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Corriere della Sera Rassegna Stampa
19.11.2007 Per Kouchner gli insediamenti sono un ostacolo alla pace
per Gadi Taub un pericolo per il sionismo

Testata: Corriere della Sera
Data: 19 novembre 2007
Pagina: 11
Autore: Davide Frattini
Titolo: «Kouchner: colonie ostacolo alla pace»

Dal CORRIERE della SERA del 19 novembre 2007, la cronaca di Davide Frattini

GERUSALEMME — «Del documento non sono state scritte neppure due righe». E forse non lo saranno mai. A una settimana dal vertice di Annapolis le due squadre di negoziatori non hanno ancora trovato un accordo sulla dichiarazione comune da leggere alla fine del vertice.
Stasera ci provano Ehud Olmert e Abu Mazen. Il premier israeliano e il presidente palestinese sembrano i più fiduciosi. Devono puntare sulla scommessa al tavolo americano, perdere non sembra un'opzione. «La conferenza è destinata a fallire e Hamas prenderà il potere nel futuro Stato palestinese », minaccia Mahmoud Zahar, uno dei leader più oltranzisti del movimento, dalla Striscia di Gaza. «Noi siamo la maggioranza e dobbiamo prevalere anche in Cisgiordania, che è per ora controllata da un governo illegale».
Gli israeliani sembrano ormai considerare il summit solo un punto di partenza: le decisioni vere verranno dopo. «Annapolis non può essere un fallimento. Il solo fatto che si svolga è un successo», dice Olmert a Bernard Kouchner, in visita a Gerusalemme. Dove il ministro degli Esteri rassicura Israele sull'Iran («È una delle più gravi crisi che minacciano l'ordine mondiale ») e non esclude un'operazione militare: «Dobbiamo continuare con le pressioni diplomatiche per poter raggiungere una soluzione condivisa — dice in un'intervista al quotidiano Haaretz — perché non vogliamo trovarci un giorno a dover scegliere tra la bomba iraniana o bombardare l'Iran».
Da Ramallah, dove ha incontrato

i leader palestinesi, Kouchner attacca invece gli israeliani: «La colonizzazione in Cisgiordania costituisce l'ostacolo principale alla pace. Il governo Olmert deve fermarla immediatamente». Anche gli americani stanno aumentando le pressioni per far congelare le costruzioni negli insediamenti. Washington vuole bloccare quella che Israele chiama «crescita naturale », nuovi agglomerati in colonie già esistenti. Da quando è ministro della Difesa — rivela il quotidiano Jerusalem Post
— Ehud Barak non ha in realtà concesso permessi per altri edifici. Lo stop sarebbe arrivato anche per quelle cittadine in Cisgiordania che lo Stato ebraico punta a mantenere dopo un accordo di pace.
Tzipi Livni, ministro degli Esteri, ha ribadito la posizione del governo Olmert: i palestinesi devono riconoscere Israele come Stato ebraico. E ha suggerito: «Il futuro Stato palestinese fornirà una soluzione anche agli arabi israeliani nella loro lotta nazionalista ». Ghaleb Majadele, ministro della Cultura e arabo israeliano, l'ha accusata di propugnare il trasferimento di cittadini: «Le nostre radici erano ben piantate in questa terra prima che Israele nascesse

Di seguito, un articolo di Gadi Taub:

La triste ironia, nel processo di pace israelo-palestinese, è che non appena la maggioranza degli israeliani si è convinta che l'insediamento nei territori occupati avrebbe danneggiato la causa sionista, la società palestinese è stata scompigliata da estremisti che hanno ostruito la via alla soluzione dei due Stati.
Il piano di ritiro di Ariel Sharon è scaturito dalla considerazione che il sionismo non può conciliarsi con l'occupazione. Qualche giorno prima dell'uscita di scena di Sharon, dal quartier generale del nuovo partito cui quest'ultimo aveva dato vita, Kadima, venne diramato agli organi di stampa un breve comunicato che delineava la sua nuova piattaforma politica. Il sionismo, si leggeva in tale documento, mira all'instaurazione di uno Stato ebraico democratico. Esso è dunque vincolato a un territorio di cui gli ebrei costituiscano la maggioranza della popolazione. Se Israele non rinunciasse ad alcuno dei territori occupati, gli ebrei diverrebbero una minoranza all'interno dello Stato. Ergo, Israele deve adoperarsi per una spartizione dei territori, con o senza pace. Per questo Sharon ha ceduto Gaza. Per questo ha voluto l'edificazione di un muro in Cisgiordania, che, come tutti sapevano, ne presupponeva anche la cessione, prima o poi.
Sharon, l'ex paladino degli insediamenti, ha capito troppo tardi ciò che avrebbe dovuto essere chiaro sin dall'inizio: in realtà, la punta di lancia del movimento dei coloni, e il nucleo religioso che l'animava, non avevano nulla a che fare con il sionismo. La differenza era, ed è tuttora, cruciale: i coloni religiosi credevano che il sionismo si prefiggesse il riscatto della terra; per i tradizionali esponenti del sionismo politico — da Theodore Herzl, a David Ben-Gurion, e Yitzhak Rabin —, invece, esso mirava anzitutto alla liberazione del popolo ebraico. Liberare il popolo ebraico significava conferire ai cittadini la sovranità sulle loro stesse vite, attraverso una forma di governo democratica, che avrebbe anche espresso, con uno Stato nazionale, il retaggio della popolazione ebraica.
Quando gli israeliani hanno capito che il «sionismo» dei coloni avrebbe posto fine alle condizioni di base sui poggiava il sionismo vero e proprio — un posto al sole dove gli ebrei non siano una minoranza —, hanno smesso di considerare la spartizione come una forma di concessione ai palestinesi. Ecco come è stato concepito il ritiro unilaterale. Poco dopo, tuttavia, Hamas è salito al potere, e ha rifiutato la spartizione. In altre parole, quando il fondamentalismo religioso israeliano è stato domato, quello palestinese è asceso al potere. Hamas ha contraccambiato il ritiro lanciando razzi sulla regione centrale di Israele. Così, il piano israeliano di ritiro graduale è oggi in fase di stallo. Come è possibile abbandonare i territori se il risultato che se ne ricava è una pioggia di razzi Qassam?
Se la politica fosse un'impresa puramente razionale, Israele dovrebbe con tutta evidenza smantellare i suoi insediamenti, mantenendo soltanto l'esercito in Cisgiordania, finché non ottenga la garanzia che nessun razzo verrà più lanciato su Tel Aviv. Qui entrano però in gioco, ahimè, anche i sentimenti e le paure. Qualsiasi governo troverebbe difficoltà a sradicare dalle loro terre qualcosa come 200 mila cittadini, se la contropartita è apparentemente nulla: né la pace né la fine dell'occupazione. Apparentemente. Perché, guardando al lungo periodo, gli insediamenti rappresentano un enorme pericolo per il sionismo.

Alla corretta cronaca di Davide Frattini e all'opinione di Gadi Taub, il CORRIERE 
accosta una cartina  con una legenda del tutto scorretta.
Da essa si apprende che in Cisgiordania vivrebbero 450.000 coloni, 250.000 a Gerusalemme.
Gerusalemme è la capitale di Israele, dove non vivono coloni, ma cittadini israeliani ebrei, arabi, cristiani e di altri gruppi.
 
In Cisgiordania, negli insediamenti ebraici, vivono circa 250.000 cittadini israeliani.
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