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Libero - La Repubblica - La Stampa Rassegna Stampa
26.06.2007 La sinistra, la destra e Israele
recensioni del libro di Furio Colombo "La fine di Israele"

Testata:Libero - La Repubblica - La Stampa
Autore: Angelo Pezzana - Mario Pirani - Alberto Sinigaglia
Titolo: ««Furio sbagli: la sinistra rischia di essere la rovina per Israele» - La fine di Israele indifferente minaccia - Per Israele una sinistra prospettiva»
Da pagina 15 di LIBERO del 26 giugno 2007:

Mette tristezza leggere il titolo dell'ultimo di Furio Colombo, "La fine di Israele", anche se non è quanto l'autore auspica ma teme. Mette tristezza perché Colombo, pur avendo capito quali sono gli enormi pericoli che incombono sullo Stato ebraico, tanto da lasciarne temere la scomparsa, affonda la sua ricerca partendo da un assunto inaccettabile. Israele appartiene alla sinistra, ma ha nuovi amici che vengono dalla parte sbagliata della storia, e senza la sinistra Israele non si salva. Una tesi che non rende merito a chi, tanti anni fa, scrisse quel bel libro che fu "Per Israele", che però non fu letto a sinistra o, se letto, non diede i frutti sperati. Riconoscere, come fa Colombo, che la sinistra nel mondo, e in particolare in Italia, di fronte a Israele si ritira e si fa nemica, e poi cercarne le ragioni negli impresentabili, a suo dire, nuovi alleati di destra, è la solita posizione di chi si rifiuta di accettare le cose per come sono. Significa pure conoscere male la Storia del Paese che si vuole difendere, perché fu proprio David Ben Gurion, nei primi anni dello Stato, ad avere accettato, lui statista della sinistra laburista, gli aiuti economici provenienti dalla riparazioni belliche che Adenauer versò a Israele. Che accettò, essendo quegli aiuti indispensabili alla formazione del nuovo Stato. Fu la destra, in nome dell'ideologia antinazista, a scatenare una battaglia perché il denaro "tedesco" non venisse accettato. Per fortuna fu il pragmatico Ben Gurion a vincere. Se avesse seguito il ragionamento di Colombo, il quale sostiene che oggi con la destra non si deve avere alcun contatto perché "loro" sono i diretti discendenti di chi firmò le leggi razziali, forse le sorti dello Stato ebraico sarebbero state diverse. Non è indispensabile aver letto De Felice per sapere quale sia stata la storia dell'Italia fascista, come buona parte della classe dirigente post liberazione fosse in realtà una diretta prosecuzione di responsabilità delle stesse persone. Che sotto il fascismo alzavano il braccio con la mano tesa per sostituirlo, a liberazione avvenuta, con il pugno chiuso. Colombo cade poi nel patetico quando si lamenta che durante i festival dell'Unità la gente gli dice «Ti voglio bene per quello che hai fatto per l'Unità, ma non sono d'accordo neanche con una parola di quello che hai detto», riferendosi agli interventi su Israele. E Colombo ha il coraggio di stupirsi. Non ci ha mai riflettuto? Se si fosse stupito, e amareggiato, prima, forse avrebbe insegnato ai suoi lettori come è andata veramente la storia, invece di raccontarlo ora in un libro che avrà poca utilità per il fine che si prefigge. La sinistra che odia Israele non lo leggerà, chi ama Israele e ne difende le ragioni non per una «caparbia rivalsa», come scrive Colombo, ma perché non ha aspettato il giro di valzer del nostro per capire da che parte stare, non sa che farsene dei suoi lamenti.

Dalla REPUBBLICA del 25 giugno (pagina 20), un articolo di Mario Pirani:

La fine di Israele è cominciata? L´angoscioso interrogativo emerge in due pubblicazioni, apparse in questi giorni, molto diverse l´una dall´altra, un libro di Furio Colombo e il ricco numero 37 della rivista «Aspenia», diretta da Marta Dassù, ad un tempo consigliere diplomatica del nostro ministro degli Esteri e responsabile dei programmi internazionale della Fondazione Aspen Italia. «La fine di Israele» (Il Saggiatore) s´intitola, appunto, l´agile volume dell´ex direttore dell´«Unità». Si presenta come il diario intimo, cronistoria di preoccupazioni e sorpreso dolore di un intellettuale di sinistra che, di fronte agli eventi dell´ultimo anno, vede crescere le minacce esplicite di distruzione provenienti da Hamas, da Hezbollah e dall´Iran e, per contro, patisce l´isolamento di Israele e «la franchigia morale» di cui godono i suoi nemici. Se è durissima la critica a Bush per la dissennata guerra irachena, desolato appare il giudizio sulla sinistra europea e soprattutto italiana che «dai militanti ai più tiepidi ha abbracciato l´immagine e interiorizzato la persuasione di una guerra coloniale di ebrei organizzati e potenti (la lobby ebraica) contro palestinesi poveri e dispersi.
I palestinesi, anche quando saltano in aria imbottiti di tritolo in un autobus di scolari, sono i caduti di una guerra di liberazione. Israele anche quando fa la pace con Egitto e Giordania (con Beguin), è giunto quasi alla fine di tutti i conflitti (con Rabin) o sta per cedere una parte di Gerusalemme (con Barak), rimane comunque un invasore da battere. L´ostilità verso Israele oggi fa parte dell´identità di molta gente della sinistra, l´unico pezzo di fedeltà ad un passato mai rivisto o sottoposto a critiche o rigettato. A meno che la sinistra non abbia un sussulto, un risveglio, una rivelazione di ciò che dovrebbe essere: testimone e garante di sopravvivenza e convivenza, per Israele e la Palestina democratica. Questo, per ora, non accade. Mancano poche ore». Le asserzioni e gli interrogativi di Furio Colombo sembrano destinati a non avere risposta, anche perché la sua denuncia riguarda soprattutto le emotività di una parte notevole della base, più che gli equilibrismi dei gruppi dirigenti, fatti salvi coloro, come Veltroni e Fassino, hanno da tempo assunto una posizione equanime e giusta. Comunque Colombo non ha ragione di preoccuparsi così tanto: la sinistra in questa fase appare debole in Italia e in gran parte d´Europa. Le sue ostilità o preferenze contano poco e poco influiranno sul futuro di Israele. Le sue pulsioni anti ebraiche (che tali sono anche quando si camuffano da anti israeliane o anti sioniste, come ha giustamente ricordato Giorgio Napolitano) trovano nutrimento nel patchwork ideologico che anima i due filoni dell´anti americanismo e dell´anti globalizzazione. Non c´è più il mito sovietico - e neppure quello cinese - ma resta la visione manichea di un mondo diviso tra Bene e Male. Un impianto falso su cui ogni propensione estremistica si impianta e contro cui i riformisti si rivelano incapaci persino di una battaglia culturale. Pas d´ennemis à gauche rimane uno slogan più imperituro e malefico di «Proletari di tutto il mondo unitevi!». L´Iran di Ahmadinejad, se riuscirà a fornirsi dell´atomica, costituisce invece una minaccia possibile per la sopravvivenza di Israele. Nell´intervista introduttiva alla raccolta di interessantissimi saggi di «Aspenia», l´ambasciatore Gideon Meir lo conferma laddove afferma: «La principale minaccia esistenziale viene oggi dall´Iran. Non soltanto in modo diretto, ma con l´uso di Hezbollah e Hamas. L´Europa deve svegliarsi e rendersi conto della realtà, la minaccia iraniana incombe anche sui valori occidentali. Da questo punto di vista il conflitto arabo - israeliano non è il principale problema di sicurezza al mondo». Meno diplomatica l´intervista al grande storico israeliano, Benny Morris, che Colombo riporta: «Israele rischia l´olocausto militare. L´Iran dovrà affrontare il bando delle nazioni civili, ma questo avverrà dopo perché adesso non si notano segni di grande attenzione a ciò che apertamente si sta preparando. E´ vero che pagheranno anche i palestinesi in caso di attacco atomico su Israele ma essi sono sempre stati trattati dagli altri arabi come danno collaterale. Questa volta si dirà che è stato inevitabile ed eroico. E´ anche vero che di fronte a questa minaccia Israele è completamente solo. E se l´eliminazione preventiva del pericolo atomico iraniano - si chiede Benny Morris - finisse per apparirci l´unica possibilità di sopravvivere come paese? Ci odieranno ma ci odiano già adesso. Comunque sempre meglio che non esistere più».

Da La STAMPA del 24 (pagina 31) un articolo di Alberto Sinigaglia:

La fine di Israele è già cominciata. Furio Colombo la denuncia fin dal titolo del nuovo libro (il Saggiatore, pagg. 127, euro 10), scritto «con urgenza e ansia». Il pericolo «per la prima volta è imminente». Perché il presidente iraniano Ahmadinejad ha dichiarato che Israele va cancellato, affila missili, finanzia Hamas e Hezbollah. Perché l’Arabia Saudita aggiunge imprevista silente ma possente ostilità. Perché gli Stati Uniti se ne andranno dall’Iraq lasciando «un immenso disordine» e Gerusalemme esposta a mille focolai. L’unica democrazia del Vicino Oriente resterà sola dall’America che la sostiene e dall’Europa che si astiene. Sola dalla sinistra. Ecco il nervo che Furio Colombo scopre con il bisturi impietoso di questa analisi che farà discutere. La sinistra, anche quella italiana, anche a livelli di governo, «ha abbandonato Israele, consegnandolo di fatto alla destra e a un destino di guerra», sostiene l’ex direttore dell’Unità, senatore dell’Ulivo. Subisce, quando non asseconda, la propaganda «degli arabi, di una parte della cultura cattolica e del Vaticano», che ignora diritti e meriti israeliani, vede solo i torti del «ricco, potente, usurpatore di terre, esecutore di apartheid, assassino». Eppure «Israele appartiene al mondo e ai valori della sinistra. Senza il sostegno della sinistra del mondo Israele muore».
A quei valori, dei quali fu simbolo il piccolo Stato fondato da Ben Gurion, ritorna Giovanni Russo con Israele in bianco e nero (Avagliano, pagg. 208, euro 13). Ripropone un viaggio-inchiesta tra pionieri, scienziati, kibbutzim, tensioni ideali, rapporti con gli arabi di Palestina, che solo dopo la nascita d’Israele sarebbero stati chiamati Palestinesi, più usati che tollerati dai confinanti. Quarant’anni dopo, Russo mette a confronto quelle pagine con testimonianze di altri due grandi giornalisti: Arrigo Levi e Vittorio Dan Segre. Emergono le radici dei conflitti d’oggi, dei gravi errori d’Israele, anche d’ignoranza ed equivoci che intrecciano la crescente ostilità al Paese con il crescente antisemitismo. Ma anche le radici, assai profonde, delle possibilità - come auspicavano i padri fondatori - di «vincere la pace».

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