L'ebraicità di Henry Kissinger, chiave di lettura della sua vita ? lo sostiene lo storico Jeremi Suri in un saggio recensito da Nial Ferguson
Testata: Corriere della Sera Data: 27 giugno 2008 Pagina: 42 Autore: Nial Ferguson Titolo: «L'ebraismo di Kissinger»
Dal CORRIERE della SERA del 27 giugno 2008:
Sostenere che Henry Kissinger sia stato il più controverso segretario di Stato americano del Ventesimo secolo, sarebbe un eufemismo. In questi ultimi anni, passando da una lettura all'altra su quest'argomento, si è rafforzata sempre più la sensazione che provai, a suo tempo, sfogliando i libri sulla famiglia Rothschild. Nel Diciannovesimo secolo, se una banca elargiva prestiti ai regimi conservatori o ai Paesi impegnati in guerra, nessuno sembrava accorgersene. Se a farlo erano i Rothschild, però, ecco che i pamphlettisti scatenavano un coro quasi unanime di indignazione. In realtà, non basterebbero le librerie di questo mondo per contenere tutte le infuocate invettive contro i Rothschild sfornate dai precursori vittoriani dei Christopher Hitchens, dei Seymour Hersh e compagnia bella. Il che solleva un interrogativo: è possibile che la ferocia delle critiche che Kissinger ha attirato su di sé sia legata al fatto che, come i Rothschild, egli è ebreo? (Con ciò non si vuole affatto insinuare, badate bene, che i critici di Kissinger siano antisemiti. Alcuni dei più accaniti detrattori dei Rothschild erano ebrei, infatti, e lo stesso vale per Kissinger). Nel suo saggio « Henry Kissinger and the American Century », recentemente pubblicato dalla Harvard University Press, Jeremi Suri fa dell'ebraicità di Kissinger la chiave di lettura della sua vita, tracciando così un affresco che spicca, tra le più recenti pubblicazioni sull'argomento, per la corposità e lo spessore della ricerca. Diversamente da Hitchens (per non parlare di Robert Dallek e Margaret MacMillan, due altri scrittori che hanno recentemente pubblicato scritti assai critici verso Kissinger), Suri ha approfondito seriamente l'argomento prima di dare alle stampe il suo saggio. L'autore cita i documenti di ben sedici collezioni d'archivio, e le 67 pagine di note sono un modello di rigore accademico. Detto questo, non posso non svelare il mio conflitto d'interessi: attualmente sto lavorando a una biografia di Kissinger che attinge (in parte) ai carteggi privati custoditi alla Biblioteca del Congresso, cui Suri non ha potuto accedere. Ebbene, spero che questo dia credito, e non il contrario, al giudizio positivo che qui esprimo. Pur non condividendo tutte le conclusioni cui giunge Suri, non posso che rendere onore alla sua preparazione e al suo acume intellettuale. Il suo è senz'altro il migliore saggio su Henry Kissinger sinora pubblicato. E, a differenza di una pletora di biografi che l'hanno preceduto, in particolare i giornalisti marchiati a fuoco dall'amministrazione Nixon, Suri tenta seriamente di calare l'oggetto della sua ricerca nel giusto contesto storico, non limitandosi a dare man forte alla caccia alle citazioni a effetto. Le origini ebraiche di Kissinger, sostiene Suri, offrono una chiave per comprendere sia l'uomo, sia il giudizio che il mondo gli ha riservato. Kissinger, scrive l'autore in una delle stoccate più significative, era un po' «un incrocio tra l'Ebreo di Corte e l'Ebreo di Stato: quello che potremmo azzardarci a definire un "ebreo politico"». Il saggio tratteggia l'ascesa del protagonista dalle aule universitarie alle stanze del potere, dopo aver «sgobbato» per i gentili: prima il suo tutore ad Harvard, William Elliott, poi McGeorge Bundy, Nelson Rockefeller, Nixon e infine il successore di quest'ultimo Gerald Ford (al cui riguardo, come quasi tutti gli altri biografi di Kissinger, Suri è sin troppo laconico). Ma l'ebraicità di Kissinger assume un'importanza ben maggiore. Stando all'analisi di Suri, fu l'adolescenza ebreo-tedesca di Kissinger — che nacque nel 1923, all'apice dell'iperinflazione di Weimar, aveva appena 10 anni quando Hitler salì al potere e 15 quando emigrò con la famiglia negli Stati Uniti, nel 1938 — a gettare le basi di una visione nettamente pessimistica del mondo. «La vita è sofferenza, la nascita racchiude la morte», scriveva Kissinger in una straripante tesi di laurea discussa ad Harvard, intitolata Il Significato della Storia: «La precarietà è il destino dell'esistenza. Nessuna civiltà, finora, si è rivelata eterna, nessuna ambizione è stata pienamente realizzata. È questa la necessità, la fatalità della Storia, il dilemma della mortalità». L'influsso di Oswald Spengler, suggerisce Suri, instillò in Kissinger il timore di «un ritorno alla violenza, al caos e al collasso della Germania di Weimar». Quando varcò l'ingresso della Casa Bianca in veste di consigliere per la Sicurezza nazionale di Nixon, Kissinger era carico di cattivi presagi, e prevedeva quattro anni di «disordini in patria, crescenti tensioni all'estero». Il che, spiega Suri, aiuta a comprendere come mai Kissinger attribuisse un ruolo tanto cruciale alla guerra in Vietnam. La vera rivoluzione che Kissinger doveva realizzare non investiva tanto la grand strategy, quanto la sfera politica nazionale. Come disse egli stesso in uno dei tanti discorsi pronunciati tra il 1975 e il 1976, il suo scopo principale era quello di «porre fine all'autoflagellazione che tanti danni ha inflitto alle capacità della nazione in politica estera». E in questo, a conti fatti, ha fallito. Anzi, l'autoflagellazione dell'America toccò il culmine durante la presidenza di Jimmy Carter. Jeremi Suri ben si guarda dall'emettere un giudizio lapidario sulla «rivoluzione» di Kissinger. Non spiega fino a che punto i benefici strategici della distensione con i nemici di ogni risma abbiano controbilanciato i costi per la nazione. Anzi, lascia in sospeso quasi tutti i più importanti interrogativi sulla grand strategy di Kissinger. In compenso, però, offre un preziosissimo scandaglio nel passato di uno statista americano che, rispetto ai suoi predecessori, è stato indubbiamente bersaglio di una dose sproporzionata di critiche. Fino a che punto l'ebraicità di Kissinger rappresenti la vera chiave di lettura delle sue più profonde motivazioni, resta tuttora oggetto di dibattito. (Per quel che mi riguarda, preferirei considerarlo prima e soprattutto uno storico, un membro della ristretta e prestigiosa cerchia di intellettuali vecchio stile, che finiscono per vestire i panni di strateghi politici nell'hic et nunc). Ma una cosa è certa: essa spiega, almeno in parte, i veleni di cui quest'uomo è stato vittima.
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