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Corriere della Sera - La Stampa - Il Giornale Rassegna Stampa
08.05.2008 Il boicottaggio antisraeliano, l'intolleranza, la letteratura
le opinioni di Alessandro Piperno, Arrigo Levi, Abraham B. Yehoshua e Stefano Zecchi

Testata:Corriere della Sera - La Stampa - Il Giornale
Autore: Alessandro Piperno - Arrigo Levi - Abraham B. Yehoshua -Stefano Zecchi
Titolo: «Viaggio (da brivido) nella mente di un boicottatore - Israele i libri e la libertà - Ho una sola guerra la letteratura - Israele, il Paese fondato sulla Bellezza»

 Dal CORRIERE della SERA dell'8 maggio 2008, un editoriale di Alessandro Piperno:

Non pensare con il corrimano! Trovo questa espressione di Hannah Arendt un modo delizioso per dare conto di un pensiero capace di sottrarsi alla noia e alla banalità di un itinerario prestabilito. Una disciplina superiore alle mie forze. Il massimo che mi si può chiedere è di cambiare corrimano: è da giorni che provo a seguire quello di chi ha deciso di boicottare il salone: di chi vorrebbe impedire a un bel numero di scrittori di presentarsi al pubblico italiano.
E allora mi dico: forse non era opportuno festeggiare con tanta pompa il compleanno di uno Stato imperialista, violento, illiberale, oppressore, stragista. Forse è stato un atto di arrogante cecità non pensare che questa potesse essere l'occasione giusta per invitare anche gli scrittori palestinesi. Per metterli tutti a un tavolo, farli discutere. Eppoi basta con questo ricatto dell'Olocausto. Per quanto tempo ancora dovremmo compatire gli ebrei? Anche la compassione avrà una sua data di scadenza. O no? La cosa incresciosa è che proprio loro che hanno così sofferto ora si comportino come assassini. Ma hanno davvero sofferto? Non sarà che qualcuno ci ha ricamato un po' sopra? Non dico che si tratta di una montatura. Però è un bel po' sospetta tutta questa pubblicità. Sono morti un sacco di zingari, di omosessuali, di russi. Ma solo gli ebrei hanno preteso questo bel risarcimento. A considerare la potenza di fuoco degli ebrei oggi, la loro capacità di influenzare l'opinione pubblica, ti viene persino il sospetto che, al postutto, ci sia qualcosa di vero perfino nei tanto vituperati Protocolli degli Anziani di Sion. Pensate a come gli ebrei controllano le amministrazioni americane! Lo sanno tutti che George W. Bush è un fantoccio nelle mani degli ebrei. Che i neocon sono tutti ebrei razzisti pieni di risentimento contro gli arabi. Altro che democrazia da esportare. Vogliono sterminare tutti gli arabi della terra. Ecco l'unico progetto in cantiere. Se dipendesse da loro sgancerebbero un paio di bombe atomiche sui territori occupati. Sono loro i grandi protettori del progetto imperialista degli israeliani. Sono loro che da sessant'anni li proteggono come un padre ricco e arrogante protegge un figlio assassino. E noi cosa facciamo? Gli organizziamo pure un bel compleanno? Ma dai!
Qualcuno penserà che questo viaggetto nella mente di un boicottatore sia triviale e capzioso. Qualcuno penserà che ho offerto solo la grottesca parodia del tipico discorso del boicottatore. La verità è che mi sono attenuto scrupolosamente alla prassi dei loro pensieri e dei loro volantini. Così pensano. Adorano gli slogan. Adorano indignarsi, marciare, urlare, incendiare; adorano esibire facce sdegnate. Ma se tu scavi, se tu provi a vedere quello che c'è dietro, quello che c'è sotto, allora scorgi questo abisso di risentimento, di pregiudizio, di estetizzante frivolezza, di cocciuta ideologia in cui non finiranno mai di crogiolarsi, e senti la schiena corsa da un brivido di paura.

Da La STAMPA, un articolo di Arrigo Levi:

La maggior parte degli scrittori israeliani, certo i più famosi tradotti in tutto il mondo, diversi dei quali saranno da oggi a Torino per la Fiera del Libro, sono uomini di pace. Quasi tutti - romanzieri, storici, giornalisti - sono fautori di una politica di più audace apertura al negoziato e di più generosa disponibilità alle concessioni da farsi ai palestinesi per arrivare alla pace, di quanto non sia il governo oggi in carica a Gerusalemme. L’idea di boicottare la Fiera, che celebrerà gli scrittori israeliani insieme con tanti altri scrittori d’ogni parte del mondo, che celebrerà insomma, come tutti gli anni, l’idea stessa del «Libro» come strumento di civiltà, quale è per sua natura, è quindi un’idea non soltanto incivile ma stupida.
Dispiace dirlo: ma gli stupidi fautori del boicottaggio (anche i «grandi intellettuali» possono essere stupidi) combattono quello che dicono di volere, cioè la nascita, accanto allo Stato d’Israele, creato 60 anni fa per volontà delle Nazioni Unite, di uno Stato palestinese: sola vera garanzia, secondo la maggioranza degli stessi israeliani, dell’esistenza e sopravvivenza d’Israele.
Lo Stato d’Israele, e il faticoso cammino intrapreso verso la meta sognata della pace, possono certo sopravvivere a tanta manifestazione di insipienza. Così come possono fare a meno di alcune manifestazioni non necessarie e fin troppo zelanti di solidarietà, che, non so perché, suscitano in me un certo, forse immotivato fastidio: lo stesso che provo quando incontro quelli che mi dicono che gli ebrei sono più bravi, più intelligenti, più più di tutti gli altri. Troppe lodi mi fanno correre sotto pelle un brivido, come fossero una conferma che mi si considera, in quanto ebreo, un «diverso». Grazie della solidarietà: ma Israele non è sopravvissuto, fino ad oggi, in virtù del sostegno altrui. È sopravvissuto al testardo, controproducente e ancor vivo rifiuto di fare la pace da parte di chi si oppone alla sopravvivenza stessa d’Israele, grazie, fondamentalmente, alla sua altrettanto testarda volontà di vivere, di sopravvivere.
Fra pochi giorni, il 15 maggio, Israele potrà celebrare il sessantesimo anniversario della sua nascita perché sessant’anni fa vinse la sua prima guerra, e poi diverse altre. E vinse quella prima guerra, contro uno schieramento di eserciti apparentemente imbattibile, proprio perché personaggi come l’allora Segretario Generale della Lega Araba, che si chiamava Abd al Rahman Pascià, l’avevano annunciata come «una guerra di sterminio, un terribile massacro, paragonabile alle stragi mongole e alle Crociate». Questa non ci parve una buona idea.
Accade che io sia ormai uno dei pochi ancora in vita fra i giovani ebrei italiani che decisero allora di partire per quella guerra, anche se non erano programmaticamente «sionisti», perché francamente, dopo la Shoah, ci sembrava un po’ troppo che si pensasse di massacrare anche quei seicentomila ebrei che stavano mettendo in piedi una specie di Stato ebraico in Palestina, dopo duemila anni di esodo e di persecuzioni. Ci sembrò, d’istinto, che se davvero anche loro fossero stati «gettati a mare», come promettevano a gran voce tutti gli Stati arabi, non sarebbe valsa la pena di continuare a vivere: già ci sentivamo quasi in colpa per esserci salvati dalla Shoah.
I ricordi di quell’anno di guerra, e di come e quando finì, sono ancora molto nitidi nella mia mente. E dà quasi una stretta al cuore ricordare l’entusiasmo di quella notte di fine anno del ’48, quando ebbe inizio l’ultima tregua, e noi della «Brigata del Negev», che ci eravamo appena ritirati dal territorio egiziano, al di qua del confine segnato dall’Onu, ci lasciammo andare a eccessive manifestazioni d’entusiasmo, abbracciandoci e brindando con succo d’arancia, perché era arrivata, finalmente, la pace! Come eravamo ingenui! Ma pensavamo davvero che fatta la guerra, e visto che l’avevamo miracolosamente vinta, ci sarebbe stata, come di solito si usa dopo le guerre, la pace, che avrebbe permesso a tutti i miei compagni israeliani di tornarsene a casa ai loro lavori, e a me, come poi accadde, di seguire la mia stella di giornalista italiano in giro per il mondo. Purtroppo (anche per loro), i palestinesi, che avrebbero potuto mettere subito in piedi un loro Stato, e gli arabi in generale, dissero no e no e no, no al negoziato, no al riconoscimento d’Israele, no alla pace.
E qui ci ritroviamo, sessant’anni dopo, ancora senza la pace, e alla mia età comincio a disperare di vederla mai. Penso al giorno del novembre ’92 in cui, a Roma, mi toccò con gioia di presentare il libro dell’israeliano Mark Heller e di quel grande intellettuale palestinese che era ed è Sari Nusseibeh, che da allora fu mio amico, oggi presidente dell’Università araba di Gerusalemme, che s’intitolava: Israele e Palestina - Il piano per la pace fra due Stati sovrani. Condividevo il loro piano e le loro speranze. Di Nusseibeh ho letto da poco, con stringimento di cuore, e con spirito di piena solidarietà, il suo ultimo, bellissimo libro di memorie, uscito in America col titolo Once upon a country (C’era una volta un Paese). Come vorrei che ci fosse, come vorrei che nascesse un Paese chiamato Palestina, accanto a quell’altro Paese chiamato Israele.
Ma il Signore Iddio, che è poi lo stesso degli uni come degli altri, non potrebbe, una volta tanto, provare a usare un po’ della sua presunta onnipotenza, non per punire i malvagi (e talvolta anche gli innocenti), che sembra sia la Sua specialità, ma per incoraggiare e premiare gli uomini di pace, che ci sono di qua come di là?
O forse aveva ragione Giovanni Paolo II quando diceva che, concedendo agli uomini il libero arbitrio, Nostro Signore aveva rinunciato all’onnipotenza. E se non confidiamo in Dio, che cosa ci resta? Confidiamo nella forza dei Libri: uno che appartiene al «popolo del Libro» non può abbandonare anche quest’ultima speranza.

Un articolo di Abraham Yehoshua, sempre da La STAMPA

Qualche settimana fa una folta rappresentanza di scrittori israeliani si è recata alla Fiera del Libro di Parigi della quale Israele era il paese ospite. Compiere un viaggio aereo con trentacinque colleghi israeliani e soggiornare tre giorni con loro in un albergo comporta il ricorso a notevoli e raffinate doti diplomatiche. Alla Fiera abbiamo lavorato duro: siamo passati tra i vari stand, abbiamo concesso interviste, abbiamo difeso un po' Israele e lo abbiamo criticato un po', abbiamo partecipato a convegni e a incontri con i lettori. La settimana scorsa ho preso parte al Pen festival di New York assieme ad altri centosettanta scrittori provenienti da paesi diversi. Anche lì ci sono stati impegni, appuntamenti, letture in pubblico, cocktail, seminari. Tra poche settimane mi recherò a Cracovia, al festival della cultura ebraica che si tiene in quella bella città polacca, e nemmeno lì mi saranno risparmiate interviste, incontri, conferenze. A giugno sarò a Milano per La Milanesiana e oggi sarò presente alla Fiera del Libro di Torino in veste di rappresentante di Israele, che ne è il paese ospite.
La vita di un artista è diventata intensissima oggigiorno ma di questo non si può fare una colpa a nessuno se non a noi stessi. E non c'è differenza tra scrittori, drammaturghi, registi, attori o pittori. I festival letterari e cinematografici, le mostre internazionali, i numerosi seminari in cui si disserta dello stato del mondo e di cultura hanno sostituito negli ultimi anni (e meno male che è così) le guerre e gli scontri di frontiera. Tutti cercano il dialogo, e non solo quello culturale ma quello autentico, faccia a faccia. Il grande filosofo Emanuele Kant non lasciò mai la sua città natale, Könisberg, e scrisse tutte le sue opere in un unico luogo mentre noi siamo assaliti dalla frenesia del viaggio. I progrediti e sofisticati mezzi di comunicazione moderni - la posta elettronica, i cellulari, le video conferenze, le simulazioni virtuali, le spedizioni mediante corriere espresso - non hanno cancellato, come ci si poteva aspettare, il bisogno di un contatto umano. Al contrario, lo hanno accresciuto. Ecco per esempio che rappresentanti di società informatiche che potrebbero conversare in qualunque momento con chicchessia nel mondo percorrono distanze mostruose per incontrare per poche ore rappresentanti di altre ditte e mostrar loro un accessorio non più grande di un pisello, nemmeno fossero mercanti ambulanti del Medio Evo.
Cosa ricava uno scrittore da tutto questo? Cosa lo induce a prendere parte a questo carosello mediatico (all'infuori di un naturale senso del dovere nei confronti della casa editrice che si è data da fare per pubblicare i suoi libri e si aspetta un aiuto nel promuoverli)? Dubito che molti provino piacere nel ripetere le stesse risposte a una sfilza di giornalisti che, l'uno dopo l'altro, fanno solitamente le stesse domande. Dubito che molti provino piacere a girare per fiere gigantesche, a passare davanti a stand stracolmi di libri nuovi e intriganti e a rendersi conto che i propri libri non sono che un granello minuscolo in tutta quella babilonia. Ogni scrittore, o artista, di certo avrebbe una risposta diversa a questa domanda. La mia, basata soprattutto sulla mia annosa esperienza italiana, si potrebbe riassumere in una frase che forse sorprenderà i lettori: ciò che mi spinge a partecipare a questo circo mediatico è il piacere del contatto con il pubblico anonimo dei lettori.
Da quando fu pubblicata la traduzione del mio primo libro in Italia, più di vent'anni fa, sono stato invitato in molte città, da Venezia a Cagliari, e una delle cose meravigliose che ho scoperto è che tra i vari centri italiani esiste una competizione culturale e creativa che scaturisce da un lunga tradizione di indipendenza e di peculiarità storica.
Ho vissuto in Francia quattro anni ma lassù tutto è concentrato a Parigi e io sentivo a malapena il bisogno di visitare altre città. In Italia, invece, scopro ovunque tesori culturali affascinanti. Poche settimane fa, per esempio, ho visitato Pavia senza neppure immaginare che quella dolce e meravigliosa città si trovasse a soli pochi chilometri da Milano.
Ma ripeto, è il contatto col pubblico ad affascinarmi e a stupirmi, spesso proprio quel contatto superficiale di cui molti non tengono conto. Negli anni ho sviluppato una certa abilità nello scambiare qualche parola con i lettori che vengono a chiedermi un autografo. Domando loro cosa apprezzano del mio stile e cosa no, quale mio libro sia piaciuto di più e quale meno, se la copia che sto firmando è destinata a loro o a qualcun altro. Per un'ora o più mi rendo conto di come personaggi ben definiti, concepiti in un luogo e in un tempo lontani, siano riusciti a trasfondere la mia anima, la mia immaginazione, i miei pensieri in persone tanto distanti e diverse da me, a suscitare in loro un senso di identificazione. E allora ecco che risorge in me la fede nello spirito umano, nella fratellanza che quest'ultimo riesce a generare con tanta facilità e io, che vengo da una terra martoriata da guerre e conflitti e ultimamente mi lascio sopraffare dal pessimismo, riprendo coraggio.
Ma Torino per me non è soltanto una città italiana. In un certo senso è casa mia. Non solo perché è la sede della casa editrice Einaudi, dove negli anni ho costruito profondi rapporti personali con molti dei suoi fedeli dipendenti - persone giovani come Andrea, Ernesto, Paola, Carla. Torino è anche la città in cui viene pubblicato il quotidiano che ospita i miei sporadici interventi, La Stampa, e malgrado io non conosca l'italiano e non sia in grado di leggere nemmeno una riga di quanto vi è scritto, lo sento comunque un po' mio. E Torino è anche il luogo in cui è nata, più di quarant'anni fa, la prima automobile che io abbia mai posseduto, una Fiat 600 rossa, piccola ma veloce come un folletto, con la quale, in compagnia di mia moglie e della mia figlioletta, ho percorso l'Europa in lungo e largo negli anni della mia trascorsa gioventù.

Dal GIORNALE, un articolo di Stefano Zecchi:

Uno scontro politico poteva anche starci, dal momento che Israele e Palestina si stanno facendo la guerra da più di mezzo secolo. E invece si assiste a uno psicodramma, un po’ becero e un po’ grottesco, che rispetta fedelmente la realtà della sinistra radicale italiana. Il direttore della Fiera del Libro di Torino, invece di alzare le spalle davanti alle proteste dei radicali filo-palestinesi e ignorarli, si preoccupa di giustificare le sue scelte. Dice che gli scrittori israeliani presenti al Lingotto sono i più aperti al confronto, dice che gli scrittori palestinesi sono sempre stati invitati a Torino, dice che il libro, la cultura sono l’occasione per dialogare, non per alzare barricate.

E invece la tragedia senza fine di due popoli che non trovano la soluzione per la pace si trasforma al Torino in uno psicodramma indecente. Israele è il Paese ufficialmente invitato alla manifestazione torinese, però è politically correct giustificare la decisione. Sembra un copione molto simile a quello che si è recitato all’Università La Sapienza di Roma quando era stato invitato il Pontefice e poi si era dato ossequioso ascolto a chi non lo voleva. A differenza del Papa, Israele non molla. E alla vacuità della cultura occidentale ha una storia da insegnare.

La fondazione dello Stato d’Israele è stata preceduta di un anno dalla fondazione dell’Accademia di Belle Arti, perché era una ferma convinzione che dovesse essere l’identità culturale di un popolo la base su cui edificare la struttura istituzionale. La cultura come fondamento della politica, come riferimento essenziale di una comunità per la costituzione del proprio Stato. Intorno agli artisti israeliani, vicino a una semplice Accademia, si è riconosciuto un popolo. Gli ebrei sono un popolo, l’ultimo vero popolo rimasto sulla terra. Ovunque, ormai, ci sono solo individui preoccupati delle loro questioni personali. Oggi domina, e viene onorata, la vita delle persone, non quella del popolo. Per gli ebrei non è così. Prima il loro pensiero religioso, la loro cultura, il senso di appartenenza a una Storia, poi la difesa dello Stato d’Israele, li hanno costretti a restare popolo e solo popolo, per chissà quanti secoli ancora. I loro uomini di cultura si sono accontentati, talvolta compiaciuti, di non oltrepassare la facile rimemorazione del dolore del mondo, raccontando la loro esperienza con la sapienza dell’ironia, però non hanno mai rinunciato a testimoniare l’origine, il fondamento culturale che li unisce come popolo. E questo perché quando si vive la propria cultura con intensità, come verità, si è disposti a soffrire e a combattere pur di non vedere annientata la propria Storia.

Credo che alla Fiera del Libro di Torino si reciterà anche un altro psicodramma, più rituale e più modesto. Il tema di quest’anno è dedicato alla Bellezza; sui manifesti campeggia la celebre frase dell’Idiota di Dostoevskij che spera nella bellezza salvatrice del mondo. Vedendo come stanno oggi le cose, quella frase andrebbe rigirata e ci si dovrebbe chiedere se la bellezza si salverà dal mondo. Innanzitutto si dovrà salvare dai relatori, chiamati ad aprire la discussione sull’argomento, che non hanno mai considerato la bellezza come un concetto significativo della nostra cultura. D’altra parte, proprio in sintonia con la cultura del Novecento, che ha sempre ritenuto il bello un significato antimoderno, da combattere o, meglio, da ridicolizzare. Mai epoca della nostra millenaria civiltà è stata tanto ostile all’idea di bellezza come gli ultimi cinquant’anni del secolo scorso.

La bellezza è stata confinata nella moda, tra le cose effimere e futili della vita. La sperimentazione estetica, la ricerca del nuovo, le provocazioni espressive dovevano avere altri riferimenti concettuali. E così la bellezza è scivolata via dal giudizio estetico, è diventata una parola senza consistenza culturale. Ha senso dire che la tanto celebrata Merda d’artista di Piero Manzoni è bella? Che i suoni disarticolati di un testo musicale di Luciano Berio sono belli?

Evidentemente no.

Oggi ci si sta accorgendo di quanta immondizia artistica è stata accumulata nel nome di una modernità nemica della bellezza, e si sta correndo ai ripari. Ma come a Napoli, tanta spazzatura estetica resterà lì a testimoniare la stupidità di una cultura che ha rinunciato al bello, con la differenza che la munnezza napoletana fa schifo a tutti, quella estetica è invece oggetto di dotte disquisizioni. Come si ascolterà a Torino.


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