Editoriali e interviste sulla Fiera del libro e sul boicottaggio antisraeliano
Testata:Il Giornale - Corriere della Sera - La Stampa - Il Foglio - Avvenire - L'Unità - La Repubblica - Shalom - L'Opinione - Il Manifesto Autore: Fiamma Nirenstein - Claudio Magris - Aldo Grasso - Arrigo Levi - Elan Loewenthal - Emanuela Minucci - la redazione - Franco Cardini - Edoardo Castagna - Alberto Stabile - Umberto De Giovannangeli - Angelo Pezzana - Dimitri Buffa - Michelangelo Cocco Titolo: «La Shoah di carta apre una breccia a sinistra - Proteste da cestinare senza discutere - Cari Fazio e Dandini dite qualcosa sulla fatwa - Attaccano la Fiera per colpire Israele - La cultura è il terreno del dialogo - E se invitassimo i palestinesi? - Rida»
Fiamma Nirenstein - Claudio Magris - Aldo Grasso - Arrigo Levi - Elan Loewenthal - Emanuela Minucci - la redazione - Franco Cardini - Edoardo Castagna - Alberto Stabile - Umberto De Giovannangeli - Angelo Pezzana - Dimitri Buffa - Michelangelo Cocco
La Shoah di carta apre una breccia a sinistra - Proteste da cestinare senza discutere - Cari Fazio e Dandini dite qualcosa sulla fatwa - Attaccano la Fiera per colpire Israele - La cultura è il terreno del dialogo - E se invitassimo i palestinesi? - Ridateci la Stampa - L'autogol di Ramadan - Boicottare i libri Follia intellettuale - Grossman: incompatibili cultura e boicottaggio - Meir Shalev: boicottare significa rompere ogni dialogo - Israele alla Fiera del libro - Quando la cultura diventa intollerante - E' un'occasione di propaganda
Da Il GIORNALE del 5 febbraio 2008, un articolo di Fiamma Nirenstein:
È micidiale ma anche molto salutare la polemica sul prossimo Salone del Libro di Torino che, viene confermato dalla direzione insieme a Elazar Cohen dell’ambasciata, onorerà l’impegno preso con lo Stato d’Israele nel sessantesimo anniversario della sua nascita di avere lo Stato Ebraico come ospite. Micidiale per vari motivi: gli oppositori duri della scelta di invitare lo Stato Ebraico come ospite nel suo sessantesimo anniversario si sono scoperti usando argomenti belluini e miserabili, minacciando e mentendo, ridicolmente indicando nello Stato di Israele una banda di persecutori, di assassini; si sono dimostrati ciechi di fronte alla resurrezione del popolo ebraico dopo la Shoah e dopo tanti anni di diaspora; ignorano l’aggressione che Israele, sempre pronta a condividere il territorio spartito dall’Onu, subisce dal 1948, e della colpevole stupidità con cui i palestinesi hanno sempre rifiutato ogni proposta di pace. Dicono un sacco di sciocchezze con tono di sicumera, e ci danno così la misura di quanto sia stato a forza di urla inconsulte e di disinformazione che in Italia si è diffuso il discorso politico che ieri si collegava al rifiuto arabo filosovietico, oggi prende le mosse da Ahmadinejad, Hamas, Hezbollah, Al Qaida; di fatto è in nome di una serie di bugie (come quella ripetuta ad nauseam che Israele, che di fatto l’ha sgomberata, “assedi” Gaza che invece in realtà assedia la popolazione civile israeliana con missili e attentati come quello di ieri) che lo schieramento anti Salone indica Israele come spazzatura della storia. L’Occidente deve prepararsi alla prossima scomparsa di Israele, dice Ahmadinejad; qui da noi, chi indica come lebbrosi i suoi intellettuali, ne segue le tracce. L’odio emerge, quel che è peggio, travestito da amore per i diritti umani, e nessuno degli indignati pensa di opporsi alla prossima scelta del Salone per Egitto, o, che so, alle Olimpiadi in Cina. Oltre alla scia dell’odio, ce n’è anche un’altra che, come una bava di lumaca ha segnato questo dibattito: è la posizione di chi dice, dopo qualche ovvietà sull’importanza dello scambio culturale, che gli scrittori israeliani non sono Olmert, che sono artisti, anzi, artisti di sinistra, e che quindi non sono responsabili delle scelte di Israele. Intanto, questo mette automaticamente al bando gli intellettuali israeliani non di sinistra, scelta quanto meno bizzarra quando si parla del ruolo universale della cultura. Ci sono ottimi intellettuali israeliani su ambedue i versanti politici, come in America, o in Italia, e là, come in ogni altro Paese con una storia profondamente legata a quella del loro Paese. Chi ha letto i libri di Oz, Yeoshua, Grossman, sa quanto anche questi autori siano alla fine dei patrioti, cosa indispensabile in uno stato assediato. E poi, che ha fatto di male il povero Olmert, che cerca disperatamente come tutti i suoi predecessori quell’accordo di pace che è invece il mondo arabo a non voler concedere? Qualcuno si ricorda quante ne sono state dette su Begin, su Rabin, su Barak, su Sharon, tutta gente che alla fine altro non ha fatto che tentare invano il sogno di Israele, quello di cedere territori in cambio di pace? La mentalità per cui da noi si legittima soltanto “l’altra Israele” è proprio la menzogna che consente all’odio di riempire la propria faretra di frecce infuocate, e al mondo arabo di comportarsi irresponsabilmente. Ma dicevamo, c’è stato anche un aspetto assai positivo nella vicenda: si è finalmente mostrato un universo che alle cene o nei dibattiti è sempre molto timido, e che invece esiste, sembra, anche a sinistra: quello di chi ritiene ridicolo, comunque, criminalizzare Israele in toto. In parecchi, compreso il sindaco di Torino Sergio Chiamparino o l’on. Piero Fassino, hanno mostrato il petto nello scontro, coraggiosi islamici come Magdi Allam e Khaled Fouad Allam hanno fatto sentire la loro voce dicendo una cosa che deve entrare nella coscienza comune urgentemente: Israele è oggi un punto centrale nel dibattito internazionale, non è permesso ripetere formule cretine, nessuno può dirsi civile se non parte dalla piena cittadinanza intellettuale e civile a quel piccolo Paese che fondò prima la Filarmonica e l’Università e poi lo Stato, e che celebra quest’anno solo 60 anni tormentati da guerre indesiderate.
Un articolo di Claudio Magris dalla prima pagina del CORRIERE della SERA
Sollecitato a scrivere sull'inqualificabile contestazione dell'invito rivolto quest'anno a Israele — come è accaduto in passato e accadrà in futuro nei confronti di altri Paesi — a partecipare quale ospite d'onore alla Fiera del Libro di Torino, mi ero astenuto. Mi ero astenuto perché ritengo che si possa e debba discutere di ciò che magari avversiamo ma consideriamo degno e dunque avente il diritto di esser preso in considerazione, ma non di proposte, proteste, affermazioni o negazioni insensate e inaccettabili, che vanno semplicemente considerate irricevibili e cestinate. Un proverbio viennese dice che certe cose non vanno neppure ignorate, perché già ignorarle è troppo. Discuterne, anche rifiutandole, contribuisce a dar loro consistenza e spessore, come una signora che si fermasse per strada a dimostrare la sua virtù a uno screanzato che l'apostrofasse con termini irripetibili. Tale è il caso della penosa pagliacciata contro l'invito di Torino. Purtroppo se ne è già discusso tanto, gonfiando il pallone, e non saranno certo queste mie irrilevanti righe a far troppo danno ulteriore. Non è il caso, in questa circostanza, di chiamare in causa grandi problemi, il diritto di Israele a una piena e riconosciuta esistenza, il diritto dei palestinesi a un loro Stato e a piena dignità di vita dovunque vivano, anche in Israele, né la grandezza letteraria degli scrittori invitati quest'anno, quali Yehoshua. Non è neppure il caso, in tale circostanza, di criticare o approvare la politica dell'uno o dell'altro governo israeliano o di altro Paese, arabo o no, o dell'autorità palestinese, come non sarebbe il caso di discutere la guerra in Iraq o il carcere di Guantanamo se a Torino fosse il turno degli Stati Uniti e dunque di Philip Roth o DeLillo anziché di Oz o di Grossman. Quando, due settimane fa, la giuria del Premio Nonino, di cui faccio parte, ha premiato — su proposta di Peter Brook, il grande regista di famiglia ebraica — Leila Shahid, rappresentante dei palestinesi presso la Francia, l'Unesco e l'Unione Europea, nessuno si è sognato di protestare, ma anche se qualche scervellato l'avesse fatto, non avremmo perso certo tempo a rispondergli. Così si sarebbe dovuto fare in questa circostanza. Liberissimo ognuno, ovviamente, di boicottare la Fiera del Libro di Torino ossia di non andarci, perché non è un obbligo di legge. Ma se qualcuno dovesse cercare di impedire con la forza ad altri di andarvi, dovrebbe esserne impedito con quella forza che, nelle democrazie, è monopolio dello Stato e non della piazza, alla quale si appellano — anche di recente in Italia — solo demagoghi di basso rango.
Sempre dal CORRIERE, l'intervento di Aldo Grasso:
I l Giorno della Memoria, una settimana fa, avete riempito i vostri programmi di toccanti testimonianze sulla Shoah e adesso niente, neanche una parola per condannare il boicottaggio contro gli scrittori ebrei o per prendere le distanze da Tariq Ramadan. Mi rivolgo a Lei, Fabio Fazio, al suo autore più prestigioso, Michele Serra, a Giovanna Zucconi, che ogni settimana consiglia ottimi libri, mi rivolgo a voi perché «Che tempo che fa», considerata a ragione una delle rare trasmissioni in cui si parla ancora di cultura, non lasci passare sotto silenzio l'appello lanciato da gruppi della sinistra antagonista contro la Fiera del Libro, «colpevole» di aver invitato a Torino gli scrittori di Israele come ospiti d'onore. Mi rivolgo a lei, Serena Dandini, che ogni domenica sera ospita nel suo salotto televisivo grandi scrittori e artisti famosi, chiedendole di pronunciarsi, dire parole chiare, senza tentennamenti, su questo clima di intolleranza suscitato da alcune minoranze bellicose che amano però riempirsi la bocca della parola «pace». Mi rivolgo a voi, Piero Dorfles e Neri Marcorè, a voi e al vostro programma domenicale «Per un pugno di libri» perché interveniate a spiegare al vostro giovane pubblico che questi sciagurati boicottaggi non solo confondono in maniera subdola la responsabilità del singolo scrittore con le posizioni politiche di uno Stato ma, sotto sotto, mettono in discussione il diritto stesso all'esistenza di Israele. Mi rivolgo a lei, Corrado Augias, il cui impegno dichiarato, come dice lei, «è solo fare e indurre a fare qualche ragionamento», perché inviti nella sua trasmissione quotidiana i responsabili della Fiera di Torino Ernesto Ferrero e Rolando Picchioni a spiegare la loro scelta. Giorni fa ha chiamato Giulietto Chiesa a raccontare le sue deliranti convinzioni sul complotto dell'11 settembre. Bene. Spero trovi il modo di offrire ospitalità anche a chi ha civilmente deciso di offrire a Israele un proprio stand nazionale, come è successo negli anni passati con altri Paesi, in coincidenza con il 60˚ anniversario della fondazione di quello Stato. Raitre si distingue per essere una rete ancora attenta ai problemi della cultura ma anche alle Buone Cause, al politicamente corretto, al dialogo, al diritto d'espressione, alla supremazia dei Valori; proprio per questo si ritiene l'ultimo avamposto della tv intelligente e della sinistra progressista. Ecco, sarebbe bello se voi, i conduttori più prestigiosi, buttati al vento gli alibi semantici, senza tante ipocrisie, magari sfidando un po' di impopolarità, ci diceste se gli scrittori d'Israele sono o non sono degni di essere invitati in Italia a una manifestazione di libri.
Dalla prima pagina della STAMPA, l'intervento di Arrigo Levi:
Per la verità, sarebbe fin troppo facile condannare il boicottaggio della Fiera del Libro di Torino (per aver invitato quest’anno Israele, come altri Stati in passato e in futuro), da parte di uomini di cultura, invocando contro di loro le ragioni della cultura. Perché è proprio della politica della cultura pretendere il diritto alla libertà di espressione e alla libertà di dialogare con uomini di culture diverse, al di sopra di tutte le frontiere della politica. Come possa un «intellettuale» voler far tacere altri intellettuali, senza accorgersi che sta tradendo la sua vocazione di uomo di cultura, mi riesce difficile capire. Non faccio che rievocare le idee di Umberto Campagnolo e di Norberto Bobbio, profeti del nostro tempo, quando parlo della «politica della cultura» come di qualcosa di autonomo dalla politica; o meglio, come di una componente essenziale ed autonoma della formazione delle coscienze e delle idee politiche, in quanto portatrice, per sua natura, di un’idea alta della politica; di una visione della storia come storia di un’umanità che faticosamente ricerca la composizione dei suoi conflitti nel nome di un destino comune di tutti gli uomini, di cui gli «uomini di cultura», volgendo lo sguardo al di là di tutte le barriere ideologiche o nazionali, debbono sentirsi portatori, nella speranza di trascinare con sé gli uomini e la storia. La politica della cultura come «politica del dialogo» fra diversi («in principio» non c’è solo il «logos», ma il dialogo), è qualcosa di così radicato nella coscienza di chi ha cercato di scoprire un qualche lume di speranza nella storia crudele del nostro tempo, da rendere inaccettabile, e quasi incomprensibile, ogni presa di posizione contro la libertà di parola in qualsiasi luogo e momento, e più che mai in una «fiera del libro». No, non è in difesa del diritto degli scrittori d’Israele ad essere, quest’anno, invitati come protagonisti a Torino, che mi sembra necessario scendere in campo. Ma in difesa d’Israele, visto che è contro lo Stato d’Israele, nel 60° anniversario della sua fondazione per scelta e volontà dell’Onu, che si vuole manifestare quando si nega il diritto di questo Stato ad essere accolto quest’anno come «ospite d’onore» alla Fiera torinese. E’ giusto che io metta le carte in tavola, per chi già non le conoscesse. Quando, nel 1948, tutti gli Stati arabi proclamarono la loro ferma decisione di distruggere con i loro eserciti il nuovo Stato, «buttando a mare tutti gli ebrei», come allora dicevano con la convinzione di chi, sulla carta, era dieci volte più forte del piccolo, neonato Stato ebraico, pensai che un ebreo che come me fosse scampato alla Shoah avesse il dovere di andare a condividere la sorte di quegli altri sopravvissuti. Con nostra sorpresa, pochi e male armati come eravamo, non fummo buttati a mare. Ricordo molto bene la felicità dei miei compagni quando la guerra finì (era la notte del 31 dicembre del 1948). Con somma ingenuità, brindammo alla pace che pensavamo raggiunta. Altro non volevano, i miei compagni israeliani, che vivere in pace con «gli arabi», come allora si diceva. E a guerra finita io me ne ritornai al mio Paese. Ma non era finita. Il rifiuto del diritto d’Israele ad esistere, nonostante i trattati di pace conclusi molti anni dopo con i due principali vicini, Egitto e Giordania, ha ancora i suoi convinti sostenitori; non tanto fra i Palestinesi (che sono in maggioranza pronti ad accettare una pace fra due Stati indipendenti, Israele e Palestina), quanto in una minoranza fondamentalista presente nel mondo arabo e islamico, che continua ad annunciare come imminente e certa la fine d’Israele, e che a tal fine si oppone con tutte le forze al negoziato di pace. Perché ad altro non mirano i missili lanciati da Hamas ogni notte contro città israeliane dalla Striscia di Gaza (che un governo guidato dal «falco» Sharon evacuò usando la forza contro i coloni), se non a sabotare, provocando inevitabili reazioni israeliane, le trattative fra Olmert e Abu Mazen. Il cammino della pace è già abbastanza ricco di ostacoli, senza che si aggiunga l’incoraggiamento che viene dato ai nemici della pace da chi dichiara giusto «boicottare» Israele, chiudendo la bocca a quegli scrittori israeliani che, detto sia fra parentesi, sono fra i più convinti sostenitori delle ragioni dei palestinesi e della causa della pace. Mi unisco all’auspicio di A. B. Yehoshua: che ospite della Fiera del Libro possa essere, l’anno prossimo, una Palestina indipendente (poteva diventare realtà già all’alba del ‘49, se solo gli Stati arabi l’avessero voluto!). La nascita di uno Stato palestinese (lo sapeva bene Rabin, oggi lo ha compreso perfino Olmert!) è la sola definitiva garanzia della sopravvivenza nei secoli dello Stato d’Israele; mentre il conflitto ancora aperto è una miccia accesa in una polveriera che minaccia tutti noi. E’ follia contribuire a tenerla accesa
Un'intervista di Elena Loewenthal ad Alberto Somekh, rabbino capo di Torino
Gli ebrei sono il popolo del Libro. Anzi, dei libri. Il rabbino, guida della comunità, non è tanto un sacerdote quanto un “maestro”: una persona che ha studiato, che continua a studiare e che molto conosce. Alberto Somekh, rabbino capo di Torino, ha con i libri una quotidiana consuetudine. Stanno sulle pareti della sua casa e dell’ufficio, sono compagni di vita. Rabbino Somekh, che cosa pensa di questa vicenda della Fiera del Libro? Che sentimenti desta tutto questo parlare, in lei che è abituato alla quiete dei libri? «Questa storia porta una grande agumat nefesh, tristezza. Anzi angoscia. E preoccupazione. L’idea di boicottare la Fiera del Libro per il semplice fatto che ha Israele come paese ospite è un’affermazione di pregiudizio. Nessun altro paese al mondo sarebbe stato tartassato in questo modo. Questo ostruzionismo è privo di una visione obiettiva dei fatti. Ad esempio, del fatto che Israele è quotidianamente bersaglio di missili lanciati da Gaza. Siamo nel contesto di un conflitto. Si accusa Israele di bloccare i rifornimenti alla striscia di Gaza, trascurando l’evidenza che Gaza si considera in guerra totale con il paese: è quasi paradossale che Israele debba sostentare quella striscia di terra da cui partono i missili. Nessuno si stupisce che sia Israele, e non i paesi arabi fratelli, a rifornire Gaza di viveri. Ci si indigna per il muro che divide Gaza da Israele ma non per quello che divide Gaza dall’Egitto, devastato qualche giorno fa». Come si spiega tale atteggiamento verso Israele e tutto ciò che viene da questo paese? «Mi lasci dire che, a proposito della vicenda Fiera, resto comunque ottimista. Penso che alla fine il buon senso prevarrà. Ma io credo che oggigiorno Israele sia il parafulmine dei sentimenti antiebraici. Non c’è altra spiegazione. Israele è attaccato non per quello che fa ma per quello che è. Per il fatto di esistere. Non per la sua politica o i suoi comportamenti. Lo stato ebraico è diventato il bersaglio dell’antisemitismo, magari non dichiarato ma certamente ancora vivo. Ed è questo che mi desta particolare angoscia». Tornando alla bagarre sulla Fiera, ha un invito, un suggerimento da proporre? Il suo contributo intellettuale in un contesto di questo genere risulterebbe particolarmente significativo. «Vede, chi propugna il boicottaggio della Fiera in sostanza rifiuta il confronto. Si comporta come Corach (Core) con Mosè, nel libro dei Numeri. Nega le tante possibilità che il dialogo offre. Chi dichiara il bando contro la Fiera in nome del fatto che quest’anno ospita Israele e la sua letteratura, rifiuta a priori l’occasione di un incontro. Di fare conoscenza con questo paese e con la sua cultura». Di fronte a questo rifiuto, che cosa propone? Esiste secondo lei una via di “ricomposi- zione”? «Tengo a ripetere che secondo me il buon senso finirà per avere la meglio. In fondo siamo sul terreno della letteratura, dei libri: è qui che si misura il grado di civiltà. La mia reazione istintiva a tutto questo è: accettiamo il confronto. Mettiamo su un tavolo l’editoria israeliana degli ultimi anni. Sull’altro quella palestinese. Partiamo da un riscontro puramente quantitativo, numerico. La cultura non dovrebbe mai temere gli accostamenti. E’ quasi un invito quello che formulo ora. Poniamo questi due tavoli uno accanto all’altro, con i libri sopra. Dovrebbe essere naturale accettare il confronto, e più che mai nel contesto della cultura, dello scambio di idee e di libri. Ma resto della mia idea, che alla base di tutto questo trambusto ci sia il rifiuto di dialogare con Israele. Che è in fondo il rifiuto di riconoscere a Israele un pieno diritto all’esistenza, tanto in ambito politico e territoriale, quanto sul piano culturale».
Sempre da La STAMPA, un articolo sull'ambigua presa di posizione di Dario Fo e Moni Ovadia, per i quali la presenza israeliana alla Fiera del libro non è un diritto, ma deve essere condizionata a una presenza palestinese di pari livello.
Ecco il testo:
Una telefonata di un quarto d’ora ieri mattina. A prendere l’iniziativa è stato il premio Nobel per la letteratura Dario Fo, subito dopo aver letto i giornali sulle polemiche scatenate dalla presenza di Israele come ospite d’onore alla Fiera del libro. «Io ho già un’idea precisa in merito, ma ora voglio sentire che ne pensa il mio amico Moni Ovadia». E si sono trovati a pensare all’unisono: «Respingere con forza il boicottaggio, ma invitare con pari dignità i due ospiti: Israele e Palestina». Poi hanno spiegato, con parole diverse gli stessi concetti pacificatori: «La gaffe politica - ha detto il premio Nobel - è stata commessa perché in un momento grave come questo, con gli stessi intellettuali pacifisti di Israele che condannano il blocco di Gaza, non si salvaguarda la pace invitando soltanto Israele». Incalza: «Soltanto offrendo la stessa opportunità anche alla Palestina si realizza davvero un intervento pacificatore». E ancora, riferendosi a quanto sostenuto dal sindaco Chiamparino: «Torino sarà anche la città di Primo Levi, ma è anche popolata di gente che viene dall’Africa e in particolare dalla Palestina: insomma bisognava saper approfittare di un momento come questo per creare una situazione positiva, allargare la visione dei problemi, anziché restringerla». Anche Moni Ovadia, ebreo, attore e autore di teatro, ritiene - come ha confidato all’amico Dario Fo - che l’unica soluzione a questo impasse sia abbattere il più possibile gli steccati: «Che cosa c’è di meglio della cultura per affrontare in modo alto questi problemi? C’è una fiera? E allora ci saranno due temi, e avranno lo stesso diritto di cittadinanza. Perché se è vero che gli scrittori di Israele sono fra i più importanti e fecondi del mondo intero è altresì vero che è davvero difficile parlare di questo Stato facendo finta che non esista un problema Palestina».
Dal FOGLIOun articolo su come la STAMPA ha affrontato la vicenda del boicottaggio
Ma che fine ha fatto la Torino civile, quella di Norberto Bobbio e di Carlo Casalegno e di tanti altri esponenti di un pensiero liberale poco incline a piegarsi alle convenienze e alle minacce ? L’incredibile vicenda del boicottaggio minacciato alla Fiera del libro, rea di aver invitato come ospite la letteratura israeliana, nella Torino che ci ricordiamo sarebbe stata inconcepibile. Anche negli anni più duri dello scontro politico e sociale a Torino c'è sempre stato un sincero rispetto per la cultura, come sede di confronto che non poteva essere semplicisticamente irregimentata nelle fazioni. Oggi, a quanto pare, non è più così e il sintomo più impressionante di questa involuzione è rappresentato dall’atteggiamento ipocritamente "equidistante" del quotidiano cittadino. La Stampa non solo ospita le allucinazioni di Gianni Vattimo, che scambia Israele con il Sudafrica dell’apartheid, ma non esprime ancora un suo giudizio sul fatto in sé, sulla volontà proterva di una fazione di negare a Israele l’elementare diritto a far conoscere la sua cultura letteraria. Il terrorismo ideologico di questi gruppi è altrettanto intollerabile di quello del partito armato, per condannare il quale un vicedirettore della Stampa perse la vita. Un giornale che si considera l’espressione di una città, e che tale è considerato da tanti lettori e cittadini, da questa funzione riceve un dovere, quello di combattere l’inquinamento del clima civile che di quella stessa città è, almeno per ora, un tratto distintivo. Invece la Stampa si comporta come il Manifesto, "apre il dibattito", mettendo così sullo stesso piano la faziosità illiberale del boicottaggio e lo spirito di dialogo e di accoglienza che ha ispirato la decisione di invitare Israele, con le sue voci letterarie, peraltro com’è normale in una democrazia, tutt’altro che unanimi nel sostenere la politica del governo di Gerusalemme. Non si tratta di un oltraggio agli ebrei, a quella comunità ebraica torinese della quale ci ha dato un’immagine tanto vivida il Lessico Famigliare di Natalia Ginzburg. Si tratta di un oltraggio a Torino tutta intera, al suo peculiare orgoglio di capitale provinciale e internazionale, nella quale l’aristocrazia sabauda si fece nazionale, il movimento operaio divenne potente stimolo culturale, grazie al rispetto per la libertà di pensiero. La Stampa vuole essere lo specchio di Torino, lo è stata a lungo, oggi sembra invece un deformante strumento che restituisce un’immagine ingiustamente deformante e moralmente indifferente della città.
Da AVVENIRE, un articolo di Franco Cardini, che si schiera contro il boicottaggio, ma solo perché alla Fiera ci saranno anche gli israeliani "critici" con il loro governo, e critica Tariq Ramadanfingendo che l' appoggio al boicottaggio non si acoerente con le posizioni di odio per Israele che l'intellettuale islamista ha sempre sostenuto.
Ecco il testo:
Ci sono momenti e occasioni in cui, consigliano i saggi, è cosa prudente e intelligente tacere; e magari nascondersi. Ma il prudente di mestiere è di solito, semplicemente, un 'furbo'. Bene, io non sono tale. Ho avversato con tutte le forze le aggressioni all’Afghanistan e all’Iraq; ho difeso i diritti dei palestinesi; ho sostenuto che non ha senso criminalizzare e ostracizzare intere società, come si sta facendo nel caso dell’Iran. Continuo a stimare Tariq Ramadan, un intellettuale che cerca di dimostrare come possa esistere un Islam europeo e che credo sia stato sempre e sistematicamente frainteso e avversato perchè non si è voluto credere nella sua buona fede di 'costruttore di ponti' fra posizioni e culture diverse. Proprio per questo, non raccolgo il suo invito a boicottare la presenza d’Israele come Paese ospite alla prossima Fiera del Libro di Torino. Israele è - ha dichiarato Ramadan - «uno stato che pratica l’omicidio e la distruzione». Non entro comunque nel merito della controversa storia dello Stato d’Israele e del suo drammatico rapporto con la comunità palestinese. Che esso abbia scritto e scriva al riguardo pagine oscure e dolorose è credo cosa nota a tutti: anche ai suoi più accesi e unilaterali apologeti. Tuttavia, il punto è un altro. A Torino si presenterà non tanto lo 'Stato' d’Israele, quanto la società israeliana che non è del tutto né sempre rappresentata dai suoi politici. Ci sono gli scrittori e gli intellettuali come Grossman, Shalev, Gouri ed altri, espressioni d’un’opinione pubblica diffusa che guarda all’indurirsi del conflitto israelopalestinese con dolore, con stanchezza, spesso in aperto dissenso nei confronti del pugno duro ostentato dai 'falchi'. Ci sono i militari israeliani obiettori di coscienza: sempre più numerosi, nonostante la galera e i silenzi-stampa. Ci sono le voci israeliane e palestinesi che in modo sempre più alto e chiaro chiedono di far tacere una buona volta le armi, di fermare l’orrore terroristico ma anche i muri e le rappresaglie. C’è la straordinaria cultura di un piccolo paese pieno di ottime università, di seri ricercatori scientifici, di gente che scrive e che soprattutto legge; di un paese che ha sviluppato una letteratura e un cinema che lo hanno imposto all’attenzione di quell’universo mediterraneo al quale appartiene; di gente che ha lavorato sodo e combattuto duro ma che vuole la pace, con la coscienza che a ciò non si arriverà se tutti non accetteranno di fare un passo indietro. La tribuna torinese è una palestra libera: ci sono i dibattiti, c’è lo spazio per la contestazione magari accesa ma civile, ci sono gli strumenti per far emergere e valere anche le verità 'altre' rispetto alla vulgata conformistica. I padroni dei media possono strillare quanto vogliono: ma la gente ascolta, riflette, confronta. E a Torino ne viene tanta, di gente che vuol sul serio capire. Credo che per Ramadan a proposito d’Israele valga, 'mutatis mutandis', quel che vale per Bush a proposito dell’Iran: i veti incrociati, le reciproche scomuniche, le demonizzazioni dell’avversario non portano a nulla. Serve informarsi, capire, discutere. Il boicottaggio della presenza d’Israele servirebbe solo ai 'falchi' di tutte le tendenze, ai fondamentalisti di tutte le scuole e le osservanze. Per questo, e proprio perchè stimo Tariq Ramadan, spero che la sua voce non sia in questo caso efficace.
Sempre da AVVENIRE, un'intervista a Marek Halter
« F inché ci sarà chi nega a Israele il diritto di esistere, io non potrò mai scendere in piazza contro la sua politica». Non ci mette molto Marek Halter a dare il benservito a quanti nascondono il proprio antisemitismo dietro al legittimo diritto di critica al governo israeliano. Perché in gioco c’è qualcosa di più grave: è a rischio la vita stessa dei cittadini d’Israele. Lo scrittore francese, originario della Polonia ebraica e scampato al tragico destino del ghetto di Varsavia, è a Milano per presentare – oggi alle 20.45 presso il Circolo della stampa – il suo ultimo libro, La mia ira, in uscita per Spirali: capita in Italia, quindi, proprio nel mezzo delle infuocate polemiche sollevate dalla proposta di boicottaggio contro il prossimo Salone del libro di Torino, dove ospite d’onore sarà proprio Israele. «Ben venga il dialogo, ma solo se a volerlo sono gli scrittori palestinesi e israeliani. Se è imposto perde ogni valore: pretendere che a Torino gli scrittori israeliani siano affiancati da palestinesi sarebbe come se, negli anni Trenta, si fossero obbligati agli organizzatori di un incontro con Thomas Mann a invitare anche autori nazisti. Nel mondo arabo ci sono grandi scrittori, come il poeta palestinese Mahmoud Darwish, e la loro produzione andrebbe valorizzata: ma questo non ha nulla a che vedere con i poveri scrittori israeliani, tra i quali – inclusi alcuni ospiti di Torino – ci sono i primi sostenitori della causa palestinese». La (quasi) unanimità delle proteste contro il boicottaggio non rischia di acuire il senso di risentimento diffuso tra gli arabi? «Se ci sono imbecilli che si sentono discriminati, pazienza. Tutto questo mi ricorda un faccia a faccia, organizzato da Le Monde , che ho avuto con Tariq Ramadan: io sostenevo l’opportunità di articolare la società in comunità basate su fede e tradizioni comuni, mentre paradossalmente era Ramadan a opporsi. Sulle prime il pubblico si schierò con lui, temendo che io volessi ridurre la società a una somma di ghetti, mentre Ramadan dava l’impressione di vederla come un tutto armonico». Una di quelle posizioni che portano tanti intellettuali occidentali a indicarlo come interlocutore affidabile… «Sì: peccato però che il seguito del dibattito abbia fatto emergere che si oppone all’idea di comunitarismo solo perché teme che così facendo lui e l’islam si ritroverebbero senza spazi di manovra. In una comunità definita non potrebbe far proselitismo per conquistare l’intera società, secondo il suo progetto di califfato». E oggi è in prima fila tra gli intellettuali che invitano al boicottaggio... «Non possiamo definire intellettuale chi vuole boicottare la letteratura. Come può un intellettuale decidere, per protestare contro il governo israeliano, di opporsi alla sua letteratura? È come se per protestare contro Putin decidessi di bruciare tutti i libri di Solzenicyn». Allora come ha fatto, nel suo lavoro, a intrecciare politica e arte? «È possibile essere uno scrittore, e non interessarsi di cose politiche. Ma è molto, molto complicato. Quando scrivi, sei portato a impegnarti; l’intellettuale è sempre, per forza di cose, impegnato. Io non sono un buon esempio, perché mi sono accostato alla letteratura proprio per difendere me stesso e le mie idee. Ero attore e pittore, e ho cominciato a scrivere per difendere cause legate alla mia esistenza e alla mia identità. Il primo mio libro è già stato un libro di combattimento e di lotta, che raccontava le mie vicissitudini passate: Il folle e i re. Nel mio percorso letterario sono riuscito ad amalgamare la mia capacità di raccontare storie, di ispirazione orientale, con il mio impegno politico». Ma Israele sarà mai considerato un Paese normale? «In sé non è più eccezionale di qualsiasi altro Paese che fonda la propria identità su un concetto etnico. Il carattere eccezionale dello Stato d’Israele, che è un dato oggettivo, deriva dal fatto che ancora oggi c’è chi gli nega il diritto di esistere. Ci sono Stati che si sono macchiati di grandi delitti – il fascismo in Italia, i lager in Germania, i gulag in Russia – ma dei quali nessuno contesta l’esistenza. Di Israele, invece, sì». Come lo spiega? «Perché l’odio che prima veniva rivolto all’individuo, al singolo ebreo, adesso viene trasferito all’entità statale. Finché ci saranno persone e regimi che contesteranno l’esistenza stessa dello Stato israeliano, io non potrò mai manifestare per strada la mia disapprovazione verso le sue scelte: non per solidarietà nei confronti del popolo ebraico o dello Stato di Israele, ma per difesa di quelle persone che i popoli e gli Stati vicini vorrebbero uccidere. Finché questo Stato verrà minacciato, io non potrò contestare la sua politica». «Un tempo l’odio colpiva il singolo ebreo, ora è trasferito all’entità statale. Ma finché c’è chi nega a Israele il diritto di esistere, è difficile contestare la sua politica»
Un'intervista aMeir Shalev dall'UNITA'
«Come lei sa, e come sanno i lettori dell’Unità attraverso nostri precedenti colloqui, non sono mai venuto meno all’esercizio di critica nei confronti di scelte compiute dai governi del mio Paese quando ritenevo tali scelte contrarie ai valori e alle idee che muovono il mio agire da cittadino prim’ancora che da intellettuale israeliano. Per quel che posso, ho cercato di costruire “ponti” di dialogo laddove vedevo ergersi “muri” di incomunicabilità e spesso di vero e proprio odio. E nel farlo, ho incontrato tanti amici scrittori palestinesi. Anche per questo, e non solo per una questione di principio, dico che il boicottaggio che alcuni invocano della prossima Fiera internazionale del Libro di Torino, non solo è un atto profondamente ingiusto ma è assolutamente dannoso per quel dialogo tra le due società che è alla base della speranza di pace». A parlare è Meir Shalev, tra i più autorevoli scrittori israeliani. In Italia è esplosa la polemica attorno alla richiesta di boicottaggio della Fiera del Libro di Torino in quanto, sostengono i sostenitori del boicottaggio, ha al suo centro Israele. «Trovo questa posizione non solo sbagliata ma estremamente pericolosa. Perché agendo in questo modo si ricacciano indietro le lancette della storia e si torna alla demonizzazione di uno Stato, di un popolo. Sia chiaro: sono il primo a ritenere non solo legittima ma in molti casi fondata e doverosa la critica rivolta a scelte compiute dai governi israeliani. Un diritto di critica che noi israeliani abbiamo sempre esercitato, e lo abbiamo fatto anche di fronte a situazioni di emergenza, come guerre e attacchi terroristici. Ma non si sfugge alla impressione, davvero inquetante, che in questo caso si tenda a rinfocolare la tesi che, in ultima analisi, è l’esistenza stessa di Israele ad aver alimentato in Medio Oriente una serie interminabile di guerre. E ciò non è solo in contrasto con la verità storica ma rischia di essere anche il fondamento di un nuovo antisemitismo che trova copertura nell’antisionismo. E questo anche al di là delle intenzioni di chi nel propugnare il boicottaggio ritiene di favorire la causa palestinese». Nel rifiutare il boicottaggio, lo scrittore franco-marocchino Tahar Ben Jelloun ha sostenuto la tesi che occorre differenziare tra Israele, come entità politica e statuale, e i suoi scrittori. «È una distinzione che non regge perché gli scrittori non sono un corpo avulso dal contesto in cui operano né hanno particolari concessioni da esigere. L’idea del boicottaggio sarebbe altrettanto sbagliata se invece di una Fiera del Libro riguardasse quella dell’ingegneria o di qualsiasi altra attività. Chi propugna il boicottaggio cancella gli sforzi che da cittadini-scrittori abbiamo compiuto assieme a cittadini-scrittori palestinesi perché il filo del dialogo non venisse spezzato neanche nei momenti più terribili nelle relazioni tra i nostri due popoli e tra le rispettive dirigenze. E in questa costruzione di “ponti” di dialogo, gli intellettuali, israeliani e palestinesi, hanno avuto un ruolo importante; lo hanno avuto perché cercando di cogliere le ragioni dell’altro, hanno lottato, da “medici” del sapere, contro uno dei virus più pericolosi, non solo in Medio Oriente, per la convivenza pacifica fra popoli, fra Stati: il virus della demonizzazione dell’altro da sé; una demonizzazione che spesso è figlia dell’ignoranza, vittima di stereotipi negativi costruiti ad arte per alimentare divisioni e ostilità. In questo sforzo di comprensione non siamo all’anno zero. Né siamo rimasti alla enunciazione di principi tanto nobili quanto astratti dalla realtà. Vorrei ricordare che intellettuali israeliani e palestinesi sono stati tra gli artefici dell’Iniziativa di Ginevra (il piano di pace elaborato da politici, intellettuali, militari israeliani e palestinesi, ndr) che delinea concrete soluzioni per un equo compromesso su tutte le questioni dirimenti il conflitto israelo-palestinese. E prim’ancora, sono stati intellettuali israeliani e palestinesi ad anticipare, nella seconda metà degli anni Ottanta, quell’apertura che portò poi agli accordi di Oslo-Washington. Le università sono state luogo di incontro, di incubazione di iniziative di confronto che hanno coinvolto centinaia di insegnanti e studenti israeliani e palestinesi; in questi anni su importanti riviste israeliane sono stati pubblicati lavori di storici e scrittori palestinesi, abbiamo cercato di rivisitare assieme la storia di questi sessant’anni. Da questo lavoro comune sono nati saggi, libri ispirati a valori condivisi come la solidarietà, il rispetto delle diritti dell’altro dalla cui realizzazione dipendono i nostri stessi diritti. Valori che innervano e danno spessore all’idea stessa di un accordo di pace fondato sul principio di due popoli, due Stati. Con orgoglio, posso dire che noi romanzieri abbiamo “raccontato” e fatto vivere una speranza che oggi, sia pur tra limiti e contraddizioni, è divenuta patrimonio condiviso dalle leadership politiche di Israele e Palestina. Per questo, anche per questo, la Fiera del Libro dovrebbe divenire occasione di incontro e non di lacerazione. Già tanti sono i nemici della pace con cui dobbiamo fare i conti tutti i giorni, e una riprova l’abbiamo avuta anche oggi (l’attentato suicida compiuto ieri in un centro commerciale di Dimona, ndr)». In un appello contro il boicottaggio pubblicato dall’«Unità», personalità della sinistra italiana, come Piero Fassino, Furio Colombo ed Emanuele Fiano, hanno rimarcato che questo boicottaggio «risulta ancora più stolido e assurdo rivolto contro scrittori come Amos Oz, David Grossman, Abraham Yehoshua, Meir Shalev e tanti altri i cui libri contribuiscono ogni giorno ad affermare nel mondo libertà, tolleranza, solidarietà, multiculturalità, apertura all’altro e diverso. Ed è proprio questa la dimostrazione che quel boicottaggio ha l’esplicito significato di negare l’identità di Israele e il suo diritto ad esistere». C’è questo rischio? «Purtroppo sì. Ed è per questo che va sventato facendo prevalere non le ragioni di parte ma un bene che dovrebbe unire: il dialogo. Un dialogo che passa anche dai libri».
Un'intervista a David Grossman da La REPUBBLICA
«Cultura e boicottaggio sono due parole incompatibili fra di loro», dice al telefono David Grossman, temporaneamente emerso dalle fatiche del suo nuovo romanzo per cogliere l´eco delle polemiche esplose in Italia dopo l´invito a Israele di partecipare come ospite d´onore alla Fiera del Libro di Torino. Le parole dell´autore di Vedi alla voce: Amore s´aggiungono a quelle di altri intellettuali israeliani, come A. B. Yehoshua, che hanno messo in discussione la fondatezza della contestazione mossa dagli esponenti torinesi dei Comunisti Italiani e di Rifondazione Comunista. E naturalmente dissente dai teorici del boicottaggio, come l´autore Tariq Ramadan, o come l´Unione degli scrittori arabi, espressione della nomenklatura intellettuale cresciuta all´ombra di alcuni regimi mediorientali. David Grossman, cosa pensa degli appelli al boicottaggio d´Israele, come ospite d´onore della Fiera del Libro di Torino, lanciati dai partiti italiani dell´estrema sinistra e dall´Unione degli scrittori arabi? «In linea di principio sono contrario alla cultura del boicottaggio, perché l´essenza della cultura è il dialogo. In questo caso, poi, mi sembra che i promotori del boicottaggio manchino del tutto l´obiettivo perché, in Israele, la cultura sostiene il dialogo, il riconoscimento reciproco e il rispetto dei palestinesi, cose che la sinistra, e non soltanto la sinistra, dovrebbe avere a cuore». Come interpreta, allora, il fatto che una posizione del genere venga proprio da sinistra, da partiti e uomini politici che dovrebbero capire la differenza tra la letteratura di un paese e il governo dello stesso. «Non credo che debba essere io a spiegare la sinistra italiana. Sono loro che dovrebbero spiegare se stessi. La mia impressione, tuttavia, è che loro non vedano come illegittima soltanto la presenza d´Israele alla Fiera del Libro di Torino, ma vedano come illegittima la stessa esistenza d´Israele». Qualcuno ha proposto d´invitare anche degli scrittori palestinesi. Pensa che sia una buona idea? «Credo che in uno spazio culturale come la Fiera si debbano avere delle sessioni di dialogo tra autori israeliani e palestinesi. Se Israele viene invitato come ospite d´onore, non si può ignorare il conflitto che fa parte della realtà israeliana. Per quanto mi riguarda, gli scrittori palestinesi, se invitati, sarebbero i benvenuti. Aggiungo, anzi, che, se l´anno prossimo ci sarà uno Stato palestinese, desidero dal profondo del cuore che sia la Palestina ospite d´onore. Sarebbe il segno di una normalità di rapporti che è mancata per troppo tempo». Ha scritto Yehoshua che «nell´affannosa lotta a favore della pace all´interno della società israeliana e di un riconoscimento reciproco tra il popolo palestinese e Israele, noi scrittori e intellettuali di entrambi i fronti ci siamo avvalsi d´incontri per preparare il terreno e i cuori in vista dell´atteso disgelo e di una rappacificazione. Non sempre è stato facile aprire una breccia nel muro di ostilità, di alienazione e di pregiudizi». Lo stesso Grossman ha fatto dei suoi rapporti, non soltanto con gli intellettuali, ma con la gente palestinese, oggetto della sua narrazione e del suo impegno civile. E tuttavia oggi quella tensione reciproca sembra affievolita. «Sì, il dialogo è molto limitato. E questo fa parte della crisi generale dei rapporti tra israeliani e palestinesi. Adesso non c´è dialogo neanche tra palestinesi della West Bank e palestinesi di Gaza». Lei è stato invitato alla Fiera di Torino? «Sì, ma non potrò andare». Ma, se potesse, andrebbe, anche se oggetto di contestazione? «Assolutamente, sì».
Da SHALOM di febbraio, un articolo di Angelo Pezzana
Il prossimo maggio Israele festeggia il sessantesimo anno della proclamazione dello Stato. Ricordiamo oggi quella storica giornata del 1948 attraverso le immagini dei cittadini di Tel Aviv che ballano per le strade in festa, dopo la dichiarazione di Indipendenza letta da David Ben Gurion. Canti e gioia seguiti immediatamente dall’ entrata in guerra degli Stati arabi, decisi a cancellarne l’esistenza, dopo aver rifiutato la divisione dell’Onu che divideva in due la Palestina. Sono avvenimenti di sessanta e più anni fa, che però assomigliano tremendamente alla realtà di oggi. Israele deve continuare a difendersi se vuole sopravvivere. Che dietro alla propaganda colma di odio verso lo Stato degli ebrei ci sia una qualche spiegazione che parta dalla specificità di quel popolo, l’essere ebrei, viene in genere respinta con sdegno. < Noi critichiamo la politica del governo, non lo Stato >, è la cantilena che mette al riparo dall’accusa di antisemitismo, un riparo ritenuto credibile anche da chi dovrebbe avere le antenne giuste per non cadere nel tranello. Adesso però non ci sono più scuse, a svelare il vero volto dell’antisionismo hanno provveduto coloro che hanno dichiarato guerra alla Fiera del libro di Torino, che ha la grave colpa di avere invitato Israele quale < Paese ospite > per l’edizione 2008. Le prime proteste, rozze e grossolane, sono partite su internet, ed hanno raccolto quasi esclusivamente segnali negativi. Come si può, decentemente, togliere la parola a qualcuno ed essere credibili ? Anche fra l’etrema sinistra la protesta partita sulla base < mettiamo il bavaglio a Israele > non ha riscosso molti consensi.
I toni minacciosi, la parola d’ordine < via Israele dalla Fiera del Libro >,e.per essere ancora più espliciti, il logo da diffondere su manifesti, comunicati, dichiarazioni, una bandiera israeliana richiusa dietro ad un segnale di vietato, cerchio rosso e barra rossa al centro e accanto, nel caso non fosse ancora chiaro abbastanza, una sagoma umana stilizzata che butta in un cestino dei rifiuti una stella di Davide, hanno messo in imbarazzo troppi.In queste raffigurazioni non c’è una qualche critica al governo israeliano, ma piuttosto una delegittimazione dello Stato tout court, essendo la bandiera il suo simbolo ufficiale e il Magen David l’essenza stessa dell’immaginario ebraico. In quanto ai contenuti, si passa da < celebrare i 60 anni di Israele equivale a danzare sulle tombe palestinesi > a < la Fiera del libro di Torino dovrà fare i conti con una iniziativa di contestazione forte e dispiegata a tutti i livelli. Dalle pressioni sul marketing al boicottaggio delle case editrici che accetteranno di esporre alla Fiera senza prendere una posizione decente sulla inopportunità di dedicarla a Israele >, all’umorismo macabro e al ricatto di stampo mafioso, minacce agli editori < se non fate come diciamo noi vi boicotteremo > e un avvertimento agli organizzatori < attenti, vi rovineremo l’intera manifestazione >. Ma anche questi toni altisonanti hanno creato un po’ di rumore ma niente di più. Molte lettere al Manifesto, senza però il risultato sperato, una grosse koalition contro Israele.
Prendersela con Oz-Grossman-Yehoshua, definiti < la triade >, proprio loro che rappresentano le voci più alte di quell’Israele che vuole la pace, è stato un auto-gol. A corto di risultati, sono entrate in campo le forze di riserva, quelle che stavano in panchina per vedere come si dipanava la faccenda. Troppo intelligenti per unirsi alla truppa, stupida e rumorosa, ma comunque bramosi di dare una spallata a quella che anche loro giudicano, senza dirlo apertamente, una provocazione. Ha cominciato Valentino Parlato sul Manifesto, dichiarandosi contrario al boicottaggio, ma favorevole a portare alla ribalta i palestinesi, definendoli i nuovi ebrei del Medio Oriente. Non si fa fatica a capire a chi si debbano paragonare gli israeliani. E qui è già caduta la maschera di chi ha sempre dichiaratore di criticare le politiche del governo e non lo Stato. Fra nazisti e Terzo Reich la differenza è invero poca. Ma l’affondo più sottilmente acuto l’ha portato Govanni De Luna sulla Stampa del 30 gennaio scorso. Anche lui prende le distanze dal boicottaggio, e che diamine, solo un cretino può sottoscriverlo, e lui cretino non lo è, lui è a favore della presenza di Israele, ma con qualche distinguo. La Fiera del Libro, nella sua mente, non è un luogo dove ogni anno viene invitato un paese ospite per far conoscere la propria cultura, De Luna la vede, per quest’anno, è ovvio, e solo nel caso di Israele, è di nuovo ovvio, piuttosto come un tribunale, dove far sedere per gli opportuni interrogatori l’imputato. Si faccia venire, suggerisce, qualcuno che racconti come Israele demolisce le case dei palestinesi, per esempio, come se nel nostro paese mancassero i luoghi deputati al dibattito politico, come se le nostre università, centri culturali, associazioni di ogni genere e specie non investissero gran parte delle loro energie, anche finanziarie, per fa conoscere i dello , sempre alla ricerca di , italiani o israeliani da portare in palmo di mano, che gli consentano di dire < vedete, non siamo antisemiti, quello che diciamo noi lo dicono anche loro>, di queste occasioni non si sente proprio la mancanza. Ma non ci sono solo le case demolite, di argomenti simili se ne possono trovare molti altri, nessuna sorpresa, adesso che si sono mossi gli ,verranno fuori, All’intervento di De Luna ne seguiranno altri, tutti favorevoli alla presenza di Israele alla Fiera del Libro come lo si può essere alla presenza in tribunale dell’imputato. Che ascolti l’elenco dei suoi crimini, ne parlino i giornali, li riprendano i servizi televisivi. In quanto alla sentenza, poco importa, tanto è già stata pronunciata.
Non abbiamo idea di chi faccia parte del collegio di difesa, finora assente e quindi silente.
Da L'OPINIONE, un editoriale di Dimitri Buffa
Una vera e propria campagna di boicottaggio anti israeliana che culminerà con manifestazioni, sit in, convegni e probabili provocazioni clamorose nei giorni di inizio maggio a Torino, allorché alla Fiera del libro arriveranno gli stand dello stato di Israele, ospite d’onore quest’anno, in occasione del sessantesimo anniversario della propria fondazione, alla grande “bookmesse” italiana. Il programma è stato stilato domenica e sottoscritto da una serie di organizzazioni, partiti e associazioni che hanno in comune l’ostilità preconcetta contro lo stato ebraico e l’appoggio ideologico a ogni atto di terrorismo di movimenti come hamas, la jihad islamica e hezbollah contro i cittadini israeliani. I programmi di questi gruppi potrebbero portare turbative dell’ordine pubblico. Interno ma anche internazionale. Basti pensare che dal 15 al 18 febbraio una delegazione composta da attivisti della campagna e giornalisti (in prima linea quelli del “Manifesto” che si trovano in aperto contrasto con Valentino Parlato) si recherà a Rafah “per portare solidarietà alla popolazione palestinese di Gaza, per denunciare con forza la volontà di rompere l’assedio contro Gaza e la complicità dei governi europei (anche di quello italiano) nell’attuazione dell’embargo e portare un messaggio teso all’unità della resistenza palestinese.
La delegazione prevede un fitto calendario di incontri con organizzazioni, organi di informazione e associazioni sia egiziane che palestinesi fuori e dentro Gaza. Ma il vero obiettivo ”è di riuscire ad entrare a Gaza e di contribuire così a creare le condizioni affinché il valico di Rafah sia sempre agibile e non strumento dell’assedio israeliano alla popolazione palestinese della Striscia“. In pratica i militanti di queste organizzazioni andranno a creare problemi al valico tra Israele e Gaza con azioni di disturbo che potrebbero favorire anche i terroristi che volessero tentare di penetrare sul territorio israeliano. Inoltre il primo marzo Roma sarà di nuovo sotto assedio dei ”no war“ che sfileranno ”contro tutte le guerre“ e gli attivisti pro Palestina avranno un ruolo di primo piano. Infine ci sarà una vera e propria campagna di avvicinamento all’evento dei primi di maggio a Torino durante il Salone del libro. E le parole usate nel documento approvato domenica dalle succitate organizzazioni, non fanno presagire nulla di buono: ”la campagna “2008 anno della Palestina” ha riaffermato che ritiene inopportuna e vergognosa la decisione del Consiglio Direttivo della Fiera del Libro - una città democratica e antifascista da sempre - di assegnare proprio nel 2008 a Israele il ruolo di ospite d’onore. Intendiamo batterci apertamente affinché questa decisione venga revocata“. Su questo obiettivo è stata convocata una prima manifestazione a Torino per sabato 29 marzo”.
Qualora non venga revocata la decisione di assegnare a Israele l’edizione 2008 della Fiera del Libro di Torino, si passerà dalla fase della denuncia a quella della contestazione. Dal 7 al 12 maggio – sempre a Torino – ci saranno “sei giorni di mobilitazioni, spettacoli, presidi e incontri politico-culturali alternativi alla Fiera del Lingotto e al suo interno”. Infine nei prossimi giorni verrà lanciato un appello agli editori affinché richiedano alla direzione della Fiera del Libro di recedere dalla decisione di dedicare a Israele l’edizione di quest’anno mentre nelle settimane successive “verranno invitati in Italia per cicli di incontri autori palestinesi e israeliani impegnati contro l’occupazione e l’apartheid, ma che hanno rifiutato di partecipare ad un evento ufficiale che legittima proprio l’occupazione israeliana e l’apartheid”.
Infine, unintervista ad Aharon Shabtai. In Italia, la riforma della psichiatria ha chiuso i manicomi. Quindi non abbiamo nulla contro chi vive fuori da queste istituzioni, pur comportandosi in un modo che in altre situazioni avrebbe portato al suo internamento. Aharon Shabtai ha la fortuna di essere un ebreo israeliano e qundi di non avere da temere in merito. I discorsi folli abbondano in certi settori dell'estrema sinistra israeliana, che appaiono spesso completamente scollegati dalla realtà Si potrebbero fare molti nomi per dimostrare questo assunto, da quello di Ilan Pappe e quello di Uri Avnery. Possiamo aggiungerci anche il nome del poeta Shabtai. Ecco le sue ultime elucubrazioni, naturalmente apprezzate dal quotidiano comunista:
Per le sue traduzioni dei Tragici, dal greco classico all'ebraico moderno, gli fu attribuito nel 1993 il Premio del primo ministro israeliano. Era il periodo del processo di pace di Oslo e Aharon Shabtai credeva che il governo fosse intenzionato a fare la pace con i palestinesi. Accettò l'ambìto riconoscimento. Qualche settimana fa invece il poeta, uno dei più famosi nello Stato ebraico, ha declinato l'invito rivoltogli a partecipare al Salone del libro di Parigi. Nato nel 1939 a Tel Aviv, autore di una ventina di raccolte di poesie e conosciuto all'estero soprattutto per «J'accuse» - in cui si scaglia contro il governo e la società del suo paese - è uno dei più radicali nella pattuglia di intellettuali «dissidenti». Secondo Shabtai, che ha risposto al telefono alle domande del manifesto, lo Stato ebraico sarebbe in preda a una deriva di destra che potrebbe essere arginata solo da un intervento dell'Europa, il Continente dei Lumi che dovrebbe aiutare «l'apartheid israeliana» a compiere una svolta come quella impressa al Sudafrica dall'ex presidente De Klerk. Aharon Shabtai, perché ha rifiutato l'invito di Parigi a partecipare al Salone del libro? Perché ritengo che si tratti di un'occasione di propaganda, in cui Israele si metterà in mostra come uno Stato con una cultura, dei poeti, ma nascondendo che in questo momento sta compiendo dei terribili crimini contro l'umanità. Lo stesso presidente Shimon Peres, responsabile del massacro di dieci anni fa a Kfar Kana (in Libano), parteciperà. Per me sarebbe stato impossibile andare a leggere i miei testi a Parigi. Qual è l'immagine dell'altro - del palestinese - riflessa dalla letteratura israeliana? Nel sionismo - uno dei frutti del nazionalismo dell'800 - c'erano elementi positivi: l'idea che gli ebrei, reduci dalle persecuzioni in Europa, venissero qui in Israele acquistando libertà e indipendenza. Ma ora ci siamo trasformati in uno stato coloniale, con i giornali che fanno propaganda razzista contro gli arabi e i musulmani. Siamo un popolo avvelenato da questa propaganda. La maggior parte della letteratura «mainstream» è completamente egocentrica: non è interessata all'altro, rappresenta la vita della borghesia e si occupa di problemi psicologici. La nostra letteratura non ha a cuore i problemi morali cruciali di questo momento storico. Si configura soprattutto come intrattenimento borghese. In questo contesto la maggior parte degli scrittori si dichiara in termini generali «per la pace», ma quando c'è da prendere una decisione per fare qualcosa di «aggressivo» si schiera col governo, come durante l'ultima guerra in Libano, quando Yehoshua, Grossman e Oz hanno scritto sui giornali che si trattava di un conflitto giusto. All'estero dipingono l'immagine di un Israele liberale, ma sono parte integrante del sistema. Ma il governo israeliano è ufficialmente impegnato in colloqui di pace con l'Autorità nazionale palestinese e ammette l'urgenza di dare ai palestinesi uno stato, anche se solo in una parte del 22% della Palestina storica. Il problema non è lo Stato, ma la terra. Qui i giornali ne parlano apertamente, ogni giorno, molto più che in Italia e in Europa: gli insediamenti, la confisca di territorio, il controllo dell'acqua da parte delle autorità israeliane aumentano di giorno in giorno. Questi sono i fatti, molto diversi dalla propaganda utilizzata dal governo: i palestinesi non hanno più un territorio. Che significato ha per lei il 60° anniversario della fondazione dello Stato ebraico? Dopo sessanta anni ci troviamo di fronte a un bivio: o continuare a essere uno stato coloniale e proseguire con la guerra, mettendo seriamente in pericolo il futuro d'Israele perché - non dobbiamo dimenticarlo - viviamo in Medio Oriente, non in California. L'alternativa è fare come (l'ex presidente sudafricano) De Klerk: invertire la rotta e provare a dare ai palestinesi pieni diritti sulla loro terra, cercando di creare un uovo sistema di pace. Altrimenti non sopravvivremo né da un punto di vista morale, né come stato, perché la guerra si espanderà a tutto il Medio Oriente. Alcuni gruppi della sinistra italiana sono pronti a boicottare la Fiera del libro di Torino, mentre la sinistra istituzionale si oppone perché, sostiene, il boicottaggio va contro i principi stessi della cultura, provoca reazioni negative e gli intellettuali non sono responsabili delle azioni dei loro governi. Quello che affermano è assurdo: durante il periodo hitleriano o durante l'apartheid intellettuali come Brecht e tanti altri si univano per combattere il fascismo e il segregazionismo. Gli intellettuali, assieme alle organizzazioni di base, contribuirono alla fine dell'apartheid. Gli intellettuali - che devono essere liberi - dovrebbero partecipare al boicottaggio. Un aiuto dall'Europa, che boicotti Israele non in quanto tale, ma in quanto establishment politico militare che sostiene l'occupazione, è l'unica possibilità di salvare i palestinesi e noi, gli ebrei d'Israele. Da dieci anni, dal tramonto del movimento pacifista, siete fermi a un migliaio di «dissidenti» che manifestano contro la guerra. Perché non riuscite a raggiungere un'audience più ampia? Perché in Israele tutte le televisioni e tutti i giornali educano la gente al nazionalismo, con un lavaggio del cervello quotidiano. Ora sono seduto, qui nel mio appartamento, e posso sentire distintamente il mio vicino che sta dicendo: «Gli arabi non sono un popolo, sono barbari, avremmo dovuto colpirli con la bomba atomica». Quello che afferma l'ha imparato dai mass media, che creano panico e rabbia mentre i politici collaborano con l'establishment militare. Viviamo in una situazione orwelliana: ogni giorno la tv ripete quanto sia terribile vivere a Sderot, dove quasi nessuno viene ucciso. A due passi dalla cittadina israeliana c'è l'inferno di Gaza, che è diventata un ghetto. Ma cosa possiamo augurarci in un futuro prossimo? Io spero nell'aiuto degli europei, che i discendenti di Voltaire e Rousseau aiutino Israele, perché Israele non f lettere@corriere.it lettere@lastampa.it lettere@ilfoglio.it lettere@avvenire.it lettere@unita.it rubrica.lettere@repubblica.it feedback@shalom.it redazione@ilmanifesto.it lettori@ilgiornale.it