- La Fiera del libro di Torino e la storia del capitano Boycott
Dalla prima pagina del MESSAGGERO dell'8 febbraio 2008, un intervento di David Meghnagi
Fino alla seconda metà degli anni Ottanta i principali editori di sinistra in Italia hanno di fatto operato una silenziosa censura contro la letteratura israeliana. Il premio Nobel Agnon era quasi del tutto sconosciuto se non ci fosse stata la Bompiani.Lo stesso accadeva con il primo grande romanzo di Amos Oz incentrato sul dramma interiore di una donna posseduta dagli incubi di un’intera nazione. A tradurre Yehoshua era la Giuntina, una piccola editrice ebraica che ha avuto il grande merito di far conoscere per prima in Italia l’opera di Wiesel.
Eppure la letteratura israeliana come avrebbe poi dimostrato con la grande esplosione degli anni Ottanta e Novanta uno dei più grandi laboratori di scrittura, di pensiero e di invenzione linguistica di ogni tempo.
"La principessa addormentata", come con amore la chiamavano i padri fondatori della rinascita ebraica, per tornare in vita aveva bisogno del contatto più intenso con l’intero patrimonio culturale delle lingue parlate e scritte. Dalla filosofia all’arte, dalle scienza alla letteratura non vi è campo in cui i traduttori non si siano cimentati per trovare le parole per dire in un gioco di scambi unico tra la lingua dei testi contemporanei e quella delle Scritture.
Il clima è cambiato dopo la caduta del Muro di Berlino e con gli accordi di Oslo tra israeliani e palestinesi. Gli scrittori israeliani hanno fatto la fortuna dei loro editori. La letteratura è arrivata dove la politica appariva cieca e incapace di andare oltre gli stereotipi e i luoghi comuni della guerra fredda, dei pregiudizi e degli stereotipi del conflitto.
Se non fosse per le conseguenze devastanti sul piano morale e politico del boicottaggio, verrebbe da ridere amaramente di fronte all’idea che per malintesi sentimenti di solidarietà verso i popoli oppressi, qualcuno non trovi di meglio che prendersela coi libri. I libri come gli alberi non si possono difendere. Sono a loro a nutrirci ma se non li proteggiamo diventiamo noi stessi secchi e aridi.
Che a lanciare gli anatemi contro la Fiera del Libro, siano i fondamentalisti islamici non sorprende. Né sorprende se a fare da gran cassa siano i relitti di un comunismo che non hanno mai fatto realmente i conti con la tragedia dei gulag e del totalitarismo. Il copione è vecchio. Fa da sfondo ad un antisemitismo che si alimenta del conflitto mediorientale ed ha come oggetto la demonizzazione dello Stato di Israele e della sua esistenza.
L’aspetto più inquietante di questo nuovo antisemitismo è la riscoperta di "un sentimento di innocenza", che il vecchi antisemitismo non potrebbe rivendicare. L’odio un tempo rivolto contro gli ebrei in quanto singoli e in quanto comunità è oggi perversamente diretto contro lo Stato di Israele assurto a simbolo di ogni male. Come giudicare altrimenti la richiesta di estendere l’invito come ospiti d’onore della Fiera i palestinesi. La richiesta apparentemente moderata e ragionevole nasconde l’idea che lo Stato di Israele non è uno Stato come gli altri, non è uno stato sovrano, ma uno stato paria permanentemente in stato di osservazione, oggetto delle nostre proiezioni e di fantasmi irrisolti.
Come dovremmo giudicare altrimenti la confusione di termini e concetti che dovrebbero essere distinti, come Stato di Israele e Israele biblico, ebrei e israeliani. Unificati in un unicum indifferenziato gli ebrei come gli israeliani appaiono trasformati in un archetipo che li annulla come persone. Celebrati come "vittime" nel giorno della memoria, in un gioco di scambi e rovesciamenti perversi possono essere rappresentati come "carnefici" in quanto israeliani.
Ridotti ad immagine, privati di umanità propria ritornano come persone attraverso la grande letteratura che hanno saputo restituirci come dono. Anche per questo i nemici della Fiera vorrebbero che ne fossero allontanati. Vivendo di simboli necrofili, hanno in odio la vita e le persone reali.
Da La STAMPA, un intervento di Gian Arturo
Ferrari
C’è qualcosa di rozzo e brutale nell’appello al boicottaggio della Fiera di Torino. Non solo il tono, nella più parte dei casi propagandistico e quindi prevedibile, ma a volte mascherato invece da argomentazione razionale. Quanto la sostanza, costruita su false equazioni, presentate come ovvie, immediate. Israele uguale al Sud Africa dell’apartheid. La partecipazione alla Fiera uguale a operazione oscura (del Mossad?). Israele uguale a male assoluto, negatività, peggio dei peggi. Fino a un cupo e forsennato delirio: Israele razzista, genocida, nazista.
C’è qualcosa di soffocante, manca l’aria quando cadono tutte le distinzioni che articolano la civiltà e tutto si ammassa e si confonde in un bolo indigerito di ira e frustrazione. E allora uno Stato diventa la sua politica e questa il governo e il governo il burattinaio degli scrittori e gli scrittori - quelli di sinistra specialmente - gli utili idioti mandati in giro per fiere a ingannare i gonzi. Ci sarebbe qualcosa di triste se, alla fine, i grandi scrittori israeliani, tra le voci più alte che oggi onorano la letteratura e il mondo, a Torino non dovessero esserci. Perché, se così fosse, vorrebbe dire che un tentativo, per quanto limitato, antiquato e rozzo, di mettere a tacere avrebbe avuto successo. E questo noi non dovremmo permetterlo.
Di per sé l’editoria libraria non è un’attività particolarmente nobile o elegante. Ha a che vedere, ma non si identifica, con la cultura. Ha a che vedere, ma non si identifica, con il commercio. La sua gloria consiste nel fatto di essersi storicamente rivelata come il mezzo di gran lunga più efficace per diffondere la cultura. Là dove i grandi imperi e le religioni secolari avevano fallito, gli industriosi editori e i solerti librai, attenti ai loro modesti profitti, sono riusciti. Ma, per farlo, hanno avuto bisogno - come dell’aria - della libertà di espressione. Un grande principio, certo, ma per loro una condizione del tutto pratica, la possibilità stessa della loro esistenza. Se la sono conquistata e intendono difenderla. Ancor oggi, soprattutto oggi, lo stato di salute di una cultura si misura dalla libertà con cui si può esprimere, vale a dire, in concreto, dagli ostacoli che vengono frapposti al suo esercizio. E dalla sua capacità di superarli. Può essere un singolo libro che va tolto dalla circolazione, un singolo autore che va messo a tacere. O un gruppo di autori, una scuola, una corrente. O addirittura, come nel nostro caso, un’intera cultura nazionale cui viene negato un diritto di presenza, di parola collettiva. Ma ogni volta non è mai in discussione il singolo, libro o autore o gruppo che sia, bensì l’atmosfera, la respirabilità nel suo insieme. L’inquinamento, anche se l’agente è minuscolo, si estende immediatamente e inaridisce le fonti della creazione, della conoscenza, della fantasia. Dunque bisogna ringraziare i responsabili della Fiera, i finanziatori, privati e pubblici, i responsabili politici per aver assunto una posizione inequivoca. Difendono qualcosa di essenziale per tutti noi.
Ebbi la fortuna di assistere all’ultimo discorso pubblico di Susan Sontag, quando ricevette a Francoforte il Friedenpreis. Era molto malata e lo sapeva; sarebbe morta di lì a pochi mesi. Ma era ancora pugnace e combattiva, una liberal americana non chic e non certo da salotto. Dura e intelligente. Fu feroce con Bush, che maltrattò per tutto il discorso. Ma alla fine raccontò un episodio e si capì che era il suo commiato, quello vero. Da piccola - disse - viveva in Arizona, a poca distanza da un campo di prigionia per tedeschi, di cui lei, ragazzina ebrea, aveva una terribile paura e che temeva venissero di notte ad assalirla. Nel frattempo un suo bizzarro professore, che aveva combattuto contro Pancho Villa e che si era stranamente innamorato della letteratura tedesca, le fece leggere i grandi classici, Goethe e Schiller e Heine, le trasmise il suo amore. Molti anni dopo, quando il suo primo libro fu tradotto in tedesco, conobbe in Germania il suo redattore. Il quale, molto rispettoso, la informò preventivamente che durante la guerra non aveva fatto nulla di male, avendola per la più parte trascorsa in un campo di concentramento americano. In Arizona. In quel campo. Dove, essendo bene alimentato e non avendo nulla da fare, si era dedicato a leggere i grandi classici americani, Melville e Poe e James. E se ne era innamorato. Questo, concluse Susan Sontag, è il senso della letteratura: superare le barriere di cultura, di tempo e di spazio. Superare le diffidenze, le paure e i pregiudizi. Potersi incontrare. La letteratura - disse - è libertà.
Dal CORRIERE della SERA, una cronaca su un appello al Presidente della Repubblica Napolitano perché partecipi alla Fiera di Torino: |
L' Italia risponda con le parole e la presenza della massima autorità istituzionale all'inqualificabile boicottaggio della Fiera del libro di Torino, che dall'8 al 12 maggio avrà come Paese ospite Israele, proposto da esponenti della sinistra radicale italiana e del mondo islamico, come Tariq Ramadan. È questo il senso di una lettera aperta inviata da Bruna Ingrao, docente di Pensiero economico alla Sapienza di Roma, al presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. «In occasione del suo discorso di insediamento il 15 maggio 2007 — comincia l'appello al Presidente cui hanno subito aderito decine di intellettuali e politici — Ella incitò a costruire una cornice di politica internazionale, condivisa dagli opposti schieramenti politici, "nel pieno riconoscimento del diritto dello Stato di Israele a vivere in sicurezza e del diritto del popolo palestinese a darsi uno Stato indipendente"». Dopo aver condannato «l'antisemitismo mascherato da antisionismo, che si accanisce contro l'intero popolo israeliano» e aver ricordato i meriti dello Stato israeliano nel preservare e far vivere la millenaria cultura ebraica, i firmatari della lettera chiedono a Napolitano, «nel pieno rispetto della sua autorità istituzionale, di esprimersi fermamente contro ogni discriminazione e cieca intolleranza verso i cittadini dello Stato di Israele» e «di voler onorare con la sua presenza la prossima edizione della Fiera del libro a Torino, per avere occasione d'incontrare in quella sede gli scrittori israeliani invitati a parteciparvi, a testimonianza dell'amicizia e dell'accoglienza che la nazione italiana offre agli autori israeliani, che si sono distinti per i meriti della loro opera letteraria ». Tra i primi firmatari dell'appello, Magdi Allam, Massimo Cacciari, Ernesto Galli della Loggia, Giulio Giorello, Giorgio Israel, Andrea Marcenaro, Piergaetano Marchetti, Alberto Martinelli, Pierluigi Battista, David Bidussa, Stefano Menichini, Riccardo Muti, Stefano Parisi, Filippo Penati, Michele Salvati, Andrée Ruth Shammah, Salvatore Natoli, Piero Ostellino. Nella discussione sul boicottaggio della Fiera da registrare ieri anche la meravigliata presa di posizione di Meir Shalev, uno degli scrittori israeliani che saranno presenti al Lingotto. «Non mi capacito — ha detto Shalev a "Stella", un programma quotidiano di Maurizio Costanzo su Sky Vivo — come il Paese di Galileo, Dante, Michelangelo, Elsa Morante, Natalia Ginzburg, possa parlare di boicottaggio culturale». Riferendosi ai fautori del boicottaggio lo scrittore israeliano ha aggiunto: «Credo che le piccole minoranze possano essere molto pericolose, attive e fastidiose, dunque ritengo che la maggioranza degli italiani dovrebbe farsi sentire».
Di seguito, il testo dell'appello:
Lettera aperta al Presidente della Repubblica
Al Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano
Signor Presidente,
in occasione del suo discorso d’insediamento il 15 maggio 2007 Ella invitò a costruire una cornice di politica internazionale, condivisa dagli opposti schieramenti politici, "nel pieno riconoscimento del diritto dello Stato di Israele a vivere in sicurezza e del diritto del popolo palestinese a darsi uno Stato indipendente".
Come cittadini italiani noi apprezzammo il suo limpido monito di allora a respingere ogni rigurgito d’antisemitismo, anche quando l’antisemitismo si mostra mascherato da antisionismo. E’ quanto accade oggi, con la pretestuosa e violenta polemica volta a boicottare la libera decisione degli organizzatori della Fiera del Libro di Torino di scegliere Israele come paese di cui si accoglie e si ascolta la letteratura. E’, ancora una volta, il tentativo di negare agli ebrei d’Israele il diritto d’essere nazione, di avere cittadinanza tra i popoli e di portare nel mondo, con la dignità di cittadini, la lingua e la cultura ebraica. E’ l’antisemitismo mascherato da antisionismo, che si accanisce contro l’intero popolo israeliano, che vuole tacitarne persino la voce più profonda e intima, la lingua letteraria, o pretende di condizionarne l’espressione a umilianti rituali di bilanciamento.
Israele è uno Stato che la Repubblica italiana liberamente riconosce e con il quale intrattiene relazioni d’amicizia e cooperazione. Israele è la patria per la metà della popolazione ebraica nel mondo. Israele è il paese che ha fatto rinascere l’ebraico come lingua viva, quando le comunità ebraiche erano annientate in Europa. Israele è il paese che con le sue vivaci istituzioni culturali preserva e fa vivere la memoria della millenaria cultura ebraica. Israele onora e piange le vittime della Shoà nel memoriale di Yad Vashem, ricorda i Giusti delle nazioni. I cittadini dello Stato d’Israele che portano in Italia la testimonianza della loro lingua letteraria, della loro poesia, del loro narrare, siano i benvenuti nel nostro paese. La loro libertà sul suolo italiano è la nostra libertà e il nostro onore.
Agli scrittori israeliani invitati alla Fiera del Libro di Torino noi tutti dobbiamo riconoscenza per le loro voci d’umanità e saggezza, per le testimonianze di vita contemporanea che ci trasmettono, per le memorie che fanno rivivere di famiglie e comunità, per la capacità di restituirci in ebraico, con la vivida efficacia del racconto e ciascuno nella propria tonalità, i conflitti interiori, le passioni, le vicende storiche. Siamo loro grati perchè c’invitano a indagare con coraggio e pietà, con speranza, il fondo di comune umanità, luce e ombra, che tutti ci lega e ci accomuna. Se la loro voce fosse impedita sul suolo italiano, se la Repubblica italiana non sapesse tutelarne la libertà di parola e testimonianza entro i propri confini, se dovessero essere esposti a episodi di violenza o scherno, sarebbe, crediamo, una gravissima violazione della libertà nella nostra democrazia, una ferita aperta, una vergogna per l’immagine dell’Italia all’estero.
Signor Presidente,
nel pieno rispetto della sua alta autorità istituzionale, con fiducia nel suo ruolo di garante della Carta Costituzionale, Le chiediamo d’esprimersi fermamente contro ogni discriminazione e cieca intolleranza verso i cittadini e la cultura dello Stato d’Israele.
Signor Presidente,
Le chiediamo di voler onorare con la Sua presenza la prossima edizione della Fiera del Libro a Torino, per avere occasione d’incontrare in quella sede gli scrittori israeliani invitati a parteciparvi, a testimonianza dell’amicizia e dell’accoglienza che la nazione italiana offre agli autori israeliani, che si sono distinti per i meriti della loro opera letteraria in ebraico.
Bruna Ingrao
Roma, 6 febbraio 2008
Hanno aderito: Luca Alessandrini, Magdi Allam, Pierluigi Battista, Daniela Benelli, Silvia Berti, Antonella Besussi, David Bidussa, Massimo Cacciari, Carlo Cerami, Valentina Colombo , Luigi Compagna, Emanuelle De Villepin, Dounia Ettaib, Ernesto Galli della Loggia, Giulio Giorello, Angelo Guerini, Giorgio Israel, Andrea Marcenaro, Piergaetano Marchetti, Alberto Martinelli, Cristina Mazzavillani Muti, Stefano Menichini, Giovanni Moglia, Riccardo Muti, Salvatore Natoli, Fiamma Nirenstein, Piero Ostellino, Carlo Panella, Stefano Parisi, Nicola Pasini, Filippo Penati, Michele Salvati, Sergio Scalpelli, Andrèe Shammah, Ermanno Tritto, Ugo Volli
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Un articolo di Dimitri Buffa da L'OPINIONE
Il caso che si è creato dopo la pensata un po’ infame di lanciare una campagna di boicottaggio contro la Fiera del libro di Torino (“rea” di avere invitato gli scrittori dello stato di Israele il prossimo maggio come ospiti d’onore, dato che cade in quei giorni anche il sessantesimo anno dalla fondazione dello stato ebraico) sta creando fratture politiche forse insanabili nella sinistra italiana.
Ieri si è parlato di questo e di altre cose molto poco politically correct nel convegno “Israele e e la minaccia di boicottaggio culturale” tenutosi alla sede della Fnsi a Roma. Tra gli ospiti, insieme a Khaled Fouad Allam, Davide Meghnagi, Valentino Parlato, Peppino Caldarola, Fabrizio Cicchitto e il direttore dell’Opinione Arturo Diaconale. Le relazioni sono state precedute dalla lettura di una lettera di Piero Fassino, ex segretario dei Ds, che non ha potuto essere presente. Fassino assicura l’appoggio suo e del Partito democratico nel contrastare questa campagna di boicottaggio culturale e dice che “boicottare Israele significa negare al popolo ebraico il diritto di esistere come nazione”. Ma la vera notizia è che “fa notizia” il fatto che su questa posizione si schieri apertamente il direttore storico del “Manifesto”, Valentino Parlato.
Che ieri ha confermato le proprie idee, costate valanghe di insulti dai lettori del famoso “quotidiano comunista” e da tutta la sinistra antagonista. Parlato ha detto che proprio oggi uscirà un altro editoriale del direttore responsabile del quotidiano, Mariuccia Ciotta, per ribadire che questa è la linea del “manifesto”: no al boicottaggio. Ma la cosa, messa così, rischia di diventare una foglia di fico per coprire le vergogne mediatiche di un quotidiano che su questo argomento, cioè il conflitto israelo-arabo-palestinese, usa giornalisti che sono interscambiabili con gli attivisti di Forum Palestina. Parlato parla di impossibilità di essere bipartisan su questa storia del boicottaggio, concetto che è stato apprezzato anche dagli altri oratori, nel senso che non si può dialogare con chi vorrebbe assimilare Israele al Sudafrica di 30 anni fa. Ma qui finisce la condivisibilità delle tesi espresse da Parlato, che non può fare a meno di evocare le colpe cattoliche dell’antisemitismo con la teoria del “deicidio” e aggrapparsi alla retorica del povero palestinese che si staglia sullo sfondo per giustificare queste campagne di odio. Non una parola invece sui veri oppressori di quel popolo che sono proprio tra chi li comanda e impone ai loro giovani di trasformarsi in kamikaze come fa ad esempio Hamas anche per conto dell’Iran di Ahmadinejad.
Peppino Caldarola nel suo intervento è sembrato molto più apprezzabile allorchè ha ammesso che le proprie posizioni a favore del diritto di Israele ad esistere stanno diventando minoritarie a sinistra. Molto acuto anche il filologo David Meghangi, titolare di una master post laurea sulla Shoà all’Università Roma tre, secondo cui “questi ideologi che promuovono il boicottaggio contro Israele” sono “malati di necrofilia” perché identificano nell’ebreo una sorta di simbolo astratto che è da venerare quando incarna la parte della vittima, ma da abbattere quando, a loro avviso, difendendosi dal terrorismo, “diventa carnefice”. L’allusione ai filosofi dal pensiero debole come Gianni Vattimo non era affatto casuale. E quel nome è stato evocato come esempio del doppio standard di giudizio. Qualcuno ha anche detto che la giornata della memoria del 27 gennaio sta diventando un po’ come la festa della donna dell’8 marzo. Un giorno in cui ci si lava la coscienza a basso prezzo. Cicchitto giustamente ha rilevato che “è un finto problema quello che gli scrittori israeliani invitati siano tutti critici verso il governo in carica”, perché “non è che se fossero stati a favore allora il boicottaggio sarebbe stato legittimo”. E usare questi argomenti per condannare il boicottaggio è un po’ come doversi scusare di avere una posizione differente in materia dagli agit prop del partitino di Diliberto.
Diaconale, che ha parlato per ultimo, ha messo anche il carico da undici sull’ipocrisia sempre un po’ sottintesa in questi dibattiti: “Molti di coloro che stanno promuovendo questo boicottaggio sono anche tra quelli che si fanno fotografare il giorno della memoria tra le autorità dello stato”. Insomma finchè gli ebrei con cui essere solidali sono già morti da sessanta anni allora tutto bene, il problema viene con quelli vivi che si difendono dal terrorismo. E fa veramente cascare le braccia che a sessanta anni dalla fondazione dello stato di Israele il tanto odio terzomondista seminato dalla sinistra in maniera molto grossolana dal dopoguerra a oggi abbia avuto come unico risultato visibile il far rinascere sentimenti anti ebraici “di ritorno” in Europa. E oggi l’antisemitismo è diventato un’ideologia politica, prevalentemente di sinistra o di “destra sociale”, molto alla moda, quasi come il catastrofismo ecologico, mascherata da antisionismo e con la giustificazione di comodo della causa palestinese. Esattamente come aveva rilevato persino il capo dello stato circa un anno fa.
Da TEMPI di giovedì 8 febbraio:
La Fiera del libro invita Israele come ospite d’onore e Torino si ritrova boicottata dal solito manipolo di fanatici intolleranti. Da Vattimo a Fo, dal Manifesto alla Morgantini, così gli Hamas de noantri mostrano il peggio di sé
La storia è cominciata quando a novembre gli organizzatori della Fiera internazionale del libro di Torino, che si svolgerà dall’8 al 12 maggio al Lingotto fiere, hanno reso noto, come ogni anno, il nome del paese che sarà l’ospite d’onore alla manifestazione. Israele, in occasione del sessantesimo anniversario dall’indipendenza. Da allora è scoppiato il caso e Tempi ha ricostruito questa storia con l’aiuto di una voce autorevole, da molti anni impegnata con la cultura israeliana, che desidera rimanere anonima "per motivi di sicurezza personale". La prime reazioni all’annuncio si sono avute "da parte delle frange più estreme della sinistra: centri sociali, Comunisti italiani, Rifondazione, cui ha fatto seguito il mondo di internet, blogger e siti deliranti". Uno per tutti forumpalestina.org. "Fino ad arrivare a Luisa Morgantini, vicepresidente del Parlamento europeo". Parola d’ordine: boicottaggio. La questione inizia a farsi spinosa quando la protesta guadagna l’attenzione della stampa nazionale, a partire dai portabandiera Liberazione e Manifesto (con l’illustre eccezione di Valentino Parlato), cui si accodano voci dell’intellighenzia nostrana, come quella del filosofo Gianni Vattimo. "La reazione generale tuttavia non è quella che i sopraccitati beceri odiatori di Israele si sarebbero aspettati, bensì un bel "no al boicotaggio"". Attenzione però, perché fra coloro che dicono no "si sono infilati gli odiatori di Israele più pericolosi. Favorevoli all’invito di Israele, che avrà così l’occasione di raccontare tutte le brutture di cui quotidianamente si macchia. E chiedere ammenda. Dietro il pretesto del dialogo si vuole istituire un processo allo Stato di Israele". Nonostante ci siano state prese di posizione lucide, "come quelle del Corriere della Sera, per esempio, con gli interventi di Claudio Magris e Pierluigi Battista, e di Libero", impegnato in una raccolta di firme contro il boicottaggio, oltre che coraggiose, come quella del sindaco di Torino Sergio Chiamparino, il terreno rimane accidentato. Proprio Ernesto Ferrero, direttore della Fiera, e Rolando Picchioni, presidente della Fondazione organizzatrice, insistendo sul fatto che l’ospite è la cultura di Israele, non il suo governo, e "separando faziosamente cultura e politica", non fanno altro che "buttare acqua sul fuoco, mentre dovrebbero dire che posizioni, come quella dell’intellettuale egiziano Tariq Ramadan, che quest’anno si rifiuta di partecipare alla fiera, diffondono l’odio. Perché il pericolo vero sta nell’antisionismo che maschera l’antisemitismo". A questo bisognerebbe sapere come si pronunciano in merito alcuni tra i principali protagonisti della Fiera del libro, ossia le case editrici. Ma Mondadori, Garzanti, Rizzoli, Sperling&Kupfer, Bollati Boringhieri ed Einaudi non hanno risposto alle domande di Tempi. D’altronde per loro si tratta di una vetrina dove esporre prodotti. Nulla più. E dove il politicamente corretto dà diritto a qualsiasi libro di circolare, delegando il giudizio al lettore. A Torino infatti hanno esposto anche case editrici che pubblicano libri negazionisti rispetto all’Olocausto, come le Edizioni di Ar di Franco Freda, già fra i principali imputati della strage di Piazza Fontana. L’unico editore a rispondere è stato il gruppo Mauri Spagnol nella persona di Luigi Brioschi, direttore editoriale Longanesi e direttore di Guanda. "Queste polemiche rivelano un errore prospettico in quanto si tratta di un invito a scrittori. Non invitarli sarebbe come considerarli organici al potere politico. Il Salone è un luogo di commercio di cultura quindi posizioni contrarie ostacolano il dialogo, ossia la libertà culturale". Più sottile è la posizione della Stampa dove imperversano Moni Ovadia e il suo amico Dario Fo "legati a doppio filo all’estrema sinistra favorevole alla delegittimazione di Israele", continua il nostro interlocutore. Fo, vestiti i panni di paladino del dialogo, dopo la personale gaffe che lo ha visto dichiarare che la Palestina fa parte dell’Africa, propone di rimediare alla "gaffe politica" della fiera che dovrebbe piuttosto invitare scrittori arabi in ugual numero rispetto ai colleghi israeliani. Già, peccato che l’esempio di Ramadan (il quale ha dichiarato, e poi smentito, che "non si può accettare nulla che provenga da Israele") l’abbiano seguito in molti arabi, come il romanziere Ibrahim Nasrallah, il presidente dell’Associazione degli scrittori arabi Mohamed Salmawy, il presidente dell’Unione degli scrittori palestinesi Mutawakkil Taha, l’intellettuale Tariq Ali che parla di "brutta provocazione". Chi lamenta l’onta di ospitare un paese "razzista, fascista, coloniale" è il primo che, abdicando all’utilizzo della ragione, si comporta da nemico della libertà. Mentre per quanto riguarda la cosiddetta triade degli scrittori israeliani, Amos Oz, David Grossman e Abraham Yehoshua, a cui si può aggiungere Edgar Keret, "fuori Israele vengono pubblicati solo quando criticano il loro Stato. Ma le loro posizioni sono più variegate ed equilibrate. Per esempio nessuno rende noto che per due mesi Amos Oz è stato consigliere di Ehud Olmert per la conferenza di Annapolis". Curioso. Come il fatto che dal 14 al 19 marzo anche al Salone del libro di Parigi Israele sarà il paese ospite d’onore, eppure Oltralpe nessuna voce di dissenso si è ancora sollevata. Come mai? "La Francia ha una sinistra diversa dalla nostra, che è prigioniera dell’ideologia comunista, soprattutto dell’estrema sinistra. Siamo intrappolati negli anni Sessanta e Settanta". Idee chiare, in disaccordo con l’establi-shment culturale vigente, le ha anche Andrée Ruth Shammah, regista teatrale ebrea erede di Franco Parenti: "Nessuna persona sana di mente può non prendere posizione a riguardo. Il fatto è che la Fiera ha invitato dei veri giganti che rappresentano oggi il fenomeno letterario più clamoroso. Chi si oppone è contro la cultura, in quanto guidato da un atteggiamento pregiudiziale e ideologico. Quello che voglio dire è che cultura significa guardare la complessità, per questo l’atteggiamento di chi non vuole Israele alla Fiera non è rispettoso nei confronti dell’arte, del talento e della qualità, e sostiene di fatto la parte più barbarica del mondo. Chi è contro l’arte infatti è un barbaro, e chi è contro la libertà e favorisce la cultura del male, come dice Magdi Allam, è contro la vita".
Da Il MANIFESTO, un articolo di Giampaolo Calchi Novati, che critica tutti coloro che si sono schierati contro il boicottaggio (i loro argomenti non sottolineavano abbastanza che comunque Israele resta cattivo), che però nemmeno lui sostiene.
Per difendere e possibilmente far trionfare le buone cause è preferibile mettere in campo buoni argomenti e esporli nei modi appropriati. Una regola d'oro che nel dibattito esagitato sul boicottaggio sì o boicottaggio no della «comparsata» di Israele alla Fiera del libro di Torino attraverso i suoi scrittori più noti si è andata perdendo per strada. Nelle motivazioni di chi ha disapprovato o condannato l'iniziativa «anti-Israele» più del merito della questione in sé hanno contato altri stimoli: l'ottimismo della volontà (Valentino Parlato, che ha lanciato il sasso), il culto della medietà (Piero Fassino), la scomunica della controparte (Pierluigi Battista), la Shoah come male assoluto (Khaled Fuad Allam), per citare solo alcune voci, ognuna a suo modo degna. Quasi tutti, ad abundantiam, hanno dimostrato una desolante carenza di «storicità».
Il capitano Charles Cunningham Boycott (1832-1897), agente della tenuta del conte di Erne, fu «boicottato» perché si era rifiutato di accettare i pagamenti dei fittavoli fissati secondo i loro calcoli. La sua vita fu resa impossibile per indurlo a recedere dall'intransigenza. Da quel lontano 1880 boicottare ha significato astenersi dall'intrattenere rapporti commerciali o sociali con colui su cui si vuole esercitare una pressione per raggiungere un determinato obiettivo. Non è in gioco l'esistenza o il riconoscimento. Si riconosce anzi l'autorità e la volontà di un soggetto pienamente responsabile. Nessuno ha mai pensato di negare l'esistenza della Cina o della Libia quando i loro regimi sono stati boicottati o quando si chiede di boicottare le Olimpiadi di Pechino. Non si vorrebbe che il salto logico dal dissenso su un evento specifico all'apocalisse tradisse una qualche insicurezza proprio fra i paladini di Israele, se non sul suo diritto a esistere almeno sulla legalità o legittimità di troppi dei suoi atti compiuti nel passato e nel presente.
Se la discussione avesse riguardato veramente la censura o l'ostracismo di libri e autori sarebbe finita prima di cominciare (nel cestino, come scrive Magris). I precedenti in materia sono troppo pesanti per agire alla leggera. Al più, con un po' di fair play, si potrebbe ammettere che, al pari degli animali orwelliani, non tutti i libri (o film) sono eguali e hanno lo stesso accesso e la stessa visibilità. Non si capisce perché fingere di ignorare la portata politica dell'operazione (nei due sensi). Non per niente Repubblica cita di più l'impegno civile di Grossman che il valore dei suoi romanzi. La direzione della Fiera non discute con una ong ma con il personale dell'ambasciata israeliana. La distinzione fra governo e stato è ineccepibile e è stata da sempre un cavallo di battaglia di chi è solito criticare la politica del governo di Israele senza mettere in discussione lo stato. A rigore, però, c'è più corrispondenza fra i due livelli negli stati democratici, quale è Israele, dove il governo risponde al corpo elettorale, che negli stati in cui al popolo è precluso persino di esprimersi con il voto. Comunque, si tratti di sport, di viaggi o di commercio, risparmiare ai cittadini o ai lavoratori innocenti gli effetti collaterali delle campagne di boicottaggio contro un regime o una multinazionale è pressoché impossibile.
A ben vedere, il motivo che ha spinto qualcuno a opporsi alla presenza degli scrittori israeliani al Lingotto è lo stesso che, al contrario, sorregge la posizione a favore. Si è detto che si perderebbe una buona occasione per discutere la «questione israeliana» o se si vuole la «questione palestinese». In realtà, volendo, le occasioni per una simile discussione non mancano con o senza gli scrittori che verranno da Gerusalemme o Haifa. Ci sia la pace o la guerra, le tribune sono sempre aperte. E' la verità fattuale che non passa, oscurata da mitologie che tengono il posto della storia, disinformazione, pregiudizi e cattiva coscienza. I palestinesi, accusati di un «rifiuto», sono vittime a loro volta di un piccolo o grande rifiuto che è evidentemente più forte della formuletta rituale dei due stati per i due popoli. Già Arafat a suo tempo lamentava che il diritto di autodeterminazione di 1800 inglesi trapiantati nelle Falkland-Malvinas aveva mobilitato la grande armata dell'ex-impero britannico e la solidarietà di mezzo mondo mentre nessuno proteggeva il diritto di milioni di palestinesi. Anche nella condotta corrente dei governi, delle istituzioni mondiali o dei media è facile constatare la discrepanza fra i diritti riconosciuti (anche di ribellione) alla Cecenia o al Darfur rispetto alla Palestina.
Possibile che a nessuno degli apologeti di Israele sia venuto in mente il parallelo impossibile fra il boicottaggio virtuale di alcuni scrittori con le loro opere e il boicottaggio reale di un intero popolo? Dopo tante insistenze perché la Palestina si dotasse di un governo «democratico», i palestinesi hanno avuto il torto - per protesta, per disperazione o come ultima speranza - di dare il loro voto a Hamas. Stato, governo o popolo? Israele, seguito dagli Usa e Ue, ha dovuto solo dichiarare che Hamas è un «movimento terrorista». I palestinesi, per di più, lanciano razzi, colpevolmente e vanamente, illudendosi di far sentire così la loro presenza. Tutto il resto, assassini mirati, incursioni, bombardamenti, taglio della corrente elettrica, diventa una reazione legittima. Sarebbe osceno pesare i libri con la vita di un bambino. Nelle condizioni di degrado e violenza (anche tra fratelli) in cui vivono i palestinesi di Gaza e Ramallah, nascosti dietro ai loro bravi muri, fra quelle strade e case in rovina, recintati e intimiditi, un boicottaggio non sembra neanche tale.
Lasciamo che Amos Oz, Grossman e Yehoshua sbarchino a Torino. Sono i benvenuti. Hanno fatto letteratura buona o ottima e una politica mediocre. Qualche distinguo, un po' di emozione condivisa nei momenti più dolorosi, nessun antagonismo. Dopo tutto, «liberare» la Palestina, chissà come e perché, lungo percorsi che si fanno sempre più impervi e manipolati, spetta anzitutto e soprattutto ai palestinesi e, in aggiunta, a Israele, paradossalmente all'Israele in grado di credere fino in fondo nella sua forza morale e culturale.
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