Da la DOMENICA del Il SOLE 24 ORE del 27 luglio 2008, Benny Morris recensisce l'autobiografia di Sari Nusseibeh:
Sari Nusseibeh è uno dei personaggi più intriganti nel caos e nella tragedia della storia palestinese contemporanea. Formatosi a Oxford e Harvard, è un docente universitario di filosofia medievale islamica; per natura – così ci dice ripetutamente – odia la violenza ed è un “sognatore” in “una logora giacchetta inglese di tweed”.Ciononostante, ha trascorso gran parte della sua vita adulta immerso nelle vicissitudini della lotta nazionale palestinese, riuscendo a suscitare le ire sia dei suoi compatrioti (per via del suo approccio bistatale al problema dei rapporti con Israele), sia degli israeliani (a causa delle sue aspre critiche alle loro politiche e ai mali dell’occupazione).
I funzionari dei servizi di sicurezza israeliani – ci racconta con orgoglio – lo hanno definito “il volto umano del terrorismo palestinese” e “un lupo in vesti d’agnello”. E, di fatto, ciò che Nusseibeh ci rivela in questo libro riguardo al suo ruolo nell’orchestrare la Prima intifada (la rivolta anti-israeliana nei territori occupati, nel 1987-91, in occasione della quale egli contribuì a istruire le masse sulle cose da fare – lanciare pietre e bottiglie molotov, boicottare i prodotti israeliani, uccidere i collaborazionisti – e fece arrivare finanziamenti illegali dalla Giordania) e le azini che compì negli anni seguenti potrebbero non darci ancora un quadro esaustivo di tutte le sue imprese al servizio della causa palestinese.
Sia come sia, negli ultimi 14 anni Sari Nusseibeh ha tenuto l’incarico di rettore della fiorente Università Al Quds di Gerusalemme Est (entrando al contempo, in più riprese, nei comitati dell’Olp e dell’Anp, l’Autorità nazionale palestinese), un focolaio di attivismo palestinese in una città che è stata annessa da Israele e che, per certi versi, sta attraversando un processo di “giudaizzazione” (anche se non dal punto di vista democrafico).
E’ un fatto curioso della sociologia politica palestinese che Nusseibeh sia uno dei pochissimi rampolli delle famiglie dell’élite tradizionale araba che hanno giocato un qualche ruolo nel movimento nazionale dopo il 1967 (la maggior parte di loro ne sono rimasti alla larga; molti, come Edward Said e Rashid Khalidi, si sono semplicemente allontanati verso i climi meno impegnativi dell’Occidente). Ma il suo sangue è veramente nobile. La sua stirpe risale a un certo Ubadah ibn al-Samit, della tribù araba Khazraj che accompagnò il califfo Omar dalla regione dell’Hijaz nella sua conquista di Gerusalemme nel 638 d.C. e che fu il primo a ricevere il titolo di “alto giudice” musulmano della città (per un motivo o per l’altro, l’anti-sionista Nusseibeh non comprende o non si rende conto del paradosso morale posto dal fatto che, sia pur 13 secoli fa, gli arabi si erano appropriati della Palestina attraverso una sanguinosa conquista militare).
La maggior parte dei palestinesi – come è emerso chiaramente dal loro appoggio al movimento fondamentalista e antisemita di Hamas nelle elezioni politiche del 206 – odia (comprensibilmente) Israele. Le posizioni di Sari, però, sono ambigue, per non dire schizofreniche. Ma è una schizofrenia sui generis: anziché trattarsi di una scissione tra due personalità, nel caso di Nusseibeh la linea di demarcazione corre semplicemente tra la mente e il cuore. La sua mente, cioè, accetta il legame storico degli ebrei con questa terra e la legittimità del sionismo che da esso scaturisce (egli si spinge persino a citare le appropriate parole pronunciate dal sindaco di Gerusalemme Zia al-Khalidi nel 1899: “Chi può contestare i diritti degli ebrei sulla Palestina?”) e, sia pur con riluttanza, prende atto delle virtù della società e dell’ordinamento politico israeliano, impegnandosi per il raggiungimento di un logico e ragionevole accordo basato sul principio dei due Stati per due popoli. Il suo cuore, però, la vede (e la pensa?) diversamente. Insiste nel ribadire quelle che considera come le ingiustizie del passato, in cui gli ebrei-sionisti hanno rubato la terra del suo popolo e continuano a opprimerlo e umiliarlo. Si direbbe che alla base della sua rabbia l’esperienza personale e familiare abbia un peso pari a quello della storia collettiva. Nusseibeh non si stanca di ricordare come suo padre abbia perso una gamba sotto il fuoco israeliano nel 1948; come sua madre, sempre nel 1948, sia stata costretta ad abbandonare la casa dei suoi avi; come gli israeliani abbiano confiscato le proprietà della sua famiglia.
Dal canto opposto, il cerebrale, moderato Nusseibeh è stato gravemente percosso per mano di un gruppo di studenti radicali palestinesi; e nel 2002 si è unito ad Ami Ayalon – l’ex direttore dei servizi di sicurezza israeliani, lo Shin Bet – in un accordo che chiedeva la creazione di due Stati per due popoli lungo i confini del 1967 e la rinuncia al “Diritto di ritorno”.
Allo stesso tempo, però, il libro trabocca di livore anti-israeliano. Per esempio, pur senza avere in mano nessuna solida prova, Nusseibeh incolpa lo Shin Bet dell’omicidio di un turista tedesco avvenuto nella Città vecchia negli anni Ottanta. A un livello più sostanziale, egli accusa ripetutamente i successivi governi israeliani di aver cercato di indebolire le posizioni e i portavoce dei palestinesi moderati nel tentativo di rafforzare estremisti e oltranzisti, in modo da poter poi indicare questi ultimi all’Occidente come gli autentici rappresentanti della volontà politica del popolo palestinese. Pertanto, nel descrivere gli sforzi di Israele per sradicare la Seconda intifada nel 2002, Nusseibeh presenta gli israeliani come intenti a colpire il suo amico moderato Jibril Rajoub e pronti al contempo a permettere al leader di Hamas, lo sceicco Ahmed Yassin, di muoversi “indisturbato nei suoi viaggi quotidiani per il mondo”. Ciò è del tutto assurdo: pochi mesi dopo, gli elicotteri militari israeliani avrebbero aperto il fuoco su Yassin e il suo successore, Abdul Aziz Rantisi, uccidendoli in una rappresaglia per gli imponenti attentati suicidi organizzati da Hamas in diverse città israeliane.
Non è probabilmente strano che, nel corso degli anni, la schizofrenia di Nusseibeh verso Israele abbia puntualmente trovato un riflesso nell’atteggiamento tenuto dalle autorità israeliane nei suoi confronti. Egli è stato (ed è tuttora) corteggiato dal centro e dalla sinistra israeliana, additato come un faro di ragionevolezza nella deriva morale e politica del mondo arabo. Tuttavia, a più riprese è stato messo sotto sorveglianza dai servizi di sicurezza e, in un’occasione, è anche stato tenuto in custodia cautelare per tre mesi (nel 1991, quando sulle città israeliane stavano piovendo gli Scud iracheni e Nusseibeh aveva stupidamente discusso, con l’ambasciatore dell’Iraq in Tunisia, degli obiettivi colpiti dai missili). D’altro lato, egli non è mai stato arrestato a processato per il suo ruolo di orchestrazione e collaborazione durante la Prima intifada.
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