venerdi 22 novembre 2024
CHI SIAMO SUGGERIMENTI IMMAGINI RASSEGNA STAMPA RUBRICHE STORIA
I numeri telefonici delle redazioni
dei principali telegiornali italiani.
Stampa articolo
Ingrandisci articolo
Clicca su e-mail per inviare a chi vuoi la pagina che hai appena letto
Caro/a abbonato/a,
CLICCA QUI per vedere
la HOME PAGE

vai alla pagina twitter
CLICCA QUI per vedere il VIDEO

Lo dice anche il principe saudita Bin Salman: Khamenei è il nuovo Hitler


Clicca qui






Corriere della Sera - La Stampa - Il Foglio Rassegna Stampa
26.02.2008 Il sostegno dell'antisemita Louis Farrakhan, le oscillazioni su Israele, il rapporto con l'islam
nuove polemiche su Barack Obama

Testata:Corriere della Sera - La Stampa - Il Foglio
Autore: Alessandra Farkas - Maurizio Molinari - Christian Rocca
Titolo: «Foto di Barack in turbante «È una congiura di Hillary» - Obama scivola sull'Islam nero - Ecco il piano in cinque punti dell’eroe McCain contro il sogno di Obama»
Da pagina 14 del CORRIERE della SERA del 26 febbraio 2008:

NEW YORK — Lui in tenuta musulmana, con tanto di turbante e sottana bianchi tradizionali dei villaggi somali; lei nell'inedito ruolo di paladina di stupratori e pedofili, dopo una carriera spesa a difendere i bambini. Ad appena una settimana dalle cruciali primarie in Texas e Ohio, da cui dipende la sorte della travagliata nomination democratica, tra Barack Obama e Hillary Clinton è ormai guerra senza esclusione di colpi.
L'ultimo è stato sferrato dai collaboratori di Hillary, che hanno fatto pervenire al sito di destra
Drudge Report una foto del senatore dell'Illinois scattata durante un viaggio in Africa nel 2006. Quando Obama fece tappa a Wajir, area rurale nel nord-est del Kenya, Paese d'origine del padre Barack Hussein Obama Sr., musulmano come il patrigno Lolo Soetoro, sposato in seconde nozze alla madre Ann Dunham. A detta di Drudge Report, un assistente di Hillary avrebbe spedito la foto, insieme alla domanda pleonastica: «Non la vedremmo su tutte le copertina se si trattasse della Clinton?». La replica di Obama, attraverso il direttore della sua campagna, David Plouffe: «È la più vergognosa e offensiva criminalizzazione di queste primarie. Proprio il tipo di politica che divide e allontana gli americani dai partiti, e fa perdere all'America il rispetto del mondo ». «Ora basta — ha replicato Maggie Williams, responsabile della campagna della Clinton —. Se lo staff di Obama vuol far credere che una foto di lui che indossa un abito tradizionale somalo divide, si dovrebbe vergognare. È solo un tentativo per distogliere l'attenzione dai veri problemi». Nessuna smentita, insomma, ma la tacita ammissione che quell'e-mail è uscita dal quartier generale della senatrice. Lo stesso che a dicembre silurò un coordinatore dell'Iowa per aver inoltrato una «mail a catena» in cui si sosteneva che Obama avesse prestato giuramento come senatore con la mano sul Corano: un anatema nell'America post-11 settembre. Ma gli umori e la posta in gioco oggi sono diversi. Il fatto che ieri il controverso leader nero della «Nazione Islamica» Louis Farrakhan, noto per le dichiarazioni antisemite e omofobiche, abbia dato l'endorsement a Obama, rischia di trasformarsi in un incubo per il senatore che negli ultimi giorni ha, a sua volta, alzato il livello dello scontro.
La foto sarebbe una risposta ai volantini, distribuiti dai sostenitori di Obama in Ohio, che parlano dell'appoggio di Hillary per il Nafta, l'impopolarissimo mercato comune con Canada e Messico, ratificato dal presidente Clinton. Domenica poi il quotidiano Newsday ha rivelato che, ai tempi in cui era avvocato in Arkansas, l'allora 27enne Hillary avrebbe difeso un uomo accusato di aver stuprato una dodicenne, attraverso un aggressivo attacco alla credibilità della ragazzina, rea di «desiderare uomini più vecchi ». A pareggiare il conto, durante la cerimonia di consegna degli Oscar, ci ha pensato il comico ebreo Jon Stewart: «Si chiama Barack Hussein Obama — ha detto —. Hussein come l'ex dittatore iracheno, Obama che fa rima con Osama».

Da La STAMPA un articolo di Maurizio Molinari:

Il leader della setta «Nazione dell’Islam» Louis Farrakhan benedice la candidatura presidenziale di Barack Obama, attirandogli contro i sospetti di anti-patriottismo, rafforzati anche dalla diffusione di una foto che lo ritrae in abiti da capo tribù somalo. Ad otto giorni dalle primarie in Texas e Ohio, che possono decidere la corsa alla nomination democratica, è tempesta sul senatore afroamericano dell’Illinois.
A creare il maggiore imbarazzo è stata la decisione di Farrakhan di definire Obama, parlando a Chicago di fronte a ventimila seguaci, «una speranza del mondo intero». Farrakhan, che ha 74 anni, lo ha paragonato a Fard Muhammad, il fondatore della «Nazione dell’Islam», dicendo che potrebbe essere lui «l’uomo nero che ci salverà». Paladino del nazionalismo nero, noto per aver definito l’ebraismo «una fede da bassifondi» e sostenitore della tesi che «la cocaina è stata inventata dalla Cia per rendere schiavi gli afroamericani», Farrakhan con il suo abbraccio rischia di stritolare la candidatura di Obama, che non a caso è corso ai ripari assegnando al portavoce Bill Burton il compito di precisare: «Non condividiamo le posizioni tenute in passato dal ministro Farrakhan e non ne abbiamo chiesto il sostegno».
Per rafforzare il messaggio, Obama ha incontrato a Cleveland, in Ohio, la locale comunità ebraica, affermando che «la sicurezza di Israele è sacrosanta, non negoziabile» e definendosi «l’uomo giusto per avvicinare ebrei e afroamericani». Quando però gli è stato chiesto di commentare il paragone fra lo Stato ebraico e il Sud Africa dell’apartheid fatto negli Anni 70 da Jeremiah Wright - il pastore della sua chiesa di Chicago - ha risposto in maniera ambigua: «Si riferiva ai legami diplomatici che esistevano all’epoca fra i due Stati».
Farrakhan e Wright allungano su Obama l’ingombrante ombra del nazionalismo nero in coincidenza con tre episodi che hanno spinto i repubblicani a «mettere in dubbio il suo patriottismo», come ha scritto Bill Kristol sul «New York Times». Ecco di che cosa si tratta: sul web circola un video in cui Obama ascolta l’inno americano senza portarsi la mano sul cuore; Obama ha giustificato con l’opposizione alla guerra in Iraq la scelta di togliersi dal risvolto della giacca la spilletta con la bandiera americana; la moglie Michelle ha detto che si è sentita «per la prima volta orgogliosa di essere americana» durante questa campagna elettorale, sollevando di conseguenza numerosi dubbi su che cosa abbia provato in passato.
E’ in tale cornice che ieri il sito Internet Drudge Report ha pubblicato una foto scattata a Obama nel 2006 in Kenya, nella quale indossa il costume tradizionale di un capo tribù somalo. Il sito ha attribuito l’origine della foto alla campagna di Hillary e tanto è bastato a David Plouffe, stratega di Obama, per parlare di «azioni offensive e vergognose» compiute dai rivali. Ma Maggie Williams, nuovo capo dello staff di Hillary, ha risposto per le rime: «Se Obama sta suggerendo che la sua foto in abiti somali crea divisioni, è lui che deve vergognarsi» perché «il senatore Clinton spesso ha indossato abiti tradizionali durante viaggi all’estero».
Hillary alza il tiro contro Obama perché sa che solo una piena vittoria in Texas e Ohio può tenerla in corsa. Per rimarcare le differenze ieri ha pronunciato a Washington un discorso sulla politica estera affermando, circondata da ex generali, che «ritirarsi dall’Iraq non sarà affatto facile».

Dal FOGLIO , un articolo di Christian Rocca:

New York. Gli strateghi conservatori del  Partito repubblicano hanno due svantaggi e un vantaggio rispetto ai colleghi democratici nel preparare un piano elettorale per far eleggere John McCain e portare per la terza volta consecutiva un presidente di destra alla Casa Bianca. Il primo svantaggio è il clima politico nettamente favorevole al Partito democratico, a causa della guerra in Iraq, dell’insicurezza economica e, in generale, della fisiologica stanchezza nei confronti di un presidente come George W. Bush che ha governato otto anni e diviso a metà il paese. Il secondo elemento sfavorevole è l’entusiasmo dei democratici per i loro due candidati, Barack Obama e Hillary Clinton, due leader liberal che, a differenza di John Kerry nel 2004, ma anche di Al Gore nel 2000, riempiono di orgoglio la base elettorale e fanno sognare a occhi aperti il ritorno a ere di progresso e di giustizia sociale. Il fenomeno si è visto in questa stagione di primarie, dove gli elettori democratici si sono presentati alle urne quasi sempre in numero doppio rispetto ai repubblicani, anche in stati solidamente conservatori.
Gli strateghi repubblicani, però, hanno un vantaggio: il partito ha già scelto un candidato, John McCain, anche se lo ha fatto turandosi il naso, e sa che a meno di una clamorosa rimonta di Hillary Clinton, l’avversario democratico sarà Barack Obama. Gli advisor di Obama, invece, probabilmente dovranno occuparsi di Hillary fino al 7 giugno, la data delle ultime primarie a Portorico, se non oltre, fino alla convention di agosto a Denver, anche se circolano voci di un possibile ritiro dei clintoniani la sera del 4 marzo in caso di sconfitta in Texas e Ohio.
La squadra di McCain sta preparando il piano strategico per la conquista della Casa Bianca intorno a cinque punti: mobilitare la base conservatrice, scegliere un vicepresidente che completi il profilo del candidato, prendere le misure all’avversario, valutare i suoi punti deboli ed essere competitivi anche in quegli stati della costa orientale e occidentale tradizionalmente liberal. I vertici della Right Nation sono ancora scettici nei confronti di McCain, continuano a guardare con sospetto la sua indipendenza di giudizio, il suo cattivo carattere e le sue posizioni poco ortodosse su immigrazione, finanziamento della politica, surriscaldamento terrestre eccetera. Il partito, dopo i dubbi iniziali, s’è schierato in modo abbastanza compatto con lui, ma resta ancora aperta la questione della base elettorale. Se McCain non riuscirà a coinvolgerla, a motivarla e a galvanizzarla, difficilmente il 4 novembre potrà vincere le elezioni.
Secondo Karl Rove, l’architetto delle vittorie elettorali di Bush, McCain dovrà occuparsi subito, già a marzo, di quest’aspetto decisivo e di elaborare una strategia complessiva anti Obama. Un aiutino a McCain è arrivato dal New York Times e dalla sua inchiesta su una presunta e smentita storia sentimentale del senatore con una lobbista, giudicata impubblicabile dallo stesso garante dei lettori del Times, che ha avuto l’effetto opposto di ricompattare il mondo conservatore contro la solita egemonia editoriale della sinistra.
(segue dalla prima pagina) La scelta del vicepresidente è altrettanto importante, più del solito. Al suo primo giorno da presidente, il 20 gennaio 2009, se McCain fosse eletto, avrebbe 72 anni, uno in più di quanti ne aveva Ronald Reagan all’inizio del suo secondo mandato. McCain scherza e ricorda che quel vecchietto è riuscito nella bazzecola di vincere la Guerra fredda, ma dovrà scegliersi un vicepresidente con un coerente curriculum conservatore per confortare la Right Nation, con una solida esperienza amministrativa per ovviare al principale dei suoi punti deboli, con uno spiccato interesse alle questioni economiche e di politica interna per bilanciare la sua predisposizione alla sicurezza nazionale, e infine sufficientemente giovane e carismatico da poter rappresentare già adesso il futuro del Partito repubblicano nel 2012. La scelta non sarà facile, ma gli analisti di Washington non parlano d’altro che delle liste dei papabili vice McCain che circolano di mano in mano in questi giorni di assestamento della sua candidatura.
Non meno decisiva è la questione Obama. Il team McCain sta cominciando a testare gli argomenti da usare contro il senatore nero alle elezioni di novembre, con l’avvertenza di stare molto attenti a non mettersi nella situazione di poter essere accusati di razzismo (o misoginia, se dovesse farcela Hillary). McCain corre meno rischi di qualsiasi altro repubblicano, perché non è il tipo che si trova a suo agio con gli attacchi personali, ma direttamente o no sarà costretto a ricorrervi. Il Comitato nazionale del Partito repubblicano ha commissionato in questi giorni una serie di sondaggi e di focus group per capire quali siano i limiti di una campagna politica contro un candidato di colore (o donna). “Giusto o no la realtà sarà questa – ha detto un consigliere di McCain a The Politico – La polizia del politicamente corretto sarà di pattuglia e i criteri saranno strettissimi”. C’è però chi, a destra, teme un approccio soffice e vittima del politicamente corretto: “Se McCain è preoccupato o timido nell’affrontare di petto Obama, vorrà dire che ha già perso la battaglia senza neanche cominciare”.
McCain sa quali sono i punti deboli di Obama e già adesso comincia a esporli nei suoi discorsi. E’ vero che l’Obamania è contagiosa, ma col passare del tempo pare mostrare i primi segni di stanchezza anche tra i suoi stessi sostenitori. Il primo editoriale del New York Times di domenica lo ha accusato, per la prima volta, di sostenere politiche economiche populiste e conservatrici. Lo stesso giorno, il Washington Post ha prima spiegato nel dettaglio statistico che non è vero che Obama avrà grandi speranze di vincere negli stati conservatori, poi lo ha accusato di essere “enigmatico” e di non aver ancora fatto capire che tipo di presidente sarà.
La vaghezza propositiva di Obama e la sua politica basata sul sogno più che sulla realtà sono dunque il punto centrale della strategia di McCain, come di Hillary. La Clinton non è riuscita a convincere gli elettori democratici che va bene fare campagna elettorale in modo poetico, ma che poi per governare c’è bisogno della prosa. McCain però ha qualche argomento in più. Intanto può attaccarlo da destra, poi può usare con maggiore naturalezza e competenza la carta della sicurezza nazionale, del patriottismo, del valore e finanche la questione della guerra in Iraq, essendo l’unico ad aver sostenuto la strategia di David Petraeus che in questi mesi ha cambiato l’inerzia della situazione sul campo. A differenza di Hillary, ha scritto Mark Halperin di Time, McCain può giocare sporco senza ripercussioni negative nel suo partito e può anche avvantaggiarsi da una campagna anti Obama senza censure, e non imbarazzata e a mezza bocca, come quella elaborata dai Clinton, sull’uso di cocaina, sul secondo nome “Hussein”, sulle amicizie radicali e sui ruvidi e potenzialmente imbarazzanti commenti di sua moglie Michelle sulle questioni razziali. Hillary ci sta ancora provando, come si intuisce dalla foto di Obama con turbante e in abiti da musulmano pubblicata da Drudge Report e fatta circolare dal suo staff. Hillary in questi giorni dice frasi tipo “vergognati, Barack Obama”, che prima o poi saranno usate negli spot repubblicani, così come non resterà clandestina la notizia che secondo il National Journal Obama è il senatore più di sinistra di Washington.
Un altro punto d’attacco dei conservatori, anche se avrà minore efficacia rispetto a come funzionò nel 2004 contro Kerry, sarà quello del flip flop, cioè della sua tendenza a cambiare posizione, dalla sanità alle questioni di politica estera, in particolare su Israele. Ralph Nader, l’uomo che candidandosi da indipendente nel 2000 fece perdere Al Gore, ha annunciato la sua candidatura, stavolta ancora meno influente del 2004 quando prese lo 0,4 per cento. Nader si è detto insoddisfatto di Obama proprio su Israele: “Fino a pochi anni fa era filo palestinese, ora è filo israeliano”.  
   
Per inviare una e-mail alla redazione del Corriere della Sera, della Stampa e del Foglio cliccare sul link sottostante




lettere@corriere.it
lettere@lastampa.it
lettere@ilfoglio.it

Condividi sui social network:



Se ritieni questa pagina importante, mandala a tutti i tuoi amici cliccando qui

www.jerusalemonline.com
SCRIVI A IC RISPONDE DEBORAH FAIT