DAL NOSTRO CORRISPONDENTE GERUSALEMME — Mohammed lavora con i bambini disabili. Li aiuta a vestirsi, mangiare, andare al bagno. Per questo al suo villaggio lo chiamano «traditore». Lui e gli altri 600 arabi israeliani che hanno scelto di aderire come volontari al servizio nazionale: 150 dollari al mese, altri 2.000 alla fine del periodo di uno o due anni. E soprattutto, quando andranno all'università, gli stessi benefici e vantaggi dei giovani ebrei che hanno fatto il militare. Il programma ha fatto litigare padri e figli, allontanato i vicini di casa, diviso i clan. Ali Zahalka, preside in una scuola di Kfar Qara, difende i ragazzi. «Perché qualcuno che dà una mano in un ospedale dev'essere tacciato come un pariah? Basta con le ipocrisie. Nessuno di noi è pronto a rinunciare alla cittadinanza israeliana: allora dobbiamo anche dare a questo Paese». Jamal Zahalka, stessa famiglia e stessa città, è invece il parlamentare che li ha attaccati più duramente. «Il servizio nazionale è un tentativo di rimodellare l'identità dei giovani arabi, di "sionistizzarli". Chi accetta per me è un lebbroso ». L'obiettivo della nuova agenzia, nata in agosto e diretta da Reuven Gal, per anni psicologo nell'esercito, è di «rafforzare il legame tra i cittadini e lo Stato, di aiutare l'integrazione della minoranza araba». Una formula che spaventa la comunità. Ayman Ouda, segretario generale del partito Hadash, ha fondato un comitato «contro ogni forma di arruolamento ». Dietro al volontariato civile — spiegano i critici — si nasconderebbe un tentativo di reclutare gli arabi (che sono per legge esentati dal militare) e «constringerli a combattere contro i fratelli palestinesi». Un poster per la campagna di boicottaggio mostra un fucile mitragliatore M16, con l'avvertimento: «Stanno provando a mettermi la divisa». Il gruppo rap Dam ha offerto il sostegno con la canzone «Ricercato: un arabo che ha perso la memoria ». «Se Israele fosse davvero lo Stato di tutti i suoi cittadini e mio figlio fosse uguale al figlio di un ebreo, allora parlare di servizio nazionale sarebbe legittimo», commenta Nadim Nashif, direttore di un'associazione giovanile. Essere più uguali. Amjad Alayan (protagonista della prima sit-com dedicata a una famiglia araba israeliana) sogna un'auto «più ebraica». Perché — come gli spiega l'amico ebreo Meir — «solo i palestinesi guidano una Subaru scassata, per forza ti fermano ai posti di blocco». «Lavoro da arabi» viene trasmessa al sabato in prima serata ed è un successo. L'autore Sayed Kashua ironizza sugli stereotipi di tutt'e due le parti e scrive per Amjad battute quasi autobiografiche. «Viviamo in un stato di confusione perenne — spiega —, oscilliamo tra la nostra identità palestinese e quella israeliana. Da un lato, la minoranza araba è la più povera, debole e perseguitata del Paese. Dall'altro, la maggior parte di noi è consapevole che le nostre condizioni sarebbero molto peggiori, se vivessimo in una qualunque delle nazioni arabe che circondano Israele»
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