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Avvenire Rassegna Stampa
31.03.2008 Se torna l’odio contro gli ebrei
un saggio di David Meghnagi

Testata: Avvenire
Data: 31 marzo 2008
Pagina: 4
Autore: David Meghnagi
Titolo: «Israele Se torna l’odio contro gli ebrei»

Pubblichiamo un estratto di un saggio di in corso di stampa su Lettera Internazionale. Si tratta di un anticipazione apparsa su "Avvenire", domenica, 30 marzo 208.
Nel sessantesimo anniversario della fondazione dello Stato di Israele lo psicologo David Meghnagi indaga le nuove forme assunte nel mondo contemporaneo dall’antisemitismo, che spesso si maschera dietro la cortina dell’"antisionismo" ma che di fatto approda al rifiuto del diritto all’esistenza di Israele

Ecco il testo: 

Ecco il testo:

La perversione dei valori appare chiara nell’apparente innocenza della domanda che i sopravvissuti si sentono spesso fare dopo avere raccontato la loro esperienza. "Come è accaduto che un popolo che ha tanto sofferto, ripeta coi palestinesi, ciò che ha subito ad opera dei nazisti?" La domanda arriva regolarmente alla fine di un dibattito fissando con equazioni false e ricostruzioni arbitrarie gli ebrei in due immagini simmetriche e complementari della vittima e del carnefice.

Se non fosse per le implicazioni tragiche e devastanti di un’equazione che fa sfondo ad un nuovo tipo di antisemitismo che rovescia sugli ebrei in quanto nazione l’odio che prima era loro rivolto in quanto collettività, verrebbe da ridere amaramente all’idea che dopo avere ascoltato un sopravvissuto vero non si trovi di meglio che fissarlo una seconda volta nella condizione descritta da Kafka nel Processo.

L’entità del dolore di cui il sopravvissuto è portatore gli viene rovesciata contro con atto di violenza che lo ricaccia con tutto il suo mondo nella condizione di chi non può essere giudicato come tutti gli uomini per quello che realmente fa e può essere rappresentato sulla scena pubblica solo come vittima o come carnefice o entrambi le cose. Fissati in queste immagini simmetriche e complementari gli ebrei come gli israeliani cessano di essere persone, fornendo all’antisemitismo in quanto "nuovi carnefici" un’innocenza perduta di un tempo. Dopo Auschwitz non si possono più odiare gli ebrei in quanto tali, in quanto vittime del male assoluto li si deve onorare . Si può però tornare a odiarli in quanto nazione che ha tradito i suoi valori più profondi.

Il topos del nuovo antisemitismo appare chiaro non appena il discorso passa ai palestinesi e alle rappresentazioni del terrorismo suicida e assassino, che viene al contrario "spiegato", se non addirittura giustificato, come una risposta distorta alla violenza subita. Poco importa se il terrorismo non fa distinzione alcuna fra le sue vittime trasformate in un unicum indifferenziato. Con la stessa logica con cui prima il testimone poteva essere nuovamente "accusato", il terrorista può essere "giustificato". Ciò che agli ebrei in quanto rappresentazione assoluta della vittima buona è ontologicamente negato se non al prezzo di un rovesciamento speculare di immagini che lo trasforma in carnefice assoluto, al terrorismo è riconosciuto, se non giustificato (dopo la carneficina delle Torri gemelle, di Londra e Madrid non si più), come "una risposta sbagliata" ad una "esigenza giusta". Come se il mezzo attuato, l’assassinio indiscriminato dei civili in ogni luogo e senza distinzione, non indicasse già i fini veri di un movimento, che ha colpito in primo luogo le popolazioni arabe a centinaia di migliaia in Algeria e in altre parti del mondo arabo e islamico. Le analogie con gli slogan "dei compagni che sbagliano" della buia stagione del terrorismo italiano dovrebbero far riflettere sulle parentele inconfessate o misconosciute di un più vasto album di famiglia che per vie diverse unisce il terrorismo in Occidente a quello in Oriente.

Sino a quando non ha scoperto che per delegittimare Israele, poteva risultare più utile negare e ridimensionare la tragedia della Shoah, l’antisemitismo arabo non ha esitato a istituire un legame diretto fra il comportamento di Israele e l’esperienza del Lager- nella letteratura palestinese degli anni settanta, non era raro ricondurre il comportamento "malvagio" degli israeliani con l’esperienza del Lager.

Poco importa se il nazionalismo arabo e palestinese si era identificato nel corso della guerra con le potenze dell’Asse e la loro massima autorità religiosa aveva contribuito a creare dei corpi speciali nazisti islamici contribuendo attivamente alla soluzione finale. Poco importa se l’avanzata di Rommel lungo il Nord Africa era attesa dai nazionalisti arabi come un’alba risorgimentale e le camere a gas mobili in attesa ad Atene, avrebbero dovuto competere per celerità nel caso in cui il fronte alleato avesse ceduto. Come ha avuto modo di riferire con commozione il mio amico Amos Luzzatto, in un convegno a Roma Tre, nelle terribili settimane che hanno opposto le armate dell’Asse alle forze britanniche sul confine di El Alamein, per ciascun ebreo di Gerusalemme come nel resto del paese, c’era già pronto un macellaio pronto a sgozzarlo.

L’andamento della crisi mediorientale fissa i tempi, la virulenza e le forme di questa perversa logica. Se la crisi del conflitto arabo israeliano si acuisce, l’accusa può assumere un carattere virulento, al punto che le istituzioni ebraiche che predispongono l’invio dei testimoni per lo svolgimento del rito, hanno preso la abitudine di affiancare il "testimone sacerdote" con un giovane preparato a rispondere su questi temi. Il testimone tornato dall’inferno può parlare solo ed esclusivamente dell’inferno. L’esperto di politica può invece rispondere sul resto, entrando con ciò nel merito delle storture prodotte da una cattiva informazione e dalla non conoscenza.

Il rito è salvo ma non per sempre. Il pericolo è solo momentaneamente allontanato, con gli ebrei nella scomoda posizione di doversi confrontare con un duplice ricatto: l’obbligo di ricordare perché gli altri dimenticano, e l’accusa di fissare gli altri in una posizione di colpa perenne.

"Se non sono io per me, chi per me, se non ora quando?", insegnano i saggi del Talmud. Non si può sperare che altri possano portare un peso se non lo sentono interamente loro. Se non vi è altra via, occorre almeno guardare ai rischi che nel lungo periodo essa comporta.

Dopo Auschwitz l’antisemitismo può esprimersi in modo apparentemente rispettabile solo se prende di mira gli ebrei come Stato, demonizzando Israele e deformando la tragedia di un conflitto che ha ormai un secolo sino a renderlo irriconoscibile. Il cerchio del nuovo antisemitismo si chiude con l’accusa agli ebrei di voler fissare gli altri popoli in un sentimento di colpa perenne per acquisire privilegi e coprire le colpe di Israele.

La memoria personale coinvolge le emozioni e il pensiero. È di ricordi e di storie famigliari. Man mano che l’evento si allontana e il rito si svuota, come si è svuotato quello della Resistenza in Italia, il rischio è che chiunque non si riconosca nei valori della cultura occidentale, o sia in aperto contrasto con essa possa identificare gli ebrei con i mali di questa società. L’odio contro Holliwood diventa fastidio per la memoria di Auschwitz. L’odio contro l’Occidente e il potere americano diventa tutt’uno con quello contro Israele, poco importa se Israele è un paese piccolo e accerchiato, da sempre esposto al pericolo di una distruzione. I Rotoli del Mar Morto riportati in vita, sono oggi conservati in un Museo. In caso di attacco nucleare tornerebbero sotto il suolo di Gerusalemme per essere salvati e conservati a futura testimonianza. Il messaggio degli israeliani è chiaro. In caso di estinzione violenta, resterà la memoria. Il che la dice lunga sui contenuti dei loro incubi notturni.

Il sionismo aspirava a fare degli ebrei un popolo "come gli altri", a edificare uno stato ebraico come gli altri stati. L’esito paradossale di questa impresa è stato di avere uno Stato "diverso" dagli altri. Lo Stato degli ebrei è diventato l’ebreo degli Stati, e gli ebrei i suoi ambasciatori in ogni luogo del mondo, non solo agli occhi dei suoi nemici, degli antisemiti vecchi e nuovi, ma anche degli amici più sinceri, che ne difendono l’esistenza. Le tradizioni comunitarie un tempo svalutate in nome dell’ebreo nuovo, si sono riprese una rivincita e la possibilità di vincere un’elezione si misura ormai con la capacità di rispondere ai richiami e alle rivendicazioni dei singoli gruppi comunitari (sefarditi e hashkenaziti, ebrei di origine russa e di origine marocchina ecc). La società israeliana somiglia ad un laboratorio postmoderno che ha sperimentato con molto anticipo molti dei problemi che assillano oggi l’Europa. A non accorgersene sono gli europei che dopo avere lungamente preteso di impartire lezioni agli israeliani sulla convivenza tra popoli diversi, scoprono con angoscia di non essere affatto avanti in fatto di tolleranza, e che molti dei problemi che pensavano di essersi lasciati per sempre alle spalle si sono violentemente riaffacciati, mostrando quanto fragili siano le costruzioni umane.

 

Israele appare ai suoi amici come ai suoi nemici, un pezzo d’Europa trapiantato in Oriente. La realtà è diversa, più complessa di quanto non appaia ad una prima e semplicistica lettura. Per quel che valgono delle metafore, utilizzate spesso come schermo per occultare e confondere, geograficamente, culturalmente e simbolicamente, Israele contiene l’Oriente come l’Occidente. È Occidente nella misura in cui i padri fondatori del sionismo si ispiravano ad una visione dello Stato e della rinascita nazionale che traeva linfa dalle ideologie dominanti dell’Ottocento, portando con sé un pezzo di Europa nel Vicino Oriente ne avevano accelerato la presa di coscienza politica e nazionale. È Oriente perché in quella "striscia di terra madre" che separa l’Oriente dall’Occidente, la civiltà ebraica ha preso corpo e si è sviluppata per oltre un millennio a contatto con l’Oriente profondo. Per non parlare delle tante diaspore che hanno segnato la Diaspora con i suoi forzati spostamenti e le sue invenzioni creative che ne hanno reso possibile la sopravvivenza nei secoli.

Sotto questo aspetto Israele porta dentro di sé i tanti orienti e i tanti occidenti con cui si è incontrato nella sua dolorosa storia uscendone segnato ma anche positivamente trasformato in uno scambio che non è mai venuto meno anche nei momenti più difficili. La condizione di minoranza oppressa o tollerata sperimentata dagli ebrei sotto il cristianesimo e l’islam, è stata anche l’arena in cui l’ebraismo non ha smesso di interrogarsi e scambiare trasformando la sua condizione di debolezza in una condizione di forza per poter sopravvivere nelle condizioni più impervie.

Il rapporto che l’ebraismo ha intrattenuto con le civiltà cristiana e islamica nella storia, non è stato solo l’espressione di una condizione di subalternità, di rifiuto e di oppressione, ma anche di arricchimento culturale, religioso e simbolico, di uno scambio grazie al quale l’ebraismo è riuscito a rinnovarsi e sopravvivere. La stagione d’oro degli ebrei spagnoli fu anche il risultato di un creativo incontro con la civiltà islamica, così come la grande esplosione di creatività degli ebrei che uscivano dai ghetti fu il risultato di un creativo per quanto doloroso incontro con la cultura circostante, di cui Auschwitz come anche lo scontro attuale che oppone Israele al mondo arabo, non erano necessariamente l’epilogo. La storia avrebbe potuto prendere un’altra direzione. Non tutto era scritto, né tutto è già scritto almeno per gli ebrei dovrebbe essere così. In ogni generazione il racconto dell’Esodo dovrebbe essere commentato come se la liberazione riguardasse quella generazione. La scelta tra la morte e la vita riguarda ogni momento. La disperazione della ragione non potrà mai cancellare l’ottimismo della volontà. La comparsa dell’angelo che annulla il comando di sacrificare il figlio esisteva nella mente divina prima che il mondo venisse alla luce e ne rende possibile l’esistenza. Non tutto è necessariamente scritto, anche nelle situazioni più tragiche vi è una possibilità di scelta per quanto condizionata e limitata dalle circostanze e dai processi storici più ampi.

Il debito che l’Occidente ha verso Israele va oltre le tragedie che hanno insanguinato il secolo che si è appena chiuso. Difendendo l’esistenza d’Israele, l’Europa difende in realtà l’unica immagine credibile di un suo futuro possibile. L’ambivalenza con cui l’Europa guarda a Israele è il sintomo di un rapporto irrisolto che l’Occidente intrattiene col suo passato più antico e recente, la tentazione di alcuni settori del mondo politico di farne a meno e di abbandonarlo al suo proprio destino è un grave sintomo di fuga dalle responsabilità della politica, segno di una incomprensione profonda della vera posta in gioco oggi nei rapporti fra civiltà e culture, Stati e nazioni, democrazia e convivenza tra i popoli, che può portare al collasso morale.

Il rifiuto di Israele, la sua trasformazione in Stato paria giudicato in base a criteri che non si applicherebbero a nessun altro Stato è il sintomo di un fallimento dei rapporti fra l’Europa e il mondo arabo, l’Occidente cristiano e l’islam. Non è qui in discussione il diritto dovere alla critica di questo o quel governo, perché la critica è il sale della democrazia. È qui in discussione le forme che assume, le metafore a cui attinge, le immagini e gli stereotipi di cui si alimenta. Per non parlare della falsificazione e lo stravolgimento dei fatti. Come dimostrano gli inquietanti sviluppi della politica nucleare iraniana, il diritto di Israele ad esistere entro confini sicuri internazionalmente riconosciuti, la sua sicurezza è la condizione stessa della possibilità del dialogo fra l’Occidente e l’islam. È la condizione per una composizione storica, politica e morale dei conflitti che insanguinano la regione. Senza Israele questo dialogo non sarebbe nemmeno pensabile. L’Europa e il mondo arabo, l’Occidente e l’islam potranno tornare a parlarsi, se Israele pacificato col mondo arabo è presente fra loro come testimone dei loro e dei propri lutti. "Chi vive in un’isola deve farsi amico il mare", così recita un antico proverbio arabo. Israele è una piccola isola accerchiata da un oceano arabo e islamico. Farsi amico il mare, aprirsi un varco nel cuore degli abitanti dell’oceano arabo, è per Israele una necessità. Accettare l’esistenza di quest’isola è per l’intero mondo arabo, come per l’islam, la condizione per rompere la catena di violenze e lutti in cui è tragicamente avviluppato.

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