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La Stampa - L'Unità - Corriere della Sera Rassegna Stampa
02.02.2008 Shoah: la necessità della memoria
Arrigo Levi e Furio Colombo la difendono, Sergio Romano la nega

Testata:La Stampa - L'Unità - Corriere della Sera
Autore: Arrigo Levi - Furio Colombo - Sergio Romano
Titolo: «Olocausto, perché serve la memoria - Una questione di memoria - Giornate della memoria: rischio di overdose»
Da La STAMPA del 2 febbraio 2008, un intervento di Arrigo Levi:

C’è davvero un «rischio di overdose» nelle celebrazioni delle «giornate della memoria»? O non c’è invece ancora il rischio opposto, della memoria perduta, tra le giovani generazioni, di quelle che sono state le tragedie del Novecento, le guerre e i massacri di avversari politici o di intere popolazioni? Mi è accaduto di partecipare, quest’anno, sia alla celebrazione al Quirinale del «Giorno della Memoria», dedicata, per volontà del Presidente della Repubblica, oltre che ai milioni di vittime dell’Olocausto al ricordo dei Giusti italiani, che a rischio della vita salvarono migliaia di ebrei italiani e stranieri dalla deportazione nei campi di sterminio; sia a una commossa celebrazione del «Giorno della Memoria» in una scuola di Carpi intitolata a Odoardo Focherini, un «Giusto» carpigiano, cattolico fervente, che finì lui stesso deportato in un lager da cui non fece più ritorno, dopo avere organizzato il salvataggio di molte decine di ebrei.
In ambedue i casi i protagonisti dell’evento sono stati non tanto gli oratori intervenuti con analisi e ricordi, quanto le platee di centinaia di studenti (al Quirinale, provenienti da diverse regioni d’Italia) che avevano compiuto ricerche sulla Shoah e sui «giusti» della loro terra, e gli appassionati interventi di alcuni di loro. No, non posso proprio dire di avere constatato, in queste celebrazioni, un «rischio di overdose», e nemmeno eccessi di retorica o di conformismo. Di fatto, da quando è stato istituito in Italia, alcuni anni or sono, il «Giorno della Memoria», è andato crescendo il numero di classi, in genere delle scuole medie, che, grazie anche all’impegno dei funzionari della Pubblica Istruzione e delle autorità locali, hanno dedicato tempo prezioso per la loro formazione, con la guida dei loro insegnanti, allo studio di quell’evento centrale ed emblematico di tutti gli orrori del Novecento che fu l’eliminazione sistematica degli Ebrei europei da parte del nazismo e dei regimi suoi alleati, fra cui il Fascismo.
Il Fascismo, che con le leggi antiebraiche del 1938, firmate da un discendente di Carlo Alberto, che novant’anni prima aveva concesso agli ebrei italiani parità di diritti civili, aveva prima aperto la strada e poi partecipato attivamente con le leggi e l’operato della Repubblica di Salò al tentativo di mandare a morte tutti gli Italiani di religione ebraica, che pure erano stati fra i protagonisti delle guerre per l’unità d’Italia e della crescita civile e culturale di quella che sentivano come la loro patria. Se se ne salvarono più di ventimila fu soltanto grazie al rifiuto di uno stuolo immenso di Giusti, molti di loro religiosi, ma per lo più comuni cittadini di ogni classe sociale, militari e poliziotti, funzionari dello Stato, in qualche caso persino «camicie nere», di lasciarsi corrompere o intimidire dall’imperante ideologia di morte.
Non è per conformismo o partigianeria se cresce ogni anno il numero delle scolaresche che si recano a visitare i campi di sterminio: tanto da imporre, come è stato scritto recentemente e con ragione su La Stampa, il rifacimento del «Museo dell’Olocausto» italiano ad Auschwitz, per dargli un contenuto informativo ed educativo che non aveva nella sua originaria concezione celebrativa.
Non si celebrano oggi nelle scuole, come nelle scuole fasciste che frequentammo, le glorie di Roma o i fasti illusori dell’Impero. Si parla, purtroppo, di storia contemporanea, come è stata realmente, di tragedie profondamente radicate nella natura, complessa e contraddittoria, della nostra «civiltà» europea. Se alla scuola italiana si può muovere un rimprovero, è, se mai, di non dedicare abbastanza tempo allo studio di un passato tanto recente da far giudicare impossibile che non abbia lasciato tracce, palesi o nascoste, nella coscienza delle nuove generazioni. Come possono i giovani capire, e sentire come cosa loro, quest’Europa di nazioni riconciliate nella libertà e nella democrazia, se non hanno memoria dell’incubo da cui siamo usciti, se non si rendono anzi conto che proprio dalla consapevolezza dell’abisso di orrori in cui era precipitata l’Europa è nata la volontà di dire: mai più guerre fra noi?
La Shoah, che rappresenta in qualche modo il culmine dell’epoca più fosca della nostra storia, è un punto di riferimento ineludibile per rafforzare la coscienza della nostra attuale identità, della nostra faticosa opera di costruzione di un’Europa di libertà e di pace: in un mondo che non è in pace e che ci appare carico di minacce. Nella nostra memoria, nella nostra coscienza, non può non esserci la Shoah. Così come ci sono, ovviamente, le guerre europee del Novecento, che fecero, fra l’una e l’altra, una settantina di milioni di morti, e i gulag staliniani non meno dei lager nazisti: tutti parte della stessa storia, della storia contemporanea europea. Abbiamo dedicato gran parte della nostra vita a cercare di capire, e di spiegare, come poté accadere ciò che accadde, appena ieri. Tener viva la memoria non è un rito formale: è compito essenziale non solo degli storici ma anche degli educatori. I giovani debbono ricordare. Senza ricordo del passato, come costruire un futuro diverso?

Da L' UNITA' , un articolo di Furio Colombo:

Due lettere inviate a Sergio Romano al Corriere della Sera, e la risposta netta (contro il «Giorno della memoria» dedicato alla Shoah) dell’ambasciatore-scrittore ci aiutano a far luce su equivoci, errori di informazione, errori di percezione, e un fondo di malumore per tutta questa attenzione dedicata agli ebrei. Il fatto è che anche fascisti e tedeschi avevano dedicato molta attenzione a questi cittadini del nostro e di tutti gli altri paesi europei, e a molti sembra inevitabile (cerco di dire con mitezza) ritornare sull’argomento.
seguMa andiamo con ordine. Le due lettere, scelte probabilmente fra le tante che saranno state scritte a Sergio Romano nell’occasione del 27 gennaio, toccano entrambe il tema sollevato alla Camera, in lunghe discussioni orientate a un perenne rinvio. Perché solo gli ebrei e le altre vittime (soldati, politici, omosessuali, zingari) dell’universo concentrazionario fascista nazista e non le altre vittime di Stalin, della Cina, dell’orrore comunista? È un argomento già molto usato in passato e ha avuto, con la pazienza e l’attenzione che merita, mille volte risposta. E non risposta di indifferenza a quei gravi delitti ma una obiezione precisa e incontrovertibile, nel paese di Nicola Pende (il manifesto degli scienziati italiani sulla razza, che dichiara estraneità, inferiorità e pericolo degli ebrei) e di Giorgio Almirante (autore ed organizzatore della rivista La difesa della razza, forse la più crudele e diffamatoria in quegli anni di dilagante antisemitismo europeo).
Le due lettere a Sergio Romano, che appaiono, con evidenza scritte da persone non giovani (dunque con più probabili ricordi personali)e dotate solo di argomenti di destra (basta con i delitti fascisti, occupiamoci una buona volta di quelli comunisti), sono travestite di finto candore. Chiedono una risposta che essi stessi offrono: ma come? Con così tanti delitti di Stalin e Tito, c’è ancora chi riempie la testa alla gente con le leggi razziali di Hitler e Mussolini? «Le leggi razziali italiane? Sono state poca cosa», aveva detto a suo tempo Vittorio Emanuele Savoia, quando si dubitava della sua conoscenza della storia e non ancora della sua tempra morale. Nel rispondere alle due lettere, Sergio Romano non sceglie l’indecoroso percorso Savoia. Offre una rapida e corretta ricostruzione di eventi (un elenco di crimini in Europa e poi fino a Mao, a Ho Chi Min, e stupisce che non abbia incluso i Khmer Rossi della Cambogia). Ma raggiunge la stessa conclusione. In tre punti.
Primo, al Parlamento italiano Sergio Romano dichiara che avrebbe votato contro la legge che istituisce il «Giorno della memoria» dedicato alla Shoah perché nel mondo è accaduto ben altro.
Secondo, indica come cattivi maestri, con il dovuto disprezzo, «i professionisti della memoria antifascista». Posso permettermi di credere che si riferisse a me come estensore e prima firma del testo di quella legge. E posso dire che in quel gruppetto, fra coloro che non dimenticano Via Rasella, Marzabotto, Sant’Anna di Stazzema, la strage delle famiglie ebree di Stresa, la razzia del 16 ottobre a Roma, sotto le finestre del Vaticano, i sette Fratelli Cervi (la lista sarebbe immensa perché un professionista della memoria antifascista ricorda tutto, specialmente se in quel tempo ha vissuto), mi trovo in buona compagnia. La sola che desidero.
Terzo, Sergio Romano sceglie di ricordare che al momento del voto alla Camera «Lucio Colletti ha votato contro». Aggiunge: «Anch’io avrei votato contro», presumibilmente per non essere - Dio ci scampi - scambiato per un professionista della «memoria antifascista» che, nella sua narrazione, appare un disturbo petulante nella buona vita italiana.
L’opinione è sua. Brutta ma rispettabile. Il ricordo è sbagliato. Colletti (che voleva una mozione, non una legge) non ha votato contro. Si è astenuto. L’ astensione, secondo il regolamento della Camera, non impedisce di dichiarare la legge, come risulta dagli atti, votata all’unanimità. La legge che istituisce «Il giorno della memoria» in Italia è stata infatti votata all’unanimità perché tutti i miei colleghi di allora, da sinistra a destra hanno accolto i due argomenti che sono stati proposti nella perorazione (la ricordo come una supplica) finale. È stato detto: gli orrori del mondo sono tanti e spaventosi, ma la Shoah, oltre a essere un crimine unico, è un delitto italiano. Nulla di ciò che è accaduto poteva accadere senza le leggi razziali italiane. E infatti nella Bulgaria fascista i tedeschi, neppure nell’impeto di violenza finale del 1943-45 hanno potuto arrestare un solo cittadino ebreo di quel paese perché il leader fascista bulgaro Dimitar Peshev aveva detto «No, mai in questo paese».
Ma ho potuto ricordare un altro fatto. In quell’aula di Montecitorio, da quegli stessi posti in cui stavamo seduti noi, un altro parlamento italiano aveva votato all’unanimità le leggi di Mussolini. Ho chiesto, come un piccolo segno che non avrebbe cancellato nulla ma sarebbe stato un simbolo per i più giovani, di votare anche noi all’unanimità. Così è accaduto. Un cittadino italiano e soprattutto uno storico, dovrebbe trarre un motivo d’orgoglio da questo piccolo evento. Sergio Romano, che pure è uno storico stimato e rispettato, sceglie invece questa frase: «Abbiamo permesso che la storiografia venisse degradata a strumento di lotta politica».
Lotta politica ricordare il delitto di persecuzione dei cittadini italiani ebrei (e - con il concorso dell’Italia - di tutti i cittadini ebrei d’Europa)? Romano chiama alla lotta: «Gli storici dovrebbero essere i primi a respingere questo uso partigiano e fazioso della loro disciplina». Sono certo che gli storici risponderanno.
colombo_f@posta.senato.it

Le due lettere al CORRIERE e la risposta di Romano, pubblicate il 31 gennaio 2008:


È molto importante la giornata della memoria.
Penso però che il suo peso sulle nostre coscienze sarebbe maggiore se fosse accompagnata da altre analoghe giornate, per ricordare almeno quanto accaduto in Unione Sovietica e nella Cina Popolare.
Ercole Martina

Il 27 gennaio è stato il giorno della memoria. Il presidente Napolitano ha reso omaggio alle vittime dell'unico lager italiano, quello di San Sabba. Al riguardo ho avuto modo di leggere tempo addietro che nel dopoguerra anche Stalin, ossessionato dal timore di attentati alla sua vita, specie da parte di medici ebrei, nutrì il proposito di eliminare 4 milioni di ebrei russi, ma ne fu impedito dalla sua (provvidenziale) morte causata da avvelenamento a seguito di un «complotto» ordito, sembra, dal maresciallo Zhukov, che aveva parenti ebrei. Si tratta di una una leggenda antistaliniana o c'è del vero sul piano storico? Se sì, l'Olocausto sarebbe potuto essere ben più esteso e tragico.
Lucio Di Nisio


Quando venne in discussione alle Camere la legge che ha istituito anche in Italia la «giornata della memoria», il solo parlamentare contrario al provvedimento, se non ricordo male, fu Lucio Colletti, studioso del marxismo, filosofo della politica e comunista per alcuni anni, ma fondamentalmente liberale e infine deputato di Forza Italia per due legislature sino alla morte. Al suo posto, anch'io avrei votato contro quella legge. Temevo che il genocidio ebraico avrebbe occupato gran parte dello spazio celebrativo aperto da quella data e scatenato una sorta di corsa alla memoria da parte di tutti coloro che si sarebbero sentiti esclusi o insufficientemente ricordati. Temevo che la ricorrenza avrebbe creato i «professionisti della memoria», vale a dire una categoria di studiosi che si dedicano prevalentemente a questo esercizio. E temevo gli eccessi di retorica e di conformismo che questo esercizio avrebbe provocato. In modo diverso e con diverse motivazioni le vostre lettere mi sembrano confermare le mie previsioni. Esistono ormai, non soltanto in Italia, i professionisti della memoria antifascista, della memoria anticomunista, della memoria anticolonialista e della memoria antirazzista. Ciascuno di essi ricorda le proprie vittime o quelle provocate dall'ideologia nemica, ma tende inevitabilmente a dimenticare o trascurare le vittime che non portano acqua al mulino della sua specializzazione. Ho l'impressione che queste giornate della memoria abbiano avuto due conseguenze negative. In primo luogo stiamo perdendo di vista le principali caratteristiche della storia del Novecento. Dimentichiamo che l'Europa e l'Asia, dopo la Grande guerra e la rivoluzione bolscevica, furono teatro di un gran numero di guerre civili fra il comunismo e il nazionalismo esasperato dei movimenti radicali, più o meno violenti, che vengono raggruppati, un po' semplicisticamente, nella categoria dei «fascismi». I due contendenti si comportarono spesso alla stesso modo. Non appena riuscì a prevalere e a instaurare il proprio regime, ciascuno di essi decise che la vittoria sarebbe stata completa e sicura soltanto se fosse riuscito a liquidare o neutralizzare tutti i suoi nemici, veri o presunti, reali o potenziali. Così fece Lenin con l'ondata di terrore che si abbatté sulla Russia sovietica nei primi anni del regime. Così fece Stalin quando annientò ogni potenziale voce discordante all'interno del regime. Così fece Mussolini, anche se in forma molto meno radicale e cruenta, dopo il 1926. Così fece Hitler contro i socialdemocratici, i comunisti, gli ebrei, gli zingari e i dissidenti religiosi. Così fece Franco quando continuò a perseguitare e a eliminare la componente repubblicana della società spagnola. Così fecero Mao in Cina, Ho Chi-minh in Vietnam, Suharto in Indonesia, Tito in Jugoslavia e la dirigenza dei partiti comunisti nei Paesi satelliti dell'Urss dopo la Seconda guerra mondiale. Quanto all'espulsione degli ebrei russi verso la Siberia, programmata da Stalin nel suo ultimo anno di vita, è probabile che il dittatore sovietico li considerasse infidi e, soprattutto dopo la nascita di Israele, la possibile «quinta colonna» di uno Stato straniero. La tesi secondo cui la sua morte sarebbe stata provocata da un complotto filoebraico, caro Di Nisio, non è documentata ed è frutto, probabilmente, di una larvata forma di giudeofobia. In secondo luogo abbiamo permesso che la storiografia venisse degradata a strumento di lotta politica e che gli eventi del passato divenissero munizioni per le battaglie di oggi. Gli storici dovrebbero essere i primi a respingere questo uso partigiano e fazioso della loro disciplina.

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