suoi versi del 1964 affermano che “la carne degli usurpatori sarà il mio cibo”. Come non pensare al lago di sangue e pane azzimo che si formò al Park Hotel di Netanya dopo l’attentato suicida? Nel “Diario di un palestinese ferito” afferma che “questa terra assorbe la pelle dei martiri”. Diceva che “l’Intifada è l’espressione naturale e legittima della resistenza contro un’occupazione caratterizzata dalla peggior forma di apartheid sotto la maschera di un elusivo processo di pace che spossessa i palestinesi della loro terra”. Nell’aprile 2002, mentre i kamikaze annientavano ebrei nelle sinagoghe, alle feste, nei ristoranti e nei centri commerciali, ordalia di sangue e silenzio acclamata nelle strade palestinesi, Darwish scrive su al AhAhram: “Le forze israeliane, armate fino ai denti con superstizioni razziste e un apparato militare, stanno assediando il diritto dei palestinesi di vivere vite ordinarie. Di fronte al genocidio politico offerto dall’occupazione israeliana finanziata dagli americani, i palestinesi offrono la propria risoluta resistenza a qualsiasi costo”. Compreso l’incenerimento di decine di madri e figli. Molti suoi poemi furono tradotti in ebraico da case editrici come Schocken, Babel e Andalus. L’ex ministro dell’Istruzione, Yossi Sarid, voleva portarlo nelle scuole israeliane (si oppose Ehud Barak). Darwish non ha mai lottato perché un solo poeta israeliano entrasse a Gaza. Forse per questo Abraham Yehoshua dice di sentirsi “più vicino ai religiosi ultraortodossi che a un intellettuale palestinese laico come Darwish”. Il candido Darwish non ha mai voluto decifrare il mostro che ha avvelenato la sua terra. Gli attentatori suicidi, le bombe umane, rifiutò di spiegarle come “giovani che cercano vergini bellissime in Paradiso”. Perché per lui “i palestinesi amano la vita”. E’ questa la nota più triste di Darwish. Che un poeta figlio dell’illuminismo francese non abbia saputo tradurre in versi la differenza tra chi ama la morte più della vita e chi difende la vita rischiando la morte
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