Il CORRIERE dell SERA del 27 giugno 2008 pubblica la seguente foto per illustrare il testo che lo scrittore israeliano Amos Oz leggerà al Teatro Dal Verme di Milano per la «Milanesiana ».
La foto è accompagnata dalla seguente didascalia:
Un giovane ebreo legge la Torah mentre i fuochi della rivolta bruciano nelle strade di Gaza (foto Peter Turnley / Corbis)
Israele si ritirata completamente da Gaza, quindi la foto non potrebbe comunque riferirsi alla situazione attuale. Indipendentemente da questo, la situazione descritta è ben poco credibile. "Mentre i fuochi della rivolta" palestinese "bruciano nelle strade di Gaza"infatti, è ben difficile immaginare un ebreo fermo a leggere la Torah, a rischio di essere aggredito e forse ucciso.
Che cosa rappresenta davvero l'immagine ? Forse la scena dei soccorsi dopo un attentato terroristico (l'organizzazione ortodossa Zaka interviene sulla scena degli attentati per raccogliere i resti delle vittime e dar loro sepoltura) O forse una scena costruita ad arte ?
Il CORRIERE si è preoccupato di verificare l'attendibilità dell'immagine e della didascalia prima di pubblicarle ?
Ormai, la produzione di immagini manipolate e talora completamente false è nota. E' stata ampiamente analizzata e documentata, soprattutto sun internet e soprattutto riguardo al conflitto israelo-palestinese. Sarebbe lecito aspettarsi un certo grado di accortezza da parte del più diffuso quotidiano italiano.
Di seguito, l'articolo di Amos Oz:
Immaginate un paesino alle pendici di un vulcano sul punto di eruttare. Il vulcano trema e sussulta tutta notte, emette fumo e scintille, borbotta e rimbomba e, di tanto in tanto, scaraventa sul paesino massi incandescenti.
Qui, nel paesino, c'è una donna a letto che non riesce a dormire. Non perché abbia paura del vulcano, ma perché avverte che suo figlio, sedicenne, nella camera accanto, si rivolta nel letto, insonne.
Il ragazzo non riesce a dormire non perché sia angosciato per via del vulcano, bensì perché nutre delle fantasie sulla vedova che abita in fondo al viottolo. E la vedova rimane anch'essa sveglia tutta notte, non perché tema il vulcano, ma perché la sua giovane figliola frequenta un uomo che ha il doppio della sua età. E anche questo vecchio è sveglio, non perché il vulcano sia prossimo all'eruzione, ma perché desidera con tutte le sue forze essere eletto nel consiglio comunale e ha poche speranze di farcela.
Signore e signori, lo scenario ritrae Israele in periodo di guerra, in un periodo di territori palestinesi occupati, di minacce che Israele venga distrutto, di kamikaze, di colonie, di paura esistenziale. Nonostante ciò, la vita di tutti i giorni, la vita quotidiana va avanti, continua di anno in anno con tutto il suo prosaico squallore e la maestosità della sua eroica forza. Uomini e donne innaffiano le piante, crescono i figli, sognando di comprare una nuova automobile o una nuova casa, litigano con la banca, spettegolano sui vicini di casa, e vanno dal dentista per farsi otturare i denti.
Ma lo scenario non è solo un ritratto di Israele dal giorno in cui fu fondato nel 1948 fino a oggi. È altresì una rappresentazione della stessa condizione umana. Noi tutti, ovunque, viviamo davvero alle pendici di un vulcano attivo. Forse il vulcano mediorientale è più attivo di quello europeo, ma ogni essere umano, in ogni luogo ed epoca, vive a stretto contatto con la disperazione, la paura, la catastrofe. Solitudine, delusione, fallimento, alienazione, disgrazia, malattia, vecchiaia, declino e morte sono in agguato, per tutti noi, appena fuori dalle mura di casa nostra.
Nonostante ciò, il vulcano non controlla le nostre vite, e noi non possiamo permetterglielo. Le nostre notti pullulano sempre — ed è meglio che sia sempre così — di desideri, di ambizioni, di ogni genere di progetti e calcoli, di piccole speranze e delusioni, di preparativi per il giorno successivo, di passioni segrete, e di una grandissima preoccupazione per coloro che amiamo. Tutte le notti sogniamo i nostri ridicoli, confusi e struggenti sogni. E tutto questo è stato, è, e continuerà a essere al centro della letteratura della commedia umana (tralascio per il momento quel tipo di scrittura letteraria che ha perso interesse per la nostra tragica farsa, abbandonando il paese ai piedi del vulcano preferendogli una Disneyland in cui scorrazzare su montagne russe verbali).
Ora immaginiamo che, nel paesino alle pendici del vulcano, oltre alla vedova e alla figlia, al ragazzo e all'uomo politico, ci viva uno scrittore. Cosa farà lo scrittore durante queste notti rischiarate dalle flebili fiamme del magma?
Finché la donna resterà sveglia, il ragazzo in preda alle sue fantasticherie si rivolterà nel letto, e il candidato percorrerà a grandi passi il tragitto dalla finestra alla porta, al nostro scrittore non mancheranno di certo gli argomenti. Quand'ero ragazzo a Gerusalemme, avevamo un parlamento di quartiere. Con questo intendo dire che coloro a cui piaceva parlare e discutere si riunivano ogni sera nella drogheria d'angolo del signor Auster. Fra i membri di questo parlamento di quartiere, c'erano gli ideologi e gli ideofili, e c'era anche un rilegatore di libri il quale aveva elaborato una dettagliata teoria utopica del comunismo erotico globale. Tutti, uomini e donne, sarebbero stati disponibili a concedersi a chiunque li volesse, e così l'odio, la gelosia, la rivalità, le guerre e i pregiudizi sociali sarebbero svaniti dalla terra una volta per tutte. Il nostro ideologo espose questa idea in lunghe epistole che inviò a Stalin, e in copia al Papa, a Roma, e al Mahatma Gandhi in India. Tuttavia, ogni volta che doveva pronunciare la parola «donna» o «gambe» diventava tutto rosso in viso e cominciava a balbettare. C'era anche un giovane nazionalista che giurò di uccidere con le proprie mani l'Alto Commissario inglese a Gerusalemme, anche se una volta era svenuto nella drogheria del signor Auster alla vista del sangue che colava dal naso della moglie di quest'ultimo.
Non saremo mai a corto di argomenti per la letteratura. Ebbene, la domanda è: lo scrittore del paesino sotto il vulcano ha forse anche qualche responsabilità di carattere morale, sociale o politica? È tenuto ad alzare la voce in segno di protesta? Ogni giorno? Tutto il giorno? O magari solamente una volta alla settimana?
Forse potrei metterla in questi termini: uno scrittore lavora con le parole. Da mane a sera è circondato dalle schegge e dalla segatura del linguaggio, proprio come lo è un falegname dai vapori del legno e della colla. Ciò impone allo scrittore una responsabilità nei confronti del linguaggio. In ogni luogo in cui quelle parole cariche d'odio vengono brandite come un'accetta contro particolari gruppi di esseri umani, si materializzerà un'accetta vera e propria. Lo scrittore può fungere da vigile del fuoco del linguaggio, o almeno da rivelatore di fumo. Può farlo, e di conseguenza è tenuto a farlo.
Ecco un esempio che mi riguarda personalmente: le parole «cosmopolita», «parassita», e «intellettuale distaccato» sono etichette spregiative che venivano usate sia dai nazisti che dai comunisti. Mio padre e mia madre, i miei nonni e le mie nonne, erano perlopiù proprio così. Erano intellettuali europei cosmopoliti. Sia per i nazisti che per i comunisti erano anche dei parassiti, e così negli anni Trenta i miei nonni e i miei genitori furono cacciati dall'Europa. Furono cacciati con disgusto, poiché in quegli anni, la mia famiglia, e altri ebrei come loro, erano gli unici europei in tutta Europa. Tutti gli altri erano patrioti lettoni o serbi. In quegli anni, ovunque in Europa i muri erano ricoperti di scritte piene d'odio su cui si leggeva: «Ebrei tornatevene in Palestina », proprio come oggi le stesse mura sono ricoperte di scritte piene d'odio su cui si legge: «Ebrei fuori dalla Palestina». A dire il vero, la mia famiglia fu davvero molto fortunata a essere cacciata dall'Europa. Se i miei famigliari non li avesse sbattuti fuori l'Europa negli anni Trenta, li avrebbe sterminati la Germania negli anni Quaranta.
I miei genitori e i genitori dei miei genitori non affondarono con il Titanic che era l'Europa degli anni Quaranta. No. Erano stati buttai giù dal transatlantico senza tanti complimenti negli anni Trenta, quando tutte le luci su tutti i ponti brillavano ancora, e in tutti i saloni tutti gli altri passeggeri, quelli non ebrei, erano ancora lì a mangiare, a bere e a ballare. Gustavano piatti ordinati dal menu culturale che anche gli ebrei avevano contribuito a preparare. Ballavano al ritmo di musica in parte composta da ebrei.
Cosmopoliti. Parassiti. Intellettuali distaccati. Uno dei compiti dello scrittore è quello di alzarsi in piedi e dare l'allarme ogni volta che la lingua, che è la sua cassetta portautensili, viene corrotta. Ogni volta che la gente si riferisce a un gruppo etnico o religioso o di altro genere definendolo «feccia » o «cancro» o «una minaccia strisciante», lo scrittore ha il dovere di alzarsi in piedi e — quanto meno — suonare la sirena d'allarme del paesino.
(...) Un uomo di Gerusalemme dovrebbe fare particolare attenzione a non cercare di profetizzare. C'è una concorrenza spietata a Gerusalemme nel settore delle profezie. Ciò nonostante, questa sera correrò il rischio e rivelerò una sola profezia: quando arriverà il giorno — ed è già meno lontano di quanto pensiate — della pace tra Israele, Stato degli ebrei e Stato di tutti i suoi cittadini, e la Palestina — quando questo giorno arriverà, noi saremo in grado di annoverare fra coloro che hanno costruito i ponti della pace un gruppo di scrittori israeliani e palestinesi che, nemmeno per un minuto, nemmeno nel bel mezzo degli spari, del sangue e della violenza, hanno desistito dall'immaginare l'altro e chiedersi: come mi sentirei, se fossi dall'altra parte?
Vi dico che quel giorno non è più lontano. Dato che tutti voi sentite brutte notizie dalla mattina alla sera, sono venuto qui oggi per portarvene una bella: la grande maggioranza di ebrei israeliani e di arabi palestinesi è già pronta per un compromesso pragmatico e per una soluzione a due Stati. Pronta — non felice. Sia in Israele che in Palestina, una settimana dopo l'altra, i sondaggi rivelano che il paziente — israeliano e palestinese— è pronto, senza particolare entusiasmo, all'operazione volta a creare due Stati confinanti. Il paziente si è già più o meno rassegnato alla necessità dell'intervento — invece sono i dottori a essere fifoni. Con «dottori» intendo i capi di entrambe le parti.
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