Sul CORRIERE della SERA di oggi, 08/12/2007, a pag.44, l'opinione di Robert Kagan sulla minaccia nucleare iraniana, dal titolo: " Trattare con Teheran ? Meglio farlo subito".
Comunque si giudichino le conclusioni del National Intelligence Estimate (Nie), per cui l'Iran avrebbe interrotto il suo programma di armi nucleari nel 2003 — e svariati punti del rapporto sono tutti da chiarire —, i loro risvolti pratici sono indiscutibili. L'amministrazione Bush non potrà intraprendere un'azione militare contro l'Iran in questi ultimi mesi del suo mandato, né minacciare di farlo salvaguardando la sua credibilità, se non in risposta a un'iniziativa iraniana eccezionalmente provocatoria. La via dell'attacco militare contro presunti impianti nucleari iraniani è sempre stata molto rischiosa. Per l'amministrazione Bush, quest'opzione è ormai scaduta. Né, tuttavia, essa potrà mettere a segno ulteriori conquiste nella ricerca di sostegno internazionale per inasprire le sanzioni contro il regime iraniano. Il timore di un'azione militare Usa è sempre stata la principale ragione per cui gli Europei hanno fatto pressioni su Teheran. La paura per l'imminente minaccia della bomba iraniana era secondaria. Compattare il fronte europeo a sostegno di dure sanzioni era un compito difficile già prima della diffusione del rapporto del Nie. Ora è impossibile.
Con i suoi strumenti strategici in frantumi, l'amministrazione Bush può scegliere l'isolamento e temporeggiare per i prossimi dodici mesi. Oppure può lanciare l'iniziativa, e fare un favore alla prossima amministrazione, aprendo negoziati diretti con Teheran.
Sedersi al tavolo negoziale apparirà, all'inizio, un segno di debolezza. Gli iraniani potrebbero avvalersi delle trattative per sfruttare a proprio vantaggio le crepe sia tra gli Stati Uniti e i suoi alleati, sia all'interno del sistema politico Usa. Ma esistono ottime ragioni per sedersi a quel tavolo. È opinione diffusa, negli Stati Uniti e non solo, che a ostacolare un comportamento più saggio da parte dell'Iran sia stata l'indisponibilità dell'America al dialogo. Non è che una leggenda, la quale tuttavia intralcerà le iniziative americane oggi e per diversi anni a venire. Prima o poi, gli Stati Uniti dovranno compiere il grande passo, com'è già avvenuto in tanti altri conflitti nel corso della loro storia.
Questo è il momento migliore per farlo. Gli Stati Uniti non si trovano in una posizione di debolezza. L'imbarazzo che ha fatto seguito alla diffusione del rapporto del Nie svanirà ben presto: le realtà strategiche hanno vita più lunga. L'America mantiene la sua potenza nel mondo e in Medio Oriente. Il successo del surge
militare in Iraq implica che gli Stati Uniti potrebbero trovare una posizione sostenibile in quella regione; nessuno l'avrebbe detto un anno fa, quando sembrava che l'America stesse per essere cacciata. Se l'Iraq è sulla via della ripresa, ecco che l'ago della bilancia si sposta a sfavore del-l'Iran, peraltro già isolato.
Ma esistono anche altre ragioni per muoversi in questa direzione. Anche se il Nie prevede che l'Iran non potrà dotarsi della bomba atomica prima del 2010, il tempo a nostra disposizione resta limitato. La prossima amministrazione, specie se democratica, vorrà probabilmente tentare la via del dialogo con Teheran. Ma i negoziati difficilmente partirebbero prima dell'estate 2009, proprio quando, se l'analisi del Nie è corretta, l'Iran potrebbe apprestarsi alle fasi finali dello sviluppo della bomba. Meglio dunque avviarli già ora: in tal modo, quando la prossima amministrazione si insedierà potrà valutare i progressi, o riscontrarne l'assenza, dopo un anno di trattative. Se deciderà che è necessario ricorrere alla forza, farà meno fatica a dimostrare che tutte le altre opzioni sono scadute.
Avviando ora i negoziati, gli Stati Uniti avrebbero maggiori possibilità di definire i termini del dialogo, sia in patria che all'estero. Attraverso i negoziati, qualunque forma essi assumano, si dovrebbe convincere gli iraniani a chiarire una volta per tutte le numerose questioni sollevate dall'Agenzia internazionale per l'energia atomica (Aiea), e tuttora insolute, circa il programma nucleare del regime; consentire ispezioni intrusive nonché il monitoraggio dei loro impianti, e conformarsi alla risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell'Onu che impone la sospensione dell'arricchimento dell'uranio.
Le trattative non devono essere circoscritte alla questione nucleare, bensì includere anche il sostegno dell'Iran al terrorismo, la protezione accordata a diversi leader di Al Qaeda, la sponda offerta ad Hezbollah e Hamas, oltre al rifornimento di armamenti a violenti estremisti in Iraq.
Dovrebbero inoltre contemplare la violazione dei diritti umani e la repressione politica asfissiante del governo iraniano. Qualcuno sostiene che non sia possibile dialogare con un Paese e, al contempo, caldeggiare una sua svolta politica dall'interno. Ma è un'obiezione del tutto insensata. Gli Stati Uniti, ad esempio, sono riusciti contemporaneamente a contenere la minaccia sovietica, negoziare con i dignitari dell'Urss e promuovere una svolta politica in quel Paese. Come? Sostenendo i dissidenti, mantenendo contatti diretti con il popolo russo via radio e altri mezzi di comunicazione, e vincolando il governo sovietico al rispetto delle convenzioni internazionali sui diritti umani, come gli Accordi di Helsinki. Non si vede perché gli Stati Uniti non possano dialogare con l'Iran e, al contempo, puntellare le strategie di contenimento nella regione e caldeggiare una svolta all'interno del Paese.
E la posta in gioco per l'Iran? Se Teheran rispetterà i vincoli sul nucleare, smetterà di spalleggiare la violenza terroristica, e inizierà a trattare il suo popolo con giustizia, umanità e tolleranza, verrà accolta con favore nella comunità internazionale, con tutti gli importanti benefici sul piano economico, politico e della sicurezza che ciò comporta. Questa proposta è sempre stata sul tavolo, e gli Stati Uniti non hanno alcunché da perdere nel formularla esplicitamente.
Avviare le trattative ora non significa vincolare le future opzioni dell'America. Se gli iraniani risponderanno con l'ostruzionismo o con un rifiuto a dialogare — eventualità tutt'altro che remota —, un simile primato dell'intransigenza potrà ritorcersi contro di loro oggi e nei cruciali anni a venire. È possibile che la proposta stessa dell'America crei spaccature in Iran. Resta difficile, ad ogni modo, scorgere altre opzioni strategiche disponibili. Le carte in mano all'amministrazione Bush sono queste. Si tratta ora di dimostrare una certa astuzia e creatività, e giocarle nel modo giusto.
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