Il National Intelligence Estimate sull'atomica iraniana e le sue conseguenze rassegna di analisi
Testata:La Stampa - Il Foglio - L'Opinione - La Repubblica - Il Giorno Autore: Maurizio Molinari - la redazione - Stefano Magni - Anais Ginori - Cesare De Carlo Titolo: «Bush: l’Iran faccia chiarezza sul nucleare - Dietro il baratto iracheno - Perché la Cia ha deciso di contraddirsi sulla Bomba di Teheran - Se l’Iran non vuole la Bomba, perché ha i missili per lanciarla? - Cia Lux - Le prediche da Teheran - Da Vienna gli»
Da La STAMPA del 6 dicembre 2007, a pagina 14, la cronaca di Maurizio Molinari:
Ahmadinejad canta vittoria sul nucleare ma Bush lo incalza chiedendogli di svelare i segreti del programma atomico mentre alle Nazioni Unite è la Francia che prende l’iniziativa per accelerare il varo di nuove sanzioni contro l’Iran. Il presidente iraniano, Mahmud Ahmadinejad, ha reagito ieri con toni trionfalistici alla pubblicazione del «National Intelligence Estimate» con il quale i servizi segreti Usa hanno attestato che Teheran ha bloccato nel 2003 il programma militare nucleare. «Si tratta della più grande vittoria politica dell’Iran nell’ultimo secolo» ha detto Ahmadinejad in un comizio nella provincia di Ilam, spiegando che si è trattato di «un colpo di grazia per chi ha creato un’atmosfera di minacce e tensioni con falsi slogan e pretesti». Il documento dell’intelligence Usa prova per Teheran che non c’è nessuna «corsa all’atomica», da qui il rilancio del programma di arricchimento dell’uranio. «Non indietreggiamo neanche di uno iota - ha detto Ahmadinejad - per produrre in un anno il combustibile sufficiente per una centrale dobbiamo arrivare a 50 mila centrifughe» rispetto alle tremila disponibili. A Teheran prevale la convinzione che il rapporto dell’intelligence Usa sia un siluro contro la Casa Bianca e dunque il ministro del Petrolio, Gholan Hussein, conclude: «Alla luce di quanto avvenuto Washington dovrebbe porre presto fine a tutte le sanzioni». Poche ore dopo la risposta è arrivata dal presidente americano, George W. Bush, che durante una sosta a Omaha, in Nebraska, si è rivolto a Teheran chiedendo di «dare le spiegazioni che mancano sulle attività nucleari oppure affrontare le conseguenze che verranno». «Gli iraniani devono compiere una scelta strategica - ha detto Bush - possono alzare il velo sulle loro attività oppure possono continuare sul cammino dell’isolamento». Per la Casa Bianca il «National Intelligence Estimane» ha «fatto luce sulla situazione» e dunque Teheran deve rendere conto sul programma militare segreto condotto fino al 2003, del quale non ha mai ammesso l’esistenza. Proprio a tale scenario sembra riferirsi il direttore dell’Agenzia atomica dell’Onu (Aiea), Mohammed El Baradei, quando parla di «finestra di opportunità» aperta dal rapporto dell’intelligence Usa: se Teheran ammetterà quanto fatto fino al 2003 potrebbe arrivare l’attesa svolta sul fronte del negoziato. Intanto al Palazzo di Vetro fervono le manovre in vista di una possibile nuova risoluzione del Consiglio di Sicurezza con più rigide sanzioni militari ed economiche contro l’Iran. Ad annunciare che «le discussioni riprenderanno a breve» è stato l’ambasciatore francese, Jean-Maurice Ripert, secondo il quale «il consenso aumenta» sulle nuove misure che potrebbero essere adottate. Al momento i negoziati sono in corso a livello di alti funzionari fra Usa, Russia, Cina, Francia, Gran Bretagna e Germania. «Stiamo colmando le differenze su argomenti tecnici» ha spiegato Ripert, mostrando un cauto ottimismo sull’ipotesi di un’intesa la prossima settimana. Ma Russia e Cina sembrano assai più caute. Il ministro degli Esteri russo, Serghei Lavrov, dice di «non sapere nulla di programmi segreti iraniani» e il collega cinese Yang Jiechi ribadisce che «Teheran ha diritto a sviluppare il nucleare pacifico» ma entrambi concordano sulla necessità che «le passate risoluzioni Onu vengano rispettate» e dunque l’Iran blocchi da subito l’arricchimento dell’uranio. A chiedere «sanzioni più efficaci contro Teheran» è invece il ministro degli Esteri israeliano, Tzipi Livni, secondo cui la visita di Bush a Gerusalemme in gennaio servirà proprio per discutere di Iran. Un altro fronte di crisi diplomatica con Teheran riguarda il Canada. Ottawa ha respinto per due volte la nomina di altrettanti nuovi ambasciatori iraniani in quanto sospetta siano stati implicati nel sequestro di ostaggi americani a Teheran nel 1979 e la reazione della Repubblica islamica è stata di chiedere l’allontanamento dell’ambasciatore canadese.
L'editoriale di Molinari a pagina 43, che vede dietro il National Intelligence Estimate un "baratto iracheno":
Potrebbe esserci un baratto iracheno fra Washington e Teheran dietro il «National Intelligence Estimate» con cui gli 007 di Washington allentano l’allarme sul nucleare iraniano. L’avvisaglia è arrivata a fine novembre, quando fonti della Cia hanno corretto il tiro sulle motivazioni della riduzione delle violenze in Iraq affermando che all’origine non c’erano tanto i successi dell’esercito Usa nel reclutare le tribù sunnite del Nord quanto la decisione di Teheran di ridurre drasticamente l’invio di armi, esplosivi e istruttori alle diverse milizie. Il Pentagono non ha mai smentito tale versione, anzi ha confermato la riduzione delle potenti bombe «made in Iran» che tante vittime americane avevano finora causato. Per una settimana a Washington ci si è interrogati su cosa vi fosse dietro la marcia indietro di Teheran in Iraq ed ora è il «National Intelligence Estime» a suggerire una risposta: i servizi Usa affermano che il programma militare nucleare iraniano esiste ma è stato bloccato nel 2003 e dunque l’obiettivo della bomba si allontana nel tempo. Da qui l’ipotesi di uno scambio fra le intelligence nemiche: Teheran ha bloccato l’aiuto alla guerriglia e in cambo Washington ha bloccato il conto alla rovescia verso l’attacco militare contro gli impianti nucleari. Il primo a suggerire che l’Iraq avrebbe potuto essere il terreno d’incontro fra gli interessi di George W. Bush e Mahmud Ahmadinejad fu, a fine 2006, l’ex segretario di Stato James Baker firmando, assieme al democratico Lee Hamilton, il rapporto dell’«Iraq Study Group» che suggeriva alla Casa Bianca di coinvolgere l’Iran per stabilizzare il Medio Oriente. Sulle posizioni di Baker si schierò, a inizio 2007, Henry Kissinger. I due ex capi della diplomazia Usa alfieri della Realpolitik incontrarono Condoleezza Rice che fece proprio l’approccio dell’apertura a Teheran e diede luce verde agli incontri diretti fra ambasciatori a Baghdad, affiancando tale politica della «carota» al costante sfoggio del «bastone» da parte di un Pentagono che mantiene tre portaerei nelle acque del Golfo Persico, con un potenziale tale da poter colpire l’Iran in meno di 24 ore. La strategia di «dialogare con un robusto bastone in mano» risale a Teddy Roosevelt e ha consentito alla Casa Bianca di identificare un terreno di convergenza d’interessi anche con re Abdallah dell’Arabia Saudita. Ciò che accomuna Teheran, Washington e Riad è il timore di un Iraq frammentato, in preda a guerre etniche e fonte di instabilità regionale perché questo scenario obbligherebbe la Casa Bianca a mantenere 160 mila uomini all’infinito e potrebbe obbligare sauditi e iraniani a inviare propri reparti militari, rischiando di trasformare Baghdad nella polveriera di una guerra regionale dalle conseguenze imprevedibili. Come spesso avviene in Medio Oriente sono gli interessi convergenti a spingere acerrimi nemici su sentieri comuni e in questo caso è la novità di un Iraq con meno morti e attentati a suggerire il raggiungimento del baratto che Baker aveva visto a portata di mano. Ma si tratta di un equilibrio del terrore, che ripete su scala regionale quanto avveniva fra Usa e Urss ai tempi della Guerra Fredda: terrà fino a quando farà comodo tanto a Washington che a Teheran. Al momento consente a Bush di dedicarsi alla pace in Medio Oriente, ai candidati repubblicani di affrontare la campagna presidenziale 2008 sfilando ai democratici la carta irachena e ad Ahmadinejad di cantare vittoria, procedendo nell’arricchimento dell’uranio. Ma tutto può finire in un attimo: non c’è nulla di più precario, e pericoloso, di un baratto fra servizi di intelligence nemici in tempo di guerra.
Anche Il FOGLIO, in prima pagina, pubblica una rticolo sui retroscena e sulle conseguenze del National Intelligence Estimate: New York. Il nuovo rapporto dell’intelligence americana sull’Iran, reso pubblico dall’Amministrazione Bush lunedì, ha avviato un dibattito su tre questioni: che cosa ha spinto la Cia a contraddire se stessa e a sostenere che l’Iran dovrebbe aver sospeso i suoi programmi nucleari militari; qual è la nuova strategia da adottare sull’Iran; e, infine, in che modo questa nuova valutazione dell’intelligence influenzerà la campagna elettorale per la Casa Bianca. La prima questione è quella più controversa. Al momento della pubblicazione del National Intelligence Estimate (NIE), l’interpretazione prevalente, specie tra i liberal, è stata quella di un duro colpo sferrato dalla Cia alla retorica bellica che si cominciava a sentire alla Casa Bianca e in particolare nell’ufficio del vicepresidente Dick Cheney. I cosiddetti “Iran hawk”, cioè i falchi che in questi anni non hanno sprecato un giorno per mettere in guardia sul pericolo degli ayatollah atomici, hanno giudicato l’analisi dell’intelligence come una vera e propria azione coperta della Cia contro Bush. Molti analisti conservatori, guidati da Norman Podhoretz, credono che in tutti questi anni la Cia non abbia fatto altro che mettere il bastone tra le ruote alla Casa Bianca e che quest’ultimo documento sia diretto a fermare Bush. Altri pensano che l’apparato di intelligence abbia fiutato l’aria pro democratica e cominciato a riposizionarsi in vista dell’arrivo di un nuovo presidente. Ma al di là delle ipotesi complottistiche, c’è invece chi più moderatamente spiega il voltafaccia della Cia con una maggiore cautela dettata dagli errori del recente passato oppure, al contrario, proprio con la notoria incapacità della Cia di prevedere e giudicare correttamente la situazione mediorientale e iraniana. Si fa però strada un’altra interpretazione, la più interessante. L’ipotesi circola ancora sottotraccia, ma è resa credibile dal fatto che sia stato lo stesso Bush ad autorizzare la pubblicazione del NIE. In Iraq le cose stanno cominciando ad andare bene, merito certamente dell’invio di ulteriori truppe, della nuova strategia militare di David H. Petraeus e degli accordi politici con le tribù sunnite, ma un altro motivo del miglioramento della situazione in Iraq è senz’altro il minore coinvolgimento iraniano nella guerriglia. La tesi è che i contatti diplomatici tra americani e iraniani avviati sulla vicenda irachena abbiano portato se non al “grand bargain” – il “grande patto” auspicato dagli esperti di scuola realista – perlomeno a un più ridotto compromesso di non interferenza iraniana in Iraq, in cambio di un rallentamento della pressione americana sul nucleare. E’ soltanto un’ipotesi che, peraltro, non ferma la macchina americana di pressioni sugli ayatollah, a cominciare dall’aver radunato il mondo arabo ad Annapolis in funzione anti iraniana. Come al solito, Bush procede mescolando nobili impeti idealisti e sana pragmaticità realista.
Gli effetti su Hillary e gli altri Come rimodellare la strategia americana sull’Iran è la seconda questione posta dalla pubblicazione del National Intelligence Estimate. Bush ha detto che per lui non cambia nulla e che l’obiettivo resta il medesimo di sempre: gli ayatollah non devono essere messi in condizione di imparare ad arricchire l’uranio, nemmeno per scopi civili, perché una volta che hanno a disposizione il know-how è un gioco da ragazzi trasferirlo a un programma militare. Sul Washington Post di ieri, però, uno degli ideologhi neoconservatori, Robert Kagan, ha scritto che a prescindere da che cosa si pensi del rapporto sull’Iran, non si possono ignorare le sue conseguenze: Bush non potrà usare la forza né minacciarla in modo credibile, a meno di una clamorosa provocazione di Teheran. Bush non sarà nemmeno in grado di convincere gli alleati ad adottare sanzioni, per cui gli resta una sola alternativa: non fare niente o prendere l’iniziativa e aprire colloqui diretti ad ampio raggio con l’Iran. Infine la corsa alla Casa Bianca. Se la minaccia iraniana scompare dal dibattito politico ne avranno beneficio i democratici e, tra loro, quelli più focalizzati sulle questioni interne come Barack Obama e John Edwards. Insomma, cattive notizie per Hillary Clinton e Rudy Giuliani. Il punto è capire se i candidati cambieranno strategia. Hillary ieri è stata criticata dai colleghi per il voto al Senato contro la Guardia rivoluzionaria iraniana, ma ha continuato a difendere la sua decisione. Fred Thompson e John McCain hanno messo in dubbio l’accuratezza del NIE, mentre Giuliani, incurante della Cia, ieri ha lanciato uno spot in cui esalta il confronto duro con gli iraniani che nel 1981 aveva consentito a Ronald Reagan di ottenere, “in una sola ora”, il rilascio degli ostaggi americani catturati a Teheran.
A pagina 3, la rubrica "militaria" si chiede, molto ragionevolmente "Se l'Iran non vuole la bomba, perché ha i missili per lanciarla":
Roma. Il controverso rapporto National Intelligence Estimate on Iran si presta a varie interpretazioni. Secondo alcuni analisti, sembra realizzato più per mettere al riparo le agenzie d’intelligence da eventuali brutte figure che per far luce concretamente sul riarmo atomico dell’Iran. Specie dopo il mancato ritrovamento della “pistola fumante” che potesse comprovare il riarmo strategico dell’Iraq di Saddam Hussein. Il report afferma che Teheran sembra meno determinata a perseguire il programma nucleare militare rispetto al passato, ma sostiene che potrebbe comunque dotarsi di armi atomiche tra il 2010 e il 2015. Sul piano militare non c’è alcun dubbio sul fatto che l’Iran punti a diventare una potenza nucleare né tanto meno sul fatto che il regime di Mahmoud Ahmadinejad rappresenta oggi, con i suoi alleati, l’elemento di destabilizzazione più violento all’opera in medio oriente. Se anche non si vuole tenere in conto i numerosi discorsi di Ahmadinejad e dei suoi generali pasdaran, in cui si inneggia al diritto dell’Iran ad avere la Bomba, bastano gli stretti rapporti militari tra Iran e Corea del nord. Con i petrodollari iraniani è stato finanziato lo sviluppo di missili balistici, di testate e di armi nucleari a Pyongyang. I missili balistici iraniani derivati dai Nodong e Taepodong nordcoreani hanno un significato soltanto se sono abbinati a testate atomiche. Per ora sono in servizio vettori capaci di colpire bersagli fino a 2.000 chilometri di distanza, cioè fino all’Europa meridionale, ma sono in fase di sviluppo altri missili tipo Shahab derivati dai Taepodong 2 nordcoreani e da vettori di origine russa con gittate superiori ai 4.000 chilometri. Nessuno si è mai dotato di armi del genere per imbarcarvi sopra 500 o 1.000 chili di esplosivo convenzionale. Non a caso tutti i paesi che hanno messo a punto missili balistici a medio raggio dispongono di testate atomiche. E’ il caso di Cina, India, Pakistan, Israele e Corea del nord. L’Iran sarebbe l’unico paese che, pur minacciando ogni due giorni di cancellare Israele dalle carte geografiche, ha costruito interi reggimenti di missili balistici da impiegare soltanto con esplosivi convenzionali o con aggressivi chimici. L’Iran starebbe portando avanti un programma atomico che impiega costose tecnologie utili anche a fini militari ma – dice il rapporto – non intende dotarsi della Bomba. “Un giorno ci sveglieremo con un Iran nucleare”, ha detto ieri il presidente israeliano Shimon Peres al giornale Yedioth Aronoth. “Stiamo concedendo a Teheran troppo tempo”. Le informazioni in mano agli Stati Uniti non sono complete, ma l’Iran potrebbe aver ricevuto materiale fissile o addirittura ordigni atomici direttamente dalla Corea del nord. Del programma nucleare degli ayatollah si preoccupano anche le monarchie del Golfo persico, Arabia Saudita in testa, pronte a seguire l’Iran nella corsa all’atomo grazie agli stretti rapporti militari con il Pakistan. L’atomica pachistana è stata finanziata dal denaro saudita nell’ambito di un accordo segreto che allargherebbe alla penisola arabica l’ombrello deterrente dell’arsenale di Islamabad. Anche mettendo da parte la corsa all’atomo, è difficile non dare ragione al presidente George Bush quando afferma che l’Iran rimane una minaccia. Teheran e i suoi alleati soffiano sul fuoco di quasi tutte le crisi mediorientali. Armi e terroristi entrano in Iraq dall’Iran e dalla Siria, gli stessi paesi che sostengono e armano Hezbollah contro Israele e destabilizzano il Libano. Armi iraniane giungono a Gaza grazie a una triangolazione col Sudan per alimentare gli arsenali di Hamas che, grazie ai milioni di dollari forniti dai pasdaran, ha potuto strappare Gaza all’Anp. Nei campi d’addestramento in Iran e Siria si addestrano milizie jihadiste di ogni tipo, incluse quelle di al Qaida che operano con efficacia in Iraq e in tutto il medio oriente, mentre armi sofisticate provenienti dagli arsenali dei pasdaran sono fornite da mesi anche ai talebani afghani.
Sempre a pagina 3, un ironico e puntuale editoriale sul modo in cui la stampa italiana ha accoltoil rapporto dell'intelligence americana
I compagni della Cia hanno detto che in Iran tutto va ben madama la marchesa. La gioia dei commentatori e dei cronisti è evidente, come è giusto che sia, ma a leggere bene commenti e cronache pubblicati in questi giorni dai giornali italiani sembra che il motivo di tanta contentezza non sia la sospensione del programma militare nucleare iraniano, che ops quindi c’era, ma la botta inflitta a Bush dai quei gloriosi rivoluzionari e anti imperialisti della Cia. Stiamo parlando della Central Intelligence Agency, un tempo la quintessenza del male americano e ora l’ultima zattera a cui aggrapparsi per continuare a credere che l’islamismo jihadista sia un’invenzione di quel malefico di Dick Cheney per accaparrarsi il petrolio del mondo. Il paradosso è che i sostenitori dei compagni della Cia dimenticano che l’apparato di intelligence non è un gruppo esterno di opposizione, ma un sistema di agenzie di servizi segreti che fa capo all’Amministrazione Bush. Fanno inoltre finta di non sapere che è stata proprio la Casa Bianca a prendere la decisione di pubblicare il National Intelligence Estimate né che si tratta dello stesso documento che nel 2002 giurava che Saddam avesse grandi arsenali di armi di sterminio. I giornali liberal americani lo sanno benissimo e ieri, sia il New York Times sia il Washington Post, hanno dedicato il loro principale editoriale per avvertire che il nuovo rapporto “non può essere usato da nessuno per abbassare la guardia sulle ambizioni nucleari iraniane” (NYT) né per cominciare a dialogare con l’Iran concedendogli di continuare ad arricchire l’uranio (WP). Tanto più che il National Intelligence Estimate alla seconda riga dice di valutare “con moderata-alta fiducia che Teheran sta, al minimo, tenendo aperta l’opzione per sviluppare armi nucleari”. La valutazione dell’intelligence americana, inoltre, è che gli ayatollah abbiano deciso di fermare i programmi segreti militari in seguito alla pressione politica (e militare) americana e internazionale, la stessa che dopo l’invasione dell’Afghanistan e la destituzione di Saddam Hussein ha convinto il leader libico Gheddafi a consegnare i suoi piani atomici alla comunità internazionale. I compagni della Cia quindi non sono così sicuri, come sembrano i loro nuovi sostenitori. Non solo perché due anni fa sostenevano il contrario, nell’indifferenza di chi oggi li esalta, ma anche perché le loro informazioni non sono notizie certe e verificate, ma soltanto valutazioni e analisi.
Mentre negli Statio Uniti e nella comunità internazionale si valutano gli effetti del National Intelligence Estimate, Ahmadinejad canta vittoria. Da L'OPINIONE, un articolo di Stefano Magni:
C’era da aspettarselo: Ahmadinejad canta vittoria dopo la pubblicazione del rapporto di intelligence sui progressi del suo programma nucleare. Già il 4 dicembre la soddisfazione dei vertici di Teheran era evidente, ma ieri: “Questa è una grande vittoria del popolo iraniano contro le grandi potenze” è stata la prima dichiarazione del presidente integralista islamico. “Potete vedere che il rapporto dice che l’Iran era sulla strada giusta, questo è il colpo finale per il nemico”. In realtà il rapporto non rivela affatto che l’Iran “era sulla strada giusta”, cioè che stava sviluppando un programma unicamente civile. Anzi, secondo un’inchiesta del New York Times, una delle fonti di intelligence che hanno contribuito alla sua stesura, sarebbe entrata in possesso di un computer portatile con in memoria i diagrammi per lo sviluppo di testate nucleari. Il rapporto in questione, semmai, ipotizza che il programma militare sia stato sospeso nel 2003, ma solo a causa della pressione internazionale. Comunque Ahmadinejad è riuscito ugualmente a ottenere un successo di immagine e ora sta facendo di tutto per capitalizzarlo a modo suo: ieri ha rilanciato l’idea di creare due tribunali islamici internazionali.
Il primo servirebbe a dirimere le controversie tra paesi musulmani, ma il secondo a processare, oltre ai criminali di guerra, anche “chiunque abbia reso amara la vita dei musulmani”. Noi italiani saremmo, con tutta probabilità, tra i primi ad essere condannati. Proprio ieri, infatti, il sindaco iraniano di Ghazvin ha bollato il nostro paese come “moralmente corrotto”, dopo una sua visita in Italia e in Spagna programmata per studiare il nostro sistema dei trasporti. A provocare la sua ira non è stato lo sciopero della settimana scorsa, né i cronici ritardi dei nostri mezzi pubblici, ma il fatto che, secondo lui siamo “Un paese in mano a prostitute, drogati, gay e persone prive di moralità”, il tutto perché “L’umanesimo, l’illuminismo e la debolezza della Chiesa hanno trasformato i paesi europei in luoghi di corruzione morale”.
Intanto, è l'Aiea a ricordare la presenza di "indizi misteriosi" che suggeriscono che l'Iran stia nascondendo molto alla comunità internazionale. Un articolo di Anais Ginori da La REPUBBLICA:
VIENNA - Le tracce di uranio altamente arricchito trovate in un politecnico iraniano. La costruzione del reattore nucleare ad acqua pesante ad Arak, scoperto da immagini satellitari. Le attività sospette in una miniera vicino Natanz, gli esperimenti con il gas UF-6, cioè l´esafloruro di uranio, per farlo diventare metallico, ultima tappa verso l´esplosione atomica. La presenza, ormai certificata, di quasi tremila centrifughe e di impianti a cascata, considerata una «soglia critica» per ottenere uranio arricchito oltre il 90% e avere così la Bomba. Sono tanti gli indizi ancora misteriosi su cui l´Aiea sta indagando in Iran. Domande che attendono risposta da mesi. Sebbene ad agosto il regime degli ayatollah abbia iniziato un nuovo programma di collaborazione con l´Agenzia, e che si sia mostrato più «reattivo» alle interrogazioni degli ispettori, il cammino per appurare la verità è ancora lungo e pieno di insidie. «Troppo presto per abbassare la guardia» conclude un funzionario dell´organismo incaricato di vigilare sull´energia atomica nel mondo. In sostanza, certamente non c´è prova che l´Iran stia fabbricando l´arma atomica, come ripetuto dall´Aiea e come ha registrato anche l´intelligence americana. Ma questo - avvertono nel quartier generale viennese - non significa che il pericolo non esista, soprattutto perché l´Iran continua a rifiutare l´Additional Protocol, il protocollo che permetterebbe agli ispettori di indagare a 360 gradi nel paese, senza restrizioni. Oggi i controllori dell´Aiea possono muoversi solo se invitati. Un raggio d´azione troppo limitato per dare certezze alla comunità internazionale. Gli ispettori che da ormai quattro anni vanno e tornano da Teheran ammettono di avere ancora molti sospetti. Per esempio, l´Aiea considera urgente avere maggiori dettagli su «esperimenti condotti con materiale radioattivo altamente esplosivo e su testate missilistiche». E che dire di Arak? L´impianto nucleare ad acqua pesante, a circa 190 chilometri da Teheran, potrebbe produrre plutonio arricchito per armi ma l´Aiea non ha avuto accesso al sito, l´ha potuto vedere tramite satellite. Finora, il regime ha permesso soltanto di chiudere il capitolo sull´acquisto delle centrifughe P1 e P2. Teheran ha ammesso di aver comprato la tecnologia nucleare tra gli anni Ottanta e gli anni Novanta dalla rete clandestina di A.Q. Kahn, il padre dell´atomica pachistana. Sospetti, nessuna pistola fumante. «Ed è bene che la diplomazia vada avanti» ribadisce il direttore Mohamed El Baradei. La responsabilità che pesa sull´Agenzia fa sì che nessuno voglia più nascondere il rischio. L´avanzamento del piano nucleare iraniano procede spedito per «scopi civili e pacifici». Ma se gli obiettivi del programma dovessero cambiare, il regime ormai avrebbe sufficienti impianti e tecnologie per sviluppare armi atomiche nel giro di due anni.
Il GIORNO pubblica ( pagina 22) un'intervista di Cesare De Carlo a John R. Bolton, ex ambasciatore americano all'Onu. Riportiamo le affermazioni salienti di Bolton
"La nostra politica estera ha fatto un inversione a U dopo l'episodio iracheno. Anziché confrontarsi e contrapporsi alle dittature che inseguono armi nucleari, si adagia sulla linea dell'appeasement, dell'accordo diplomatico a ogni costo"
"Coloro che hanno redatto quel rapporto a mio parere soffrovano del complesso iracheno. Avendo fallito sull'Iraq ora esagerano in reticenza. Ma questo significa politicizzare l'intelligence che invece dovrebbe prescindere dalla politica"
"Non si rende pubblico un rapporto se non se ne pubblicano anche le informazioni che stanno alla base. Se queste rimangono segrete, anche il rapporto deve rimanere segreto".
"L'Iran rimarrà una minaccia sino a che continuerà, come sta facendo, ad arricchire l'uranio!.
"Quando leggo che l'Iran ha sospeso il suo programma nucleare a scopi militari, il mio sospetto è che in realtà ora lo nasconda meglio di prima".
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