Le possibili rappresaglie di Teheran un rapporto del Washington Institute for Near East Policy
Testata: Il Foglio Data: 05 luglio 2008 Pagina: 3 Autore: la redazione Titolo: «Chi attacca l’Iran deve temere il “Giorno del giudizio”»
Da Il FOGLIO del 5 luglio 2008:
Roma. Assieme al filo di voci su un imminente attacco americano o israeliano contro l’Iran, che ogni giorno diventa sempre più lungo e spesso, cominciano a circolare anche le analisi ragionate. Possibili conseguenze. Possibili rappresaglie. Probabilità di successo finale di un bombardamento aereo. Questa settimana è uscito un lungo studio indipendente del Washington Institute for Near East Policy, firmato da Patrick Clawson e Michael Eisenstadt. Spiega che lo scenario da inferno temuto in caso di azione militare contro l’Iran – vendetta immediata, Stretto di Hormuz bloccato a tempo indefinito, crisi globale del petrolio, guerra regionale – potrebbe non essere così vero. Clawson ha subito riassunto il suo paper in un’intervista al quotidiano israeliano Haaretz. “Al contrario dell’impressione che ormai si è consolidata, le opzioni di contrattacco dell’Iran sono deboli e limitate”. Chuck Freilich, ricercatore al Centro Belfer dell’università di Harvard in Scienze internazionali, è sulla stessa linea: “Non dimentichiamo chi ha in mano il bastone più grosso tra Gerusalemme e Teheran: di sicuro non è Teheran”. Il regime non è mai stato così “debole”, sia dal punto di vista militare sia dal punto di vista politico, e la sua capacità di reagire è assai “limitata”. I due del Washington Institute scrivono che Mahmoud Ahmadinejad può esperire numerose forme di rappresaglia, ma gli Stati Uniti e Israele hanno a disposizione una vasta gamma di contromisure. Lo scenario minacciato più spesso dai generali iraniani è lo sbarramento aggressivo dello Stretto di Hormuz, il tratto di mare sottile davanti alle coste dell’Iran: per quel collo di bottiglia naturale passano le petroliere che partono a pieno carico dalle raffinerie mediorientali, con il 40 per cento di petrolio consumato nel mondo. Teheran può interrompere il transito in tanti modi. Con i sottomarini classe Kilo. Con i missili terra-mare sviluppati assieme ai nordcoreani, armi perfette nel loro ruolo, con tecnologia pari a quella americana: capaci di filare a pelo d’acqua per più di cento chilometri – riducendo quasi a zero le probabilità di essere intercettate – e di colpire la linea di navigazione della nave bersaglio (per affondarla in un colpo) con un quintale di esplosivo ad alto potenziale. Si tratta di un vettore già provata in combattimento da Teheran: sparato dalla costa di Beirut, durante la guerra con Hezbollah nell’estate 2006, ha quasi affondato una nave da guerra israeliana. E ancora. Con barchini suicidi. Con speciali mine cinesi, che aspettano in profondità il passaggio delle navi cisterna e al momento opportuno risalgono in linea retta verso la superficie, piombando sulla chiglia a più di settanta chilometri all’ora. Lo sbarramento nello Stretto scatenerebbe un ovvio effetto panico sui mercati finanziari e del greggio, che però non durerebbe a lungo. Gli autori calcolano che gli Stati Uniti possono ripulire dalle mine loquestretto e interdire il controllo iraniano, sottomarini, missili costieri e barchini suicidi, in circa un mese. Le petroliere, aggiungono i due, sono costruite con sezioni larghe e compartimenti stagni, poco affondabili (questo argomento alle orecchie degli equipaggi non suonerà convincente fino in fondo). E, soprattutto, il blocco dello Stretto di Hormuz strozzerebbe lo stesso traffico di petrolio iraniano, togliendo loro la più importante risorsa nazionale. Sarebbe un suicidio economico. Quanto può permettersi di resistere l’Iran in apnea petrolifera? Privo del petrolio iraniano, è verosimile che il mercato saprebbe comunque autocompensare: gli altri produttori del Golfo non hanno ancora raggiunto la loro capacità massima di produzione, compresi i due più grossi, Arabia Saudita e Emirati Arabi Uniti. A loro si sta per aggiungere l’Iraq, che dopo anni di embargo possiede giacimenti ancora intoccati. Assieme possono produrre la quota mancante e colmare il vuoto iraniano. Saprebbero anche calmare il mercato, che già ora è capace di assorbire choc durissimi. Un’analisi pubblicata tre anni fa disegnava scenari “impressionanti” in caso di attacco aereo sull’Iran: “Il petrolio potrebbe toccare quota ottanta dollari il barile”. Oggi è a centoquaranta. Nello stesso periodo, la Guida suprema Ali Khamenei diceva all’allora ministro degli Esteri tedesco, Joschka Fischer, che l’occidente non oserà mai agire contro il programma atomico iraniano perché non potrebbe tollerare il barile a centoquaranta dollari. Ci siamo già L’Iran potrebbe attaccare gli interessi americani in Iraq, moltiplicando addestramento, finanziamento e rifornimento di armi ed esplosivi per i suoi “Gruppi speciali”, i sabotatori filoiraniani che fanno la guerriglia contro i soldati del generale Petraeus. Sono loro che dallo slum sciita di Sadr City lanciano razzi e mortai sulla Zona Verde. La scorsa settimana le basi americane in Iraq hanno già avuto l’ordine di rafforzarsi in caso di un attacco israeliano sull’Iran e di una possibile rappresaglia. Fino a oggi – dicono gli osservatori – Teheran ha scelto di non spingere a fondo le sue capacità di aggredire gli americani in Iraq, preferendo una lenta strategia di dissanguamento. Epperò la gran parte dei rifornimenti per la Coalizione arriva dal Kuwait e passa per il “corridoio sciita” del sud, l’area sotto influenza iraniana: quella direttrice è come una giugulare, esposta e vulnerabile. L’Iran potrebbe chiedere a Hezbollah di attaccare Israele con lanci di razzi, guadagnando punti agli occhi delle piazze arabe e distruggendo il processo di pace con i palestinesi. L’Iran ha investito molto in Libano proprio per questo scopo: Hezbollah, con il suo arsenale di trentamila razzi e la sua milizia ben addestrata, è un elemento centrale della strategia di deterrenza iraniana. Il Partito di Dio, tuttavia, questa volta potrebbe essere riluttante a sacrificare tutte le conquiste recenti nella politica di Beirut per un’altra guerra contro Israele – che non esiterebbe a rispondere con durezza – e contro i suoi alleati a Washington. L’Iran potrebbe anche decidere di attaccare Israele in prima persona. Potrebbe tentare l’affondo contro il punto più vulnerabile: il reattore nucleare civile di Dimona, già preso di mira da Saddam Hussein con i suoi missili Scud nel 1991 durante la Guerra del golfo. Ma da allora le contromisure israeliane – dicono Clawson e Eisenstadt – sono “presumibilmente” migliorate. Lo scenario più difficile da prevedere e battere è il piano “Giorno del giudizio”, la grande campagna di terrorismo di stato che gli iraniani hanno preparato negli anni e ora tengono in sospeso, pronti a scatenare cellule in sonno in ogni parte del mondo. Terroristi con affiliazione più o meno diretta con il regime attaccheranno bersagli in medio oriente, in Europa e persino negli Stati Uniti. Chi bombarda l’Iran dal cielo, deve mettere in conto anche raid antiterrorismo preventivi contro il network alle dipendenze di Teheran. I due elencano le possibili ritorsioni iraniane, ma sottolineano anche che Teheran è un attore razionale sulla scena della politica internazionale e sa valutare appieno il costo (altissimo) delle sue azioni. Al netto della sua retorica da Armageddon, il regime non è immune alla deterrenza strategica e potrebbe non essere così volenteroso (come invece ostenta) di accelerare la fine dei tempi. Dopotutto, Stati Uniti e Iran si sono scontrati già quattro volte nel passato recente. Durante la preparazione del raid militare su Teheran per liberare gli ostaggi dell’ambasciata, Washington era così preoccupata di possibili ritorsioni che evacuò novecento funzionari e le loro famiglie dalle ambasciate sparse nel mondo islamico. Ma dopo il clamoroso fallimento del raid, fermatosi in mezzo al deserto, il regime si limitò alla solita retorica ostile e zittì le manifestazioni popolari. Nel 1987, durante la fase finale della guerra tra Iran e Iraq, gli Stati Uniti distrussero due piattaforme petrolifere usate dai pasdaran per attaccare le rotte delle petroliere, ma quell’operazione, “Earnest Will”, non provocò alcuna reazione diretta. Nel luglio 1988 l’incrociatore Uss Vincennes, credendo di essere sotto attacco, lanciò per errore un missile contro un aereo di linea iraniano. Morirono 290 passeggeri. La risposta della piazza fu rabbiosa, ma i leader a Teheran si limitarono ad accettare un risarcimento in denaro offerto prontamente dagli Stati Uniti. In un solo caso le forze navali iraniane ingaggiarono battaglia con gli americani, nell’aprile 1988, dopo le solite scaramucce nelle acque dello stretto. Furono affondate quasi totalmente. Clawson e Eisenstadt sostengono che l’attacco ha maggiori probabilità di successo se sarà condotto dagli Stati Uniti, e non da Israele, anche se i rumors di guerra pendono di più per quest’ultima possibilità. L’intervento di Gerusalemme, avvertono, potrebbe degradare una questione globale a mero conflitto regionale, ed è probabile che molti paesi sceglierebbero di riflesso di schierarsi contro Israele. L’antipatia antiisraeliana potrebbe pure consentire all’Iran di riprendere con ancora meno controlli il proprio programma. Inoltre, la responsabilità del raid di Israele sarebbe in ogni caso fatta ricadere sugli Stati Uniti, che si troverebbero a dover fronteggiare la reazione a un’azione altrui. Infine, un raid americano ha più probabilità di infliggere danni definitivi di un raid israeliano. L’Iran ha risposto ieri all’offerta di incentivi del gruppo dei “5+1” in una lettera indirizzata all’Alto rappresentante per la politica estera europea, Javier Solana, che il mese scorso aveva consegnato alle autorità iraniane una proposta di compromesso sulla crisi del programma nucleare di Teheran. A firmare la lettera consegnata a Solana dall’ambasciatore iraniano a Bruxelles è stato il ministro degli Esteri iraniano, Manouchehr Mottaki, che ha dichiarato che questa volta “l’approccio è differente rispetto al passato”. Ma la proposta “congelamento delle sanzioni contro congelamento dell’arricchimento dell’uranio” per ora ha gambe troppo corte, soltanto sei settimane, per uscire dalla solita routine di negoziati prenditempo tentata fino a oggi da parte iraniana.
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