Verso il governo di unità nazionale palestinese ma le condizioni per il dialogo con Israele restano insoddisfatte: la cronaca di Davide Frattini e un editoriale di Massimo Teodori
Testata:Corriere della Sera - Il Giornale Autore: Davide Frattini - Massimo Teodori Titolo: «Fine del governo di Hamas: Haniyeh ci riprova con l'unità nazionale - Le condizioni per il dialogo»
Dal CORRIERE della SERA del 16 febbraio 2007:
GERUSALEMME — Ismail Haniyeh da una parte, Mohammed Dahlan dall'altra. Il cerimoniale scelto da Abu Mazen vuole mostrare ai palestinesi che la concordia è stata ritrovata. Gli ultimi ostacoli sono stati superati, il premier si è dimesso e ha subito ricevuto il nuovo mandato dal presidente: ha cinque settimane di tempo per formare il governo. Nel discorso, il raìs ha invitato Haniyeh a «rispettare» gli accordi firmati in passato con Israele e il primo ministro ha promesso di «lavorare in conformità» alla lettera d'incarico ricevuta. La formula punta a rassicurare gli europei e gli americani. I palestinesi sperano che la nascita dell'esecutivo misto Hamas-Fatah spinga la comunità internazionale a fermare l'embargo economico. Gli Stati Uniti hanno chiesto che il governo riconosca lo Stato ebraico e avrebbero minacciato di essere pronti a boicottare tutti i ministri, anche quelli indipendenti e del Fatah, se le condizioni non vengono rispettate. «Ci hanno informato — spiega una fonte palestinese — che verranno trattati come i ministri di Hamas». Da Washington, Sean McCormack, portavoce del Dipartimento di Stato, ha chiarito che nessuna decisione è stata ancora presa. Negli ultimi giorni, sembrava che l'accordo tra le fazioni palestinesi stesse saltando ancora una volta, dopo mesi di discussioni. Hamas vorrebbe che il nuovo governo convalidasse tutte le decisioni prese dal precedente. In gioco c'è il destino delle squadre di pronto intervento, costituite dal ministro degli Interni Siad Siyam, che hanno affrontato la guardia presidenziale negli scontri degli ultimi mesi (90 morti tra dicembre e febbraio). Fatah preferirebbe dissolvere i 6000 uomini all'interno delle forze di sicurezza. Un'altra condizione posta da Hamas è che Ziad Abu Amr, candidato al ministero degli Esteri, venga conteggiato tra gli indipendenti nella divisione delle poltrone, per poter ottenere un incarico in più. I fondamentalisti hanno anche opposto resistenza alla proposta di Abu Mazen, che vuole Dahlan come vice di Haniyeh. L'uomo forte del Fatah nella Striscia di Gaza è l'arcinemico di Hamas, che aveva cercato di tenerlo fuori dai negoziati di settimana scorsa alla Mecca, dove re Abdullah aveva invitato i due gruppi. L'intesa di ieri evita ai palestinesi di imbarazzare il sovrano saudita, che ha messo il sigillo sul documento stilato nel suo Palazzo degli Ospiti. Abu Mazen aveva fretta di risolvere gli ultimi disaccordi. Lunedì a Gerusalemme incontra Ehud Olmert, premier israeliano, e Condoleezza Rice, segretario di Stato americano. I palestinesi vorrebbero che al vertice venisse discusso almeno uno dei punti chiave delle trattative: la questione dei rifugiati, i confini del 1967, Gerusalemme. Olmert è convinto che affrontare da subito i temi più delicati rischi di far saltare il dialogo e vuole prima capire le conseguenze dell'accordo tra i palestinesi. «I segnali non sono molto incoraggianti», ha commentato ieri dalla Turchia. Il primo ministro chiederà al presidente che ottenga il rilascio di Gilad Shalit, il caporale rapito il 25 giugno al confine con la Striscia di Gaza. Il raìs della Mukata avrebbe voluto invece un gesto prima dell'incontro, come la liberazione di un centinaio di detenuti palestinesi.
Dal GIORNALE, l'editoriale di Massimo Teodori
Buone notizie sembrano giungere dalla Palestina. Dai colloqui della Mecca e dalla mediazione del Re saudita Abdullah è scaturito un accordo tra le due fazioni palestinesi - Al Fatah e Hamas - per formare un governo di unità nazionale. Il presidente palestinese Abu Mazen (Fatah) ha conferito al premier dimissionario Ismail Haniyeh (Hamas) l'incarico di formare un nuovo governo nel quale dovrebbero collaborare le due fazioni che negli ultimi anni si sono contrapposte non solo politicamente ma spesso passando anche alle vie di fatto. Tre a me sembrano gli elementi apparsi sulla scena palestinese negli ultimi anni. Il primo è la volontà della componente storica laica, al Fatah, di superare la vecchia ambiguità di Arafat di giocare al tempo stesso politica e terrorismo, per imboccare invece la stabilizzazione nazionale all'insegna del realistico accordo con Israele. La seconda è la penetrazione nell'area del fondamentalismo islamico attraverso Hamas, forte di una positiva azione sociale contrapposta alla corruzione dei politicanti arafattiani. E, terzo, è la constatazione che lo scenario in cui le due fazioni si affrontano apertamente mette in evidenza che le difficoltà palestinesi di passare dall'Autorità nazionale ad uno Stato vero e proprio non derivano soltanto dal rapporto con Israele, ma anche dai conflitti interni alla popolazione palestinese, soprattutto nei campi profughi. Se questo è il contesto, si può interpretare l'annuncio dell'accordo per il governo di unità nazionale come un approdo definitivo verso la chiusura della questione israelo-palestinese? È difficile emettere giudizi definitivi per quel lembo di terra. Da sessant'anni, ogni volta che si fa un passo avanti, nella situazione palestinese o in quella israeliana, oppure tra le due parti, si spera sempre che stia per spuntare un'aurora di pace, ma poi così non è e si ricomincia sempre da capo. Ora, se la faida interna palestinese dovesse davvero essere avviata a composizione, la questione che si pone è quella indicata dalla comunità internazionale attraverso quattro dei suoi più autorevoli rappresentati: Usa, Russia, Onu ed Unione Europea. Le tre condizioni poste dalla comunità internazionale su cui il nuovo governo, come qualsiasi altra Autorità palestinese, deve pronunziarsi esplicitamente, senza ambigue interpretazioni o riserve mentali, sono chiarissime: il riconoscimento di Israele, la rinunzia alla violenza, e l'accettazione degli accordi sottoscritti in passato da palestinesi ed israeliani. Non si può ignorare che Hamas è fortemente condizionata dal suo retroterra che comprende l'intero fondamentalismo islamista, dall'Iran ai terroristi che operano negli Stati musulmani, dalla guerriglia irakena fino agli Hezbollah in Libano. La domanda, quindi, più importante riguarda la capacità del movimento fondamentalista religioso-sociale, che ha piantato radici solo recentemente tra i palestinesi, di sapere anteporre gli interessi del popolo palestinese allo scontro ideologico in atto in tutto l'universo islamico da parte degli sciiti fondamentalisti. Noi occidentali, europei ed americani, dobbiamo fare di tutto perché il focolaio mediorientale sia progressivamente domato. Per questo non può che essere apprezzato lo sforzo degli Stati Uniti di sostenere la ragionevolezza e la volontà di pace di Abu Mazen e i suoi tentativi di unità nazionale. Va bene, dunque, il dialogo anche con Hamas, gruppo che non ha mai rifiutato il terrorismo, a condizione però che non si arretri neppure di un passo sui quattro punti posti dai grandi del mondo. Nell'interesse della pace dei palestinesi e della difesa irrinunciabile dello Stato di Israele. m.teodori@mclink.it