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Il Foglio - Corriere della Sera Rassegna Stampa
17.04.2008 Gli intellettuali e il fascino del totalitarismo
la denuncia di Paul Hollander e l'esempio di Luciano Canfora

Testata:Il Foglio - Corriere della Sera
Autore: Tommaso Piffer - Luciano Canfora
Titolo: «Il suicidio degli intellettuali - Dalai Lama e Ahmadinejad»
Da Il FOGLIO del 17 aprile 2008:

Come è stato possibile che intellettuali sensibili, colti e dotati di spirito critico abbiano potuto appoggiare, durante il secolo scorso, regimi repressivi e votati alla negazione dei più elementari diritti umani? E’ la domanda che continua a porsi Paul Hollander. Come è successo che personaggi del calibro di Pablo Neruda, Jean-Paul Sartre, Susan Sontag, George Bernard Shaw e tanti altri siano rimasti affascinati dalla Russia staliniana, dalla Cina maoista o dalla Cuba castrista, ignorandone completamente i difetti e le storture. E come ancora oggi vi siano affermati intellettuali che guardano con condiscendenza se non con simpatia ai fondamentalisti islamici che predicano l’odio e la distruzione dell’occidente. Paul Hollander è uno storico ungherese che a questi temi ha dedicato buona parte della sua vita di studioso. Nato in Ungheria all’inizio degli anni Trenta, di famiglia ebrea, fu costretto durante la Seconda guerra mondiale a nascondersi per sfuggire alle persecuzioni naziste. Visse l’arrivo dell’Armata Rossa come una liberazione, rimanendo sinceramente affascinato dal comunismo. “Ne ero attratto – racconta – perché lo identificavo con l’Unione Sovietica, ed erano i soldati dell’Unione Sovietica ad aver liberato l’Ungheria dalla truppe naziste”. L’illusione però dura ben poco. Nel 1948 il Cremlino impone con la forza un regime autoritario alle strette dipendenze da Mosca, e il clima nel paese cambia rapidamente: gli avversari politici vengono sottoposti a processi farsa, ogni spazio di libertà viene soppresso. Sono vietati film e libri occidentali e imposto il culto di Stalin e del suo discepolo ungherese, Mathias Ràkosi. Il nonno di Hollander prima della guerra era un ricco commerciante: “Una mattina – ricorda lui – un poliziotto in motocicletta si presentò a casa nostra per consegnarci l’ingiunzione di lasciare Budapest entro ventiquattro ore”. Deportato in un paesino dell’Ungheria orientale a duecento chilometri di distanza dalla capitale, vive il dramma dell’esilio e l’umiliazione della continua sorveglianza politica, alla quale si unisce il divieto di ogni attività culturale e sociale. Nel 1953 viene richiamato sotto le armi dove, classificato come politicamente inaffidabile, è costretto a seguire ripetuti seminari di rieducazione politica. Solo nel 1955 riuscirà a tornare a Budapest, grazie a un permesso di soggiorno che può ottenere perché ha iniziato a lavorare come muratore per una ditta di costruzioni. L’anno successivo i carri armati russi stroncano la giovane rivoluzione ungherese. Hollander decide di lasciare il paese. Il 19 novembre passa clandestinamente il confine con l’Austria e da qui raggiunge la Gran Bretagna. “Fu la migliore decisione della mia vita”, racconta. Ma fuggito nelle braccia delle libere società occidentali da un sistema repressivo e totalitario, Hollander scopre proprio che un settore considerevole della classe intellettuale occidentale è seriamente impegnato nella difesa del sistema sovietico e nella demonizzazione della propria. “In un certo senso – ci racconta – ero affascinato dal loro orientamento di sinistra. Allo stesso tempo mi irritava. Mi misi a cercare di capire la loro cecità”. Nel 1981 pubblica uno dei suoi libri più importanti, tradotto in Italia dal Mulino con il titolo “Pellegrini politici. Intellettuali occidentali in Unione Sovietica, Cina e Cuba” (1988). E’ un ritratto impietoso della classe intellettuale occidentale. Hollander mette in discussione la credenza assai diffusa secondo cui una caratteristica fondamentale degli intellettuali sia la difesa della libertà e la loro disposizione critica. Al contrario, i resoconti dei viaggi compiuti nei paesi socialisti mostrano una predisposizione a farsi ingannare da burocrati di partito esplicitamente incaricati di falsificare la realtà a uso e consumo dei visitatori, da zelanti funzionari travestiti da operai che mostrano un’assoluta conoscenza delle opere del marxismo, o da villaggi modello costruiti ad arte e immediatamente smantellati dopo il passaggio del visitatore. Seppur riconoscendo che le manipolazioni delle esperienze dei visitatori ne avevano senza dubbio influenzato i giudizi, Hollander giunse alla conclusione che a essere decisivi non furono gli inganni, ma la predisposizione con la quale intellettuali affrontavano la realtà: “Noi volevamo ingannarvi – disse molti anni dopo un comunista cinese a una delle vittime delle sue mistificazioni – ma voi volevate essere ingannati”. Per capire questa predisposizione, prima di tutto bisogna guardare alle condizioni storiche che vi fecero da sfondo. La crisi economica a cavallo tra gli anni Venti e gli anni Trenta, così come quella degli anni Cinquanta e le proteste contro la guerra del Vietnam, il razzismo, il consumismo e la burocratizzazione nei primi Settanta contribuirono a dare forma a un diffuso malessere e un forte senso di alienazione rispetto alle società occidentali, e alla ricerca di modelli alternativi. L’Unione Sovietica, Cuba e poi la Cina fornivano questi modelli, grazie al combinarsi con l’universale fascino del messaggio socialista. Le difficoltà economiche e sociali sono però solo una parte, e marginale, della spiegazione, e non la più importante. “Le società capitaliste – ha scritto Hollander – suscitano l’ostilità degli intellettuali soprattutto perché non possono soddisfare i loro bisogni di senso e di progetto nella vita, e si tratta, come si può vedere, di qualcosa che scatena l’ostilità che è abbastanza diversa dalla scoperta dello sfruttamento e di altre forme di ingiustizia sociale. Così la critica sociale alienata è spesso o in parte una reazione alla frustrazione dell’impulso religioso (o della ricerca di senso) di cui il critico attribuisce la responsabilità all’ambiente sociale”. Eliminata la categoria della trascendenza, l’intellettuale occidentale, specmachio di un’epoca che si voleva secolarizzata, tentava di rintracciare in diversi modelli sociali la risposta a quelle esigenze che la sua società non gli permetteva di realizzare. La ricerca non avrebbe dato buoni risultati: disinnamoratisi a partire dagli anni Cinquanta della Russia comunista, avrebbero cercato conforto nella Cina, poi nella Cuba castrista, poi nel Nicaragua, nell’Albania e via di seguito. A contribuire all’accecante innamoramento per i sistemi socialisti fu poi secondo Hollander anche uno straordinario senso di colpa per le supposte mancanze della società occidentale, che non tardò a manifestarsi in una vera e propria avversione per il sistema occidentale nel suo complesso. Non a caso il tema dell’antiamericanismo si rivelerà più di recente un nuovo campo di studio per lo storico ungherese. Alla radice di questo fenomeno vi è secondo Hollander soprattutto una radicale avversione verso la modernità, che l’America simboleggia in tutti i suoi pregi e i suoi difetti. Si tratta di un fenomeno che ancora una volta riguarda in primo luogo gli intellettuali e coloro che ne vengono influenzati, come dimostra il fatto che il radicalizzarsi del sentimento antiamericano non diminuisce in nessun modo il costante e anzi crescente numero di quanti aspirano a vivere proprio negli Stati Uniti. Hollander è in un certo senso sinceramente affascinato da come l’infatuazione politica abbia privato molti intellettuali della loro capacità di discernere e di esercitare le loro facoltà critiche, contribuendo al radicarsi di un doppio standard morale con il quale giudicare la propria società e quella che si indicava come modello di riferimento, e determinando una “propensione a farsi ingannare” che fu abilmente sfruttata dai propagandisti dei regimi socialisti. Il libro sui “Pellegrini politici” si chiudeva con un interrogativo inquietante sugli effetti che la denigrazione della società di occidentali da parte degli intellettuali avrebbe avuto sul lungo periodo: “Gli intellettuali contribuiranno – si chiedeva – volontariamente o involontariamente, alla distruzione delle loro società relativamente libere, a causa delle loro illusioni su altre società e a causa delle loro ricorrenti fantasie su nuove forme di liberazione e realizzazione collettive”? Oggi Hollander, davanti alla sfida posta all’occidente dall’islam radicale, vede in parte realizzarsi queste previsioni: “Gran parte degli intellettuali – ci dice – non hanno sufficientemente a cuore le società a cui appartengono, e non sono preparati a difenderle. Ma il radicalismo islamico è una minaccia ben più seria del comunismo, in quanto è molto più irrazionale e fanatico. I comunisti non compivano attentati suicidi, non c’era il culto della morte e del martirio” Se alla base dell’atteggiamento tiepido nei confronti del radicalismo islamico vi è un’avversione verso la società occidentale che è simile a quella degli intellettuali socialisti nel secolo scorso, altrettanto importanti sono le caratteristiche peculiari della situazione attuale, che ha determinato una forma di antiamericanismo secondo Hollander prima sconosciuta. Vi è innanzitutto l’inedita identificazione degli Stati Uniti, e di tutto ciò che ha a che fare con l’America, con un elemento demoniaco e non solo con l’ingiustizia sociale, la corruzione o lo sfruttamento economico. E’ una fase nuova che a dire il vero si manifesta a partire dai primi anni Novanta, e che con l’11 settembre ha avuto solo il suo apice, costringendo però lo stesso Hollander alla ridefinizione delle categorie concettuali delle quali si era servito precedentemente. “Nella mia definizione originaria – scrive in un saggio del 2004 – non avevo valorizzato il fatto che il sentimento antiamericano potesse culminare nella violenza politica. A quel tempo la maggior parte delle forme di antiamericanismo apparivano in larga parte retoriche o comunque espresse in modi che non avevano nulla a che fare con l’assassinio di massa”. Il secondo aspetto è la convergenza tra fondamentalisti islamici e antiamericani occidentali, fenomeno che manifesta la sua prima evidenza nella richiesta di “non giudicare” i terroristi e in quella di “comprenderli”. Hollander constata come a partire dai giorni immediatamente successivi agli attentati di New York e Washington, l’antiamericanismo abbia trovato nuovo vigore nel tentativo degli intellettuali occidentali di spiegare gli eventi cercandone le cause profonde nell’atteggiamento degli stessi Stati Uniti. In questo si è verificata anche una inedita consonanza tra destra e sinistra: “Noam Chomsky, Norman Mailer, Susan Sontag o Gore Vidal – ha scritto Hollander nel novembre del 2002 – non avrebbero molto da dissentire dal leader della destra radicale ungherese Istven Csurka”, quando questi, dopo l’attentato contro le Torri gemelle, si è chiesto come gli americani si potessero aspettare che i popoli oppressi non reagissero alle “umiliazioni, gli sfruttamenti e i massacri portati avanti in Palestina”. La chiave di questa convergenza, per Hollander, è ancora in un odio verso gli Stati Uniti tanto profondo che rende possibile sorvolare su ogni altro elemento. “Il flirt della sinistra coi fondamentalisti islamici ha infatti questo di interessante, che – dice Hollander – i valori di questi ultimi sono tutto il contrario di quello che la sinistra ha sempre predicato e sostenuto. Abbiamo intellettuali di sinistra che, mentre si dicono sostenitori del secolarismo occidentale, simpatizzano con movimenti fanatici e rigidamente religiosi e con sistemi di pensiero che discriminano le donne, reprimono orientamenti sessuali non convenzionali e praticano i più barbari sistemi di politica criminale”. Come nel caso degli intellettuali che magnificavano il comunismo vivendo nei liberi paesi occidentali, vi è una profonda schizofrenia tra l’ideologia predicata e quella effettivamente vissuta, solo che ora si tratta di un fenomeno considerevolmente più marcato. Nessuno degli intellettuali che flirtano con il fondamentalismo accetterebbe mai di vivere sotto un regime radicale islamico, dove verrebbe probabilmente riservato loro trattamento ben peggiore di quello di cui godono in occidente. Del resto, sono molto rari i casi di intellettuali che non si limitano a sostenere questi movimenti politico-religiosi ma che si convertono effettivamente all’islam. Per Hollander è una nuova conferma di come l’odio sia una forma potente di formazione della credenza politica, molto più della classe, l’etnia, la nazionalità o un qualche interesse materiale. Il frutto più compiuto di queste ultime riflessioni si trova nel volume “The end of commitment”, uscito due anni fa negli Stati Uniti, e all’interno del quale si incrociano molti dei temi della produzione dello storico ungherese. E’ in un certo senso una continuazione di “Pellegrini politici” scritta all’ombra degli attentati dell’11 settembre. L’oggetto dell’attenzione di Hollander sono questa volta i processi di disillusione politica che hanno portato gli intellettuali comunisti verso il ripensamento della loro adesione ideologica. Il libro ha un precedente illustre ed esplicitamente riconosciuto, quel “Il dio che è fallito” pubblicato all’inizio degli anni Cinquanta con le testimonianze tra gli altri di Arthur Koestler, André Gide e Ignazio Silone. Ma la parte probabilmente più interessante è quella che Hollander dedica a coloro che nonostante tutte le smentite della storia, le riprove del fallimento della loro adesione ideologica, le sofferenze subite a volte sulla propria pelle, non hanno rinnegato nulla di quello in cui avevano creduto, continuando pervicacemente a sostenere sistemi politici relegati dagli eventi negli archivi polverosi della storia. Hollander, che nulla concede al politically correct (“la forma più diffusa dell’intolleranza istituzionalizzata nell’alta educazione americana”) non risparmia strali agli intellettuali occidentali che non solo non hanno ritenuto di dover rinnegare la loro adesione al comunismo, ma che oggi ancor più di prima rimangono ancorati all’acceso antiamericanismo che a questa adesione stava sotteso. E che hanno trovato nell’11 settembre la conferma di tutti i loro preconcetti nei confronti dell’America, imputando alla politica estera americana crimini assai più gravi degli attentati terroristi di bin Laden e di al Qaeda. Hollander, formidabile osservatore della realtà, come ogni descrittore onesto è anche cosciente del punto fino al quale ritiene di potersi spingere. La ragione più profonda di certi fenomeni di fascinazione politica è per lui uno di questi. Il modo migliore per descriverli – ha affermato in varie occasioni – è quello di collocarli tra le immortali espressioni dell’irrazionalità umana, che include quella di lasciarsi accecare da un odio logorante.

Un esempio dell'indulgenza degli intellettuali verso il totalitarismo è dato, sul CORRIERE della SERA, da un articolo di Luciano Canfora che paragona il Dalai Lama ad Ahmadinejad, per il suo sostegno all'arma nucleare indiana.
Ricordiamo che l'India è una democrazia, che non ha mai minacciato di usare l'arma nucleare per aggredire qualcuno. Diversamente da quanto ha fatto e continua a fare l'Iran, il cui presidente vuole cancellare Israele dalla mappa geografica.

Questa presa di posizione di Canfora non stupisce.  Il suo nome, infatti, era già, insieme a quello di Vattimo e a quello di D'Orsi,  tra i firmatari dell'appello promosso da Domenico Losurdo, in difesa della pacifica Cina contro l'aggressione del bellicoso Tibet.

Ecco l'articolo di Canfora:


Esattamente dieci anni fa, il 14 maggio del 1998, il Dalai Lama, in una conferenza tenuta a Madison, nel Wisconsin dichiarò: «Bene ha fatto l'India a farsi valere». Si riferiva alla decisione del governo indiano di procedere ad esperimenti atomici. Egli soggiunse — come riferì il giorno dopo il Corriere della Sera — che il possesso dell'arma atomica non può essere un privilegio esclusivo dei Paesi ricchi.
Nel 1989 al leader del fondamentalismo buddista era stato attribuito il Nobel per la pace. Non dissimile appare dunque il pensiero di lui rispetto a quello di Ahmadinejad.
Evidentemente, fondamentalismo e arma atomica si accordano piuttosto bene. Nessuno scandalo, beninteso: «Le prove o le conferme che la politica è politica — scriveva Benedetto Croce nel settembre del 1945 — si susseguono sotto i nostri occhi ogni giorno». Magari lasciamo perdere gli intenerimenti e le deprecazioni a corrente alternata.

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