Da La STAMPA del 24 luglio 2008, la cronaca della visita di Barack Obama in Israele, di Francesca Paci
Camicia bianca senza cravatta, maniche arrotolate, una solenne promessa d’amicizia agli abitanti di Sderot pronunciata davanti alle carcasse dei razzi Qassam lanciati da Gaza: Barack Obama sembra già al lavoro. Il candidato democratico alla Casa Bianca conclude la quita tappa della sua tournée internazionale salutando gli ospiti israeliani e palestinesi da vincitore, quasi avesse raccolto già da Bush la staffetta della Road Map.
La Terra Santa incalza, ha fretta. «Lei dev’essere un grande presidente degli Stati Uniti perché il mondo ha bisogno di una visione e di una leadership», suggerisce il capo di Stato israeliano Shimon Peres durante l’incontro alla residenza Beit Hanassi. La premessa ovviamente, è che Obama sia eletto. Ma lui, una mano sul cuore e nell’altra il libro del Nobel 84enne «The Imaginary Voyage: With Theodor Herzl in Israel», non palesa incertezze. Afferma d’essere qui per riaffermare l’asse israelo-americano con la speranza di diventare «un partner effettivo, sia da senatore che, eventualmente, da presidente». Poi sorride ammiccando ai fotografi, alle telecamere e alle assistenti dell’anziano leader laburista che ne commentano il fascino, «Eizeh Khatikh!», che fusto!.
La lunga giornata del candidato alla Casa Bianca comincia presto, una scaletta da capo di Stato. Alle 8 l’appuntamento con il ministro della Difesa Ehud Barak per discutere la sicurezza d'Israele, una questione che il senatore dell'Illinois mostra d'avere talmente a cuore da approvare il raid del 6 settembre scorso contro la presunta centrale nucleare in Siria. «Penso che ci fossero sufficienti prove» confida Obama, nota il columnist di Yedioth Ahronot Auf Benn, perché l’elettorato ebraico americano intenda.
A mezzogiorno il corteo presidenziale attraversa a sirene spiegate Gerusalemme, verso Yad Vashem, il museo dell’Olocausto. Infine, si va verso Ramallah. Gli israeliani congedano abbastanza soddisfatti «l’amico americano» che li ha rassicurati spiegando come l’Iran rappresenti «una minaccia che deve essere sventata». I palestinesi, al di là del muro costruito da Israele contro i kamikaze, l’attendono senza grande entusiasmo. Tutti piuttosto tiepidi ad eccezione del fornaio Nasir Abdul Hadi che ha messo in vetrina la focaccia Obama, pane arabo, pomodorini e menta.
L’ora di faccia a faccia con Abu Mazen scorre via cordialmente, ma i partners sono distanti. L’aspettativa era superiore. «I palestinesi hanno diritto a uno Stato in grado di vivere», dice Obama. E’ una politica di mediazione e lui garantisce che, una volta eletto, sarà «un attore importante» del processo di pace. Ramallah non dimentica che un mese fa il senatore dell’Illinois aveva parlato di Gerusalemme come «capitale indivisibile» dello Stato ebraico. E poco conta la smentita del giorno successivo. A fine giornata, dopo il blitz a Sderot in compagnia del ministro degli Esteri Tzipi Livni e la cena con il primo ministro Olmert, Barack Obama lo ripete, «Gerusalemme sarà la capitale di Israele». D’accordo, «una questione che attiene allo statuto finale» e gli Usa devono solo «appoggiare gli sforzi delle parti per giungere a un’intesa». Ma non tutti ascoltano questa parte del discorso. Mentre le tv israeliane trasmettono le immagini del candidato democratico che se va stringendo in mano la maglietta «I love Sderot», quelle arabe mostrano il suo volto sovrapposto a Bush e McCain.
Da Il RIFORMISTA, l'analisi di Anna Momigliano sulla strategia elettorale di Barack Obama. Il candidato democratico, in realtà, in Israele non starebbe corteggiando, come credono molti, il voto ebraico. Convincere gli israeliani della sua amicizia gli servirebbe piuttosto ad essere considerato credibile nella lotta al terrorismo: questione cruciale per l'elettorato americano nel suo complesso.
«Neanche fosse Carla Bruni». Così Aluf Benn, acido editorialista di Haaretz , liquida l'entusiasmo generale con cui gli israeliani hanno accolto la visita del candidato democratico Barack Obama. Che, con buona pace di Benn, è stato accolto quasi come una star. E che si è comportato quasi da star hollywoodiana, elargendo complimenti e frasi d'effetto: «Israele è un miracolo vivente» ha commentato al memoriale della Shoah, lo Yad Vashem. Obama ha detto tutto quello che gli israeliani volevano sentirsi dire: la «relazione speciale» tra Usa e Israele è stata ribadita, la sicurezza di Israele sarà «una massima priorità», l'atomica iraniana è «un problema mondiale». Ha condannato l'attacco terroristico di martedì a Gerusalemme, e ai microfoni della Cbs ha detto di approvare il raid aereo israeliano dello scorso settembre che avrebbe distrutto un reattore siriano. Quanto all'ipotesi di un raid contro l'atomica iraniana, il candidato Democrat si è limitato a rispondere che «Israele ha il diritto di difendersi». Dulcis in fundo, la stoccata a Hamas: «Parlare con chi non riconosce Israele è difficile».
Se l'obiettivo di Obama era ripulire la sua immagine dalle ombre di anti-israelianismo, il suo è stato un successo completo. Anche le tappe scelte erano volte a dimostrare da che parte stava. L'agenda israeliana è stata fittissima: visite allo Yad Vashem e Sderot; incontri con Peres, Ehud Olmert, i ministri Tzipi Livni (Esteri) e Ehud Barak (Difesa), e il leader dell'opposizione Bibi Netanyahu. L'agenda palestinese è stata un po' meno fitta: una tappa a Ramallah, dove Obama ha incontrato il presidente Abu Mazen e il primo ministro Salam Fayyad.
Ogni successo ha però un prezzo: per Obama è stato la fine della luna di miele con una buona fetta del mondo musulmano. «Obama non è il benvenuto in Palestina» ha detto un rappresentante di Hamas, criticando Abu Mazen per averlo ricevuto. «Che delusione! Obama ha confermato l'ipotesi che i politici americani sono più sionisti degli israeliani» ha detto la giornalista di Al-Jazeera Laila El-Haddad un tempo supporter convinta del senatore dell'Illinois. E pensare che, sempre secondo Al-Jazeera , lo scorso maggio un gruppo di 17 studenti di Gaza aveva organizzato un club intitolato «Gaza's Obama campaign». Obiettivo: convincere gli americani a votare per un candidato che, secondo loro, avrebbe cambiato per sempre il rapporto tra Usa e Palestina. Ora di «Gaza's Obama campaign» non si sa più nulla. I loro video sono scomparsi da Youtube.
La tappa mediorientale è soltanto l'ultimo capitolo di una recente conversione d'immagine in chiave fortemente filo-israeliana. Una conversione cominciata a giugno, quando Obama ha parlato di fronte all'associazione filo-israeliana Aipac. In quell'occasione il candidato Democrat aveva persino parlato di Gerusalemme come «capitale indivisibile» d'Israele, salvo poi correggere il tiro di fronte alla rabbia palestinese e spiegare che è «una questione da risolvere coi negoziati».
Un semplice corteggiamento dell'elettorato ebraico? E' una spiegazione che piace a molti, ma che da sola non convince. In primis perché il voto ebraico conta fino a un certo punto - anche se potrebbe essere rilevante in alcuni swing-State come la Florida. E poi perché, contrariamente a quello che si sente dire, Obama non ha mai avuto un «Jewish problem»: sondaggi diffusi da Haaretz già prima della visita all'Aipac dimostravano che Obama gode del sostegno della solida maggioranza dell'elettorato di fede israelita (con l'eccezione degli ultra-ortodossi, che come gli evangelici voterebbero comunque repubblicano).
Una spiegazione più convincente la dà, sempre dalle colonne di Haaretz , Shmuel Rosner: «Reclutare il voto ebraico non è un fine bensì un mezzo» scrive il corrispondente da Washington. Il vero obiettivo sono gli americani sospettosi delle credenziali di Obama davanti alla guerra al terrorismo. Il ragionamento è più o meno il seguente: Obama deve convincere gli americani che è un candidato patriottico, che sa distinguere tra buoni e cattivi e che sa mettere i terroristi al loro posto. «E se Obama riesce a convincere gli ebrei che sta dalla parte di Israele», conclude Rosner, «allora potrà convincere gli americani che sta dalla parte giusta».
Intervistato da Arturo Zampaglione per REPUBBLICA, Daniel Pipes esprime scetticismo circa le dichiarazioni di sostegno a Israele da parte di Obama:
NEW YORK - «Sul tema di Gerusalemme capitale Barack Obama si sta arrampicando sugli specchi», dice Daniel Pipes con un tono chiaramente irritato. «E tutto il viaggio del senatore democratico il Medio Oriente non è altro che un tentativo di mascherare le vecchie radici filo-palestinesi per assumere posizioni più centriste in vista dell´appuntamento di novembre e conquistare strumentalmente i voti dell´elettorato ebraico americano». Sono critiche pesanti, queste di Pipes: che però non riflettono soltanto l´irruenza ideologica del direttore del Middle East Forum, un think tank legato ai neocon, ma anche lo stato d´animo della destra. La tournée di Obama è infatti vista dai repubblicani come il fumo negli occhi.
A dispetto delle proteste di John McCain, che accusa la stampa di dare eccessiva attenzione al suo rivale, il senatore afro-americano domina inevitabilmente le cronache elettorali. Nelle immagini televisive che rimbalzano da Amman e Gerusalemme, Obama sembra avere già un look presidenziale, suscitando l´invidia degli avversari. Tra questi anche Pipes, uno degli esperti del Medio Oriente più ascoltati della destra ed ex consigliere di politica estera di Rudolph Giuliani.
Professor Pipes, perché è tanto scettico sulle promesse di Obama per Gerusalemme capitale?
«Dietro allo slogan, che ha ripetuto ieri in Israele, non c´è molta sostanza. Ricordiamoci come sono andate le cose. All´inizio di giugno, dichiarando che Gerusalemme sarebbe dovuta rimanere indivisa, Obama fece innervosire i leader palestinesi. Cercò quindi di correggere il tiro, ammettendo l´errore e spiegando che non voleva né muri né fili spinati in mezzo alla città. Ma sono dichiarazioni vaghe, generiche, non la premessa per una svolta. E non penso, ad esempio, che in caso di elezione abbia intenzione di trasferire l´ambasciata americana da Tel Aviv a Gerusalemme».
Come spiega che Obama sia stato accolto in Israele con tutti gli onori, anche dal leader dell´opposizione di destra Benjamin Netanyahu, se è vero che era legato ad ambienti filo-palestinesi?
«Semplice: tutti sanno che Obama ha buone possibilità di essere eletto presidente degli Stati Uniti e nessuno, né in Medio Oriente né in Europa, è così sprovveduto da respingere una sua richiesta di incontro. D´altra parte nessuno può ignorare che Obama era legato a uomini come Ali Abunimanh, il fondatore della rivista Electronic Intifada.
Non crede che Obama sia sincero nell´affermare la sua amicizia per Israele?
«Non c´è dubbio che il viaggio lo abbia aiutato tra gli elettori filo-israeliani. Ma ricordiamoci anche che siamo a quattro mesi dal voto: è dunque una stagione di politica elettorale, non di politica estera. Le vere scelte si faranno a gennaio, al momento dell´insediamento alla Casa Bianca. Io continuo a essere scettico sulla possibilità di negoziati seri tra Israele e i palestinesi. Comunque quel che vedo è il tentativo di Obama di allargare la sua base elettorale con posizioni più di centro che facciano dimenticare le radici liberal. Ma è una mossa che ha ancora molte ambiguità, non foss´altro perché, a differenza di McCain, che considera il fondamentalismo islamico come il pericolo maggiore del secolo, Obama ha una visione del terrorismo all´acqua di rose».
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