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Il Giornale - La Stampa Rassegna Stampa
18.02.2008 Il Kosovo, l'Europa e l'islam
opinioni a confronto

Testata:Il Giornale - La Stampa
Autore: Maria Giovanna Maglie - Enzo Bettiza
Titolo: «Uno stato islamico in casa - L'Europa indecisa»

Dal GIORNALE del 18 febbraio 2008, un articolo di Maria Giovanna Maglie, contraria all'indipendenza del Kossovo:

La Serbia è la nazione sorella della grande madre Russia, e c’è anche di mezzo un gasdotto. Il Kosovo ha subito in passato torture e devastazioni a opera dei serbi, e anche in quel territorio passa un gasdotto. La dichiarazione unilaterale di indipendenza del Kosovo dalla Serbia, con l’appoggio, o la presa d’atto, di Stati Uniti e di una parte dell’Ue, contiene in sé pesanti elementi e pericoli di destabilizzazione, sarà il caso di tenerne conto anche in Italia, nonostante resti in carica fino alle elezioni il governo Prodi, che dovrà assumersi fino in fondo le responsabilità per le decisioni della Farnesina. L’autodeterminazione dei popoli è importante, infatti, ma non può scavalcare gli equilibri internazionali né prefigurare altre situazioni di separazione o rivolta, altrimenti il nostro povero continente si troverà come alla fine dell’Ottocento. Rischiano di rimetterci per primi i componenti della missione Eulex, spedizione civile con agenti di polizia, funzionari e magistrati, incaricati di accompagnare il cammino della provincia serba a maggioranza albanese verso la piena sovranità.
La decisione del governo del Kosovo e l’invio della missione Eulex non modificano in alcun modo la netta contrarietà del governo serbo, che non intende perdere il territorio considerato la culla della civiltà e della storia nazionale. La Russia ha già definito l’intera operazione illegale e immorale, ha chiesto l’immediata riunione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, citando proprio una risoluzione, la 1244, che fece del Kosovo un protettorato Onu ma confermò la sovranità serba.
C’è di peggio, perché le aree a maggioranza serba della provincia si rifiuteranno di seguire i kosovari nella secessione, anzi dichiareranno a loro volta la secessione da Pristina. Nel distretto di Mitrovica sarà relativamente semplice, c’è un ponte che divide la comunità albanese da quella serba, ma sarà invece complicato e pericoloso nelle piccole enclavi serbe sparse nel cuore del Kosovo. Potrebbe facilmente finire come in passato con le bande paramilitari degli opposti schieramenti libere di compiere assalti e razzie. Ma il timore legittimo non riguarda solo una nuova e sanguinosa destabilizzazione dei Balcani. Nel resto d’Europa fa paura il nazionalismo, pacifico o cruento che sia. Non ne vogliono sapere la Spagna che ha i baschi al nord, la Francia che ha i corsi, la Grecia, l’Ungheria, la Slovacchia, Cipro. Ieri Ossezia e Abkhazia hanno annunciato di volere l’autonomia dalla Georgia. Se la Macedonia torna a sognare la Grande Albania, Belgrado potrebbe rivalersi in Bosnia. Un incubo, al quale possiamo aggiungere l’ultima goccia di veleno: uno Stato musulmano povero e privo di istituzioni in Europa? Meglio la Turchia.

Da La STAMPA, l'editoriale di Enzo Bettiza, favorevole all'indipendenza kossovara:

Sarà dura ma dobbiamo sostenerli», dice Richard Pipes, americano d’origine polacca, massimo esperto di storia dell’Est europeo. Così la penso anch’io e dirò subito quello che nessuno, per pigrizia mentale o semplice ignoranza dei fatti, in questi giorni dice.
La notizia non è la dichiarazione d’indipendenza e del definitivo distacco kosovaro dalla Serbia. Come si prevedeva, essi scattano puntuali, a giro di posta, dopo le elezioni presidenziali di Belgrado. La vera notizia è la nascita di un altro Stato balcanico a maggioranza musulmana, che si aggiunge all’Albania islamica, alla Bosnia di fatto autonoma anch’essa islamica e alla Macedonia per un terzo islamica e albanofona. Credo che nell’esortazione di Pipes, già consigliere speciale dei governi Usa, secondo il quale l’Occidente non potrà sottrarsi all’obbligo di sostenere il nuovo Stato, sia implicito il fatto che il sostegno, se verrà dato, andrà a consolidare l’estensione delle aree statali a forte connotazione maomettana nei Balcani.
C’è un elemento positivo che di per sé spiega, al di là dell'ignoranza, il «silenzio stampa» sul carattere prevalentemente non cristiano del Kosovo che ieri si è separato formalmente dalla Serbia cristiano-ortodossa. Il silenzio deriva dal fatto che l’islamismo balcanico, di cui fanno parte più di due terzi degli schipetari, non ha destato mai particolari preoccupazioni giacché, anche nei momenti peggiori della dissoluzione jugoslava, non si è lasciato inquinare dal fondamentalismo dei volontari arabi e iraniani accorsi a difenderlo. Basta rileggere qualche pagina del Nobel bosniaco Ivo Andric per accorgersi che quello balcanico è stato da sempre, nella sua essenza, un islamismo europeo autoctono e moderato: tale è rimasto anche dopo l’assedio di Sarajevo, dopo l’olocausto di Srebrenica, dopo l’inaudita pulizia etnica di massa tentata nel 1999 da Miloševic nel Kosovo e interrotta dall’intervento militare della Nato.
L’antico radicamento europeo dell’islamismo balcanico, abituato da secoli a convivere civilmente con gente della medesima etnia slava ma non della medesima confessione, non ha mai presentato tratti di ghettizzazione rancorosa, rivendicativa, simile a quella che si può notare per esempio fra i depressi immigrati maghrebini della banlieue parigina. Si hanno molte e talora eccessive notizie di bande di contrabbandieri e di mafiosi operanti a Pristina, a Durazzo, a Sarajevo, a Skopje. Ma nessuna di santuari o gruppi terroristi legati ad Al Qaeda. L’Islam ancestrale dei Balcani, ancorché offeso nell’ultimo decennio del Novecento dai cattolici croati in Erzegovina e in particolare dai serbi ortodossi in Bosnia e nel Kosovo, costituisce insomma una rarità pregiata, un emblema di civiltà, che in un’epoca di tensioni e antipatie interconfessionali l’Europa avrebbe tutto l'interesse di curare e valorizzare al massimo.
Invece l’Europa, nel suo complesso, non si sta mostrando all’altezza del compito politico che la delicata quanto importante novità richiederebbe. Certamente è significativo che quattro grandi Paesi europei, Francia, Italia, Germania, Inghilterra, si dichiarino pronte a riconoscere e a soccorrere simbolicamente, oltreché tecnicamente, il consolidamento della nuova entità statale di Pristina con l’invio di una commissione speciale di giuristi e di esperti dell’ordine pubblico. È altresì significativo che l’Italia, dirimpettaia adriatica di slavi e albanesi, già presente con i suoi militari nel Kosovo, abbia deciso di esserlo anche con speciali reparti antisommossa in una regione dove la violenza rientra nel calcolo delle probabilità. Ma non meno significativa, in senso negativo, è la contestazione del carattere «unilaterale» dell’indipendenza da parte di spagnoli, romeni, bulgari, slovacchi, ai quali i ciprioti greci, sostenuti da Atene, aggiungono il loro no durissimo e dicono irremovibile.
L’Europa dei 27 che, in quanto tale, si limita a «prendere atto» della dichiarazione kosovara, dà così l’impressione di marciare in ordine sparso e confuso al cospetto di un problema che è e resta essenzialmente europeo. Una volta di più gli oscillanti europei sembrano muoversi al rimorchio della locomotiva americana.
Nel 1999 avevano aspettato la spinta di Clinton, al cui nome è dedicata una delle strade principali di Pristina, per imbarcarsi nella spedizione antiserba della Nato. Dopo nove anni sembrano seguire indecisi, sparpagliati, di malavoglia, la risoluta decisione di Bush di appoggiare contro i veti di Mosca e di Belgrado la statualità di diritto oltreché di fatto del Kosovo.
Comunque, tutto ciò che è accaduto ieri pomeriggio era prevedibile: l’emersione di un sesto Stato dallo smembramento dell’ex Jugoslavia, il forte augurio della Casa Bianca, il travolgente giubilo delle piazze dominate dagli albanesi, i torbidi nell’enclave minoritaria di Mitrovica, il grido di dolore e di minaccia del primo ministro serbo, il ricorso della Russia per il veto al Consiglio di sicurezza, infine i mezzi sì e i mezzi no di Solana che si finge ministro degli Esteri di un’Europa che non c’è. Con ogni probabilità le invettive serbe contro l’Europa, le parole dure dei russi contro l’America, gli allarmi per un effetto domino di esplosioni irredentistiche dai Paesi baschi al Caucaso, la pioggia di euro da Bruxelles per placare l’ira della Serbia e ridare ordine e legalità all’equivoco microcosmo del Kosovo, continueranno a infiammare le cronache per alcuni mesi. Ma non si andrà più in là.
Sarà lo stesso Putin ad evitare accuratamente il rischio di uno scontro senza ritorno con l’Occidente perché, nella sua ambiziosa agenda politica, il Kosovo resta un’arma tattica e secondaria. Resterà invece prioritaria, per lui, l’arma a lunga gittata strategica con cui dovrà camuffare e prolungare, dopo le elezioni presidenziali del 2 marzo, il suo potere personale per molti anni a venire. Gli stessi serbi europeizzanti, come il rieletto presidente Tadic, sanno benissimo che le cose stanno così e che il panslavismo di Putin sarà di durata provvisoria e quindi breve.

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