La maschera dell'antisemita Bernard-Henry Levy sul caso Siné
Testata: Corriere della Sera Data: 23 luglio 2008 Pagina: 15 Autore: Bernard-Henry Levy - la redazione Titolo: «Voltaire, Siné antisemiti mascherati - E duemila intellettuali difendono il disegnatore»
Dal CORRIERE della SERA del23 luglio 2008, un articolo di Bernard-Henry Levy: Questa storia è davvero straordinaria. Ecco un umorista — Siné — che dà al proprio giornale un testo in cui in sostanza dice che la conversione al giudaismo, nella Francia di Sarkozy, è un mezzo di riuscita sociale e che preferisce «una musulmana in chador» a «un'ebrea rasata» (sic). Ecco un direttore— Philippe Val — ricordare al cronista il patto fondatore del loro giornale, Charlie Hebdo: il rifiuto categorico di qualsiasi forma di antisemitismo o di razzismo. Poi chiedere, di conseguenza, di scusarsi o di andarsene. Ed ecco la blogosfera, poi la stampa che, al termine di uno sbalorditivo capovolgimento di ruoli, trasformano l'affaire Siné in affaire Val e, invece di stigmatizzare lo sbandamento del primo, si interessano soltanto alle «vere» ragioni, per forza oscure e dubbie, che hanno potuto spingere il secondo, noto seguace di Voltaire, apostolo dichiarato della libertà di critica e di pensiero, difensore in particolare dei caricaturisti di Maometto, a reagire, stavolta, come un censore offeso (la mano della «lobby»? Quella dello stesso Sarkozy?). A questo stadio di confusione, s'impone una messa a punto e, senza collera né entusiasmo, occorre ricordare i semplici principi che, in questo alterco, si tende a perdere di vista. 1) La critica di Voltaire alle religioni, tutte le religioni, è una cosa: sana, ben accetta, utile a tutti e, in particolare, forse, agli stessi credenti. Il razzismo, l'antisemitismo sono un'altra cosa: odiosa, imperdonabile, mortale per tutti e, in nessun caso, la si può confondere con la prima. La distinzione non è così netta in Voltaire che, come tutti sanno, era razzista e antisemita. Dopo Voltaire, la distinzione è netta fra i suoi migliori eredi e, in particolare, nel giornale di Philippe Val. I veri Lumi? I Lumi del nostro tempo? Criticare i dogmi, non le persone. Mangiare preti, rabbini, imam, mai «ebrei» o «arabi ». Essere solidali, certo, con i caricaturisti che prendono in giro il fanatismo e lo denunciano, ma proibire, fosse anche con il pretesto della satira, il minimo compiacimento con le anime glauche che mettono le mani in storie di sangue, di Dna, di geni dei popoli, di razza. È una linea di demarcazione. Cioè, letteralmente, un principio critico. Ed è nello stretto rispetto di questa linea che, in senso proprio, si trova il pensiero critico. 2) Non si tratta di sapere se un tale o un tal altro — in questo caso Siné— «sia» o «non sia» antisemita. E ce ne infischiamo dei brevetti di moralità che pensano bene di concedergli coloro che, come una volta per Dieudonné e ancor prima per Le Pen, dicono di conoscerlo «da tempo» e di sapere «da fonte sicura» che l'antisemitismo gli è estraneo. Quel che conta sono le parole. E quel che conta, al di là delle parole, sono la storia, la memoria, l'immaginario che esse veicolano e da cui sono ossessionati. Dietro quelle parole, un orecchio francese non poteva non udire l'eco del più acre antisemitismo. Dietro l'immagine di un giudaismo onnipotente, l'orecchio francese non poteva non riconoscere l'ombra del nostro primo best-seller antisemita nazionale: Gli ebrei, re dell'epoca di Adolphe Tussenel (1845). È così. Non è una questione di psicologia, ma di acustica, dunque di fisica, di meccanica. E quando vediamo un vecchio umorista — che in effetti forse non sa veramente quel che dice — manipolare significati che hanno sempre, ovunque, con implacabile regolarità, incendiato gli animi, l'atteggiamento giusto non è quello di minimizzare, ma di azionare subito quelli che Walter Benjamin chiamava «segnalatori d'incendio». 3) L'antisemitismo — come, naturalmente, il razzismo — è un delitto che non ammette né circostanze attenuanti né scuse. La cosa dovrebbe andar da sé. Purtroppo, non è il caso. Infatti, c'è almeno una scusa che, dopo l'affaire Dreyfus, sembra funzionare sempre e instaurare una sorta di clausola dell'odio autorizzata. È quella che consiste nel dire: no all'antisemitismo, salvo se si tratta di un borghese importante, di un ufficiale superiore dell'esercito francese. Oppure: no all'antisemitismo, salvo se in gioco c'è un simbolo del Grande Capitale, un banchiere ebreo, un plutocrate, un Rothschild. Oppure: no all'antisemitismo, salvo se può adornarsi dei nuovi abiti di un antisarkozysmo che, anch'esso, non si sofferma sui dettagli e non indietreggia davanti a nulla pur di avere la meglio. Così parlava Alain Badiou quando, in un recente libro (uscito in Italia come Sarkozy: di che cosa è il nome? Edizioni Cronopio 2008, ndt), si basava sulla sua giusta lotta contro l'«immondo » per reintrodurre nel lessico politico metafore zoologiche («i topi»… «l'uomo dei topi»); metafore che Sartre, nella prefazione ai Dannati della terra, aveva dimostrato, senza appello, essere sempre un segno di fascismo. E così pensano oggi non solo gli «amici» di Siné che fanno continue petizioni in suo favore, col pretesto che il Rastignac da lui preso di mira era il figlio del presidente vituperato, ma tutti coloro che sono come immobilizzati e nell'impossibilità di indignarsi: è una vecchia rimanenza di antidreyfusismo; ultima perla abbandonata dal-l'ostrica di un guesdismo (da Jules Guesde, esponente del socialismo massimalista, ndt), secondo la cui dottrina esiste una buona utilizzazione delle peggiori ma-lattie dello spirito. Una miseria, insomma. 4) Se c'è un argomento che ci vergogniamo di dover ascoltare ancora è questo: «Siné è un vecchio libertario, un anarchico attardato, un ribelle. Come pensare che l'uomo sia coinvolto in questo sudiciume? Come confondere la sua rivolta a tutto campo con la passione mirata che è il furore antisemita? ». Appunto. È un argomento penoso, perché ignora tutto delle ambiguità di una tradizione di cui una delle specialità è sempre stata di passare dalla rabbia verso tutto alla sua concentrazione antisemita: gli anarco-sindacalisti dell'inizio del XX secolo; i sostenitori dell'azione diretta che propongono, settant'anni dopo, di «gettare» gli ebrei nel «letame dell'Europa» (Ulrike Meinhoff, dirigente della Banda Baader)… (..) È un argomento penoso, perché lascia credere che un uomo di sinistra, un progressista, sarebbe immune, per natura, dal peggio: ebbene, sappiamo che se il peggio avesse una sola virtù, sarebbe di polverizzare questo tipo di frontiera e di provocare, da sinistra a destra, un incrociarsi semantico permanente e terribile (dalle famose «sezioni bistecca», brune al di fuori e rosse all'interno, nate dall'infiltrazione comunista nelle organizzazioni di massa hitleriane fino al riciclaggio, con l'islamo-gauchismo di oggi, dei ritornelli dell'ultradestra, purtroppo gli esempi non mancano). 5) Un'ultima parola. Bisognerebbe, farfuglia l'opinione pubblica, far attenzione a non cadere nel conformismo di un politicamente corretto, se non di una polizia del pensiero e della risata, il cui unico effetto sarà d'impedire agli umoristi di esercitare il loro libero diritto di prendere in giro tutto e tutti. Va bene. Salvo che, anche qui, bisogna mettersi d'accordo. Soprattutto osare porre la domanda. E se «politicamente corretto» fosse anche il predicato di un discorso e, in questo caso, di un umorismo che si asterrebbe dal razzismo, dall'antisemitismo, dall'invito all'omicidio? E se questa volontà di ridere di tutto e di tutti, tranquillamente, senza ostacoli, esprimesse solo la nostalgia dei bei tempi dello scherzo scurrile, salace, quando nessuno veniva ad attaccar briga se avevate voglia di scagliarvi contro i raton, gli arabi, gli youpin, i giudei, i pédé, i pederasti, e le donne? E se i tempi fossero cambiati e toccasse agli umoristi, non meno che agli scrittori e agli artisti, prendere atto di questo cambiamento, ammettendo che oggi non si ride più né delle stesse cose né nello stesso modo in cui si rideva negli anni 1930 o 1950? (..) Non penso che si sia «fatto troppo» sulla vicenda Siné. Per quanto minuscola appaia, è una delle «secrezioni del tempo » di cui Michel Foucault diceva che sono senza eguali per riflettere, compenetrare il malessere di un'epoca.
Una breve sull'appello a favore di Siné:
Quasi 2 mila firme. In tanti, tra disegnatori, umoristi e intellettuali, hanno levato gli scudi in difesa del caricaturista Siné, storica firma del giornale satirico Charlie Hebdo, licenziato per una rubrica giudicata antisemita che coinvolgeva il figlio del presidente francese Nicolas Sarkozy. «Farà molta strada nella vita questo ragazzo, tutto suo padre» ironizzava Siné, 70 anni, a proposito di Jean Sarkozy e di una presunta conversione di comodo all'ebraismo per convolare a nozze con Jessica Sebaoun, figlia del fondatore dei grandi magazzini Darty. «Ha superato ogni limite; il suo testo diffonde una voce falsa e stabilisce un legame fra conversione all'ebraismo e successo sociale» aveva giustificato il licenziamento Philippe Val, direttore di Charlie Hebdo (la stessa rivista nota per aver ripubblicato le vignette «blasfeme» su Maometto e che fu difesa in quell'occasione proprio da Sarko padre, allora ministro dell'Interno). Ora invece il direttore viene accusato di servilismo nei confronti del presidente, a dispetto dell'«impeto intellettuale» di Siné, dell'umorismo e della sua apertura a tutti, ebrei, arabi o francesi che siano. Tra i firmatari della petizione, i disegnatori Willem, Pétillon, Philippe Geluck, il filosofo Michel Onfray e l'umorista Guy Bedos.
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