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Rassegna Stampa
13.11.2006 Furio Colombo si accorge del livore antisraeliano di Massimo D'Alema
ma per criticarlo deve prima lodarlo, con sprezzo del ridicolo

Testata:
Autore: Furio Colombo
Titolo: «La solitudine di Israele»

L'UNITA' del 13 ottobre 2006 pubblica un articolo di Furio Colombo sull'intervista, duramente antisraeliana (vedi il testo a questo link) rilasciata al giornale da Massimo D'Alema il 10 ottobre.
Le osservazioni critiche di Furio Colombo sono pertinenti e gravi, ma soprendentemente il giudizio complessivo sull'intervista è positivo: secondo Colombo D'Alema
  "elenca e spiega i problemi di Israele molto più a fondo di quanto sia accaduto finora nella stampa italiana e internazionale, nei convegni di specialisti o nelle dichiarazioni dei governi coinvolti."  
E' una prosa che ricorda le biografie ufficiali dei leader comunisti dell'Europa orientale o dell'Unione sovietica.
D'Alema "Danubio del pensiero" (era un appellativo di Ceausescu), che mirabilmente riesce a dire, in poche ore di colloquio, quello che giornalisti , editorialisti e specialisti non sono riusciti a dire in centinaia  o migliaia di pagine di giornali e di ore di convegni.
Supponiamo che questa ridicola captatio benevolentiae
sia stata il prezzo che Colombo ha ritenuto di dover pagare per la pubblicazione del suo articolo.
Prezzo pagato invano, perché il giornale ha provveduto a neutralizzare il suo dissenso affiancandolo a un'intervista alla politica israeliana di sinistra Shulamit Aloni, la quale,  impegnata in una polemica politica interna a Israele,  e plausibilmente assai lontana dal comprendere le dinamiche della politica italiana, si dice d'accordo con D'Alema e stabilisce che è lui il vero amico di Israele.
Ecco liquidato Colombo, a dispetto di tutti gli elogi sperticati con i quali si è premurato di incensare il leader maximo, sperando che le sue critiche trovassero un ascolto più benevolo.
Colombo crede di aiutare Israele ricordando la situazione nella quale si trova e l'aggressione alla quale deve far fronte. In realtà, e lo dice un'israeliana, la danneggia.
Si tratta di un trucco dialettico abusato e  inconsistente. In Israele, come in ogni paese democratico, si confrontano diverse opinionioni politiche. Per una Shulamit Aloni disposta ad attribuire al  governo Olmert la responsabilità della

crisi a Gaza, si troverebbero facilmente 10 israeliani, anche di sinistra, che si rendono conto che l'aggressione terroristica palestinese è indipendente dalle politiche del loro paese.
Tra questi, per fare un  nome, il ministro della Difesa laburista Amir Peretz, che prima di assumere responsabilità di governo rivestiva per molti giornali italiani un ruolo simile a quello che oggi viene attribuito a Shulamit Aloni  , Yossi Beilin e altri (che essi ne siano  o meno consapevoli): quello di testimoni israeliani a carico di Israele.
Ecco il testo:

Una intervista a l’Unità del ministro degli Esteri italiano elenca e spiega i problemi di Israele molto più a fondo di quanto sia accaduto finora nella stampa italiana e internazionale, nei convegni di specialisti o nelle dichiarazioni dei governi coinvolti. E dunque merita grande attenzione. Ma quella attenzione rivela anche un dislivello difficile da spiegare fra la responsabilità del ministro degli Esteri italiano, che è ormai personaggio chiave della diplomazia europea, e alcune cose dette e destinate a provocare contestazione e polemica.
Si tratta infatti di una rappresentazione limpida ma rovesciata, persino quando la descrizione dei fatti è aderente alla realtà. L’intervista dunque è una efficace rappresentazione del più grande tra tutti i problemi di Israele, il suo vero male oscuro, la solitudine, una sorte che non tocca mai a un Paese con cui si condividono valori giuridici, morali, legami di cultura e di storia. Soprattutto il patrimonio comune della liberazione dal fascismo e dal nazismo.
Israele è visto dal capo della diplomazia di Roma con una serie di giudizi severi e senza appello o ragioni o circostanze attenuanti.
Il nostro ministro degli Esteri nota gli errori e la gravità della situazione, vede e ripete la responsabilità di questo e di altri governi israeliani. Ma non gli interessa di cogliere traccia del contesto, del prima e del dopo, di accordi di pace continuamente tentati, quasi raggiunti, dei ripetuti sforzi di presidenti americani, da Jimmy Carter a Bill Clinton, dell’impegno di alcuni primi ministri israeliani (anche di destra, come Begin) che sono riusciti con ostinazione e pazienza a fare la pace con Egitto e Giordania, di eventi come Oslo, Madrid, Camp David, Ginevra; al ruolo di pace non solo di David Grossman (che D’Alema cita ed elogia) ma di tutta la cultura israeliana; della vita e della morte di uomini come Rabin, del modo in cui è scoppiata la seconda Intifada, dopo che il primo ministro israeliano di allora, Barak, aveva offerto sul piatto dei negoziati anche una parte della città di Gerusalemme.
E infine l’inizio di una politica di ritiro e di parziale smobilitazione iniziata da Sharon nella striscia di Gaza, un evento importante perché era un inizio di sgombero, interrotto dalla drammatica uscita di scena del suo protagonista. Ha senso descrivere e ammonire un Paese la cui immagine è così impoverita e dimezzata? E quale utilità politica e diplomatica potrà avere?
A confronto con Israele, a cui bisogna imporre il cessate il fuoco sotto la sorveglianza di una autorità internazionale, Hamas e il suo impegno a non riconoscere, anzi a distruggere Israele, non appaiono un impedimento alla pace. A confronto con Israele figura bene anche il governo libanese di Fuad Siniora, che include due ministri di Hezbollah nel suo gabinetto. Il mondo sa che con la condiscendenza e la collaborazione del governo Siniora è avvenuto il poderoso riarmo dell’esercito di Dio (che ha una profonda e non recente radice nel lacerato tessuto libanese). Ma il governo del Libano, percorso da influenze e condizionamenti siriani e iraniani, dunque da potenti forze di dichiarata ostilità a Israele, «deve essere sostenuto», benché si sia dimostrato il più pericoloso arsenale di armi a lunga gittata contro Israele.
Stiamo parlando di bombe e bombardamenti, di missili e di raid aerei, di morte soprattutto di civili, donne e bambini. Ma la diplomazia italiana, apprendiamo purtroppo da questa intervista, vede il problema da un lato solo. In essa tutte le possibili colpe israeliane sono elencate, insieme a previsioni negative per il futuro. Mancano le minacce a quel Paese, lo stato d'assedio, l’analisi dei potenti nemici, nutriti e sostenuti dal potere del petrolio.
Ma vediamo i fatti. La prima affermazione è questa: «Fin qui l’amministrazione Bush ha ritenuto che sulla questione israelo-palestinese non si poteva mettere le mani perché, in sostanza, non si poteva disturbare Israele». In questa frase, che appare una opinione soggettiva piuttosto che la dichiarazione di un ministro degli Esteri, ci sono tre omissioni gravi. La prima è che il governo di Bush, una volta compiuto l’errore della guerra in Iraq, non era più in grado di apparire un credibile mediatore di pace come lo erano stati Carter e Clinton.
Sia Israele che i Palestinesi hanno sofferto dello stato di sospensione e di caos creato da quella guerra. Ma in quella guerra Israele non ha avuto alcun ruolo né mostrato alcuna militanza.
La seconda omissione è passare sopra lo sconvolgimento interno avvenuto in campo palestinese: la vittoria di Hamas, fronte militante coinvolto nel terrorismo e fondato sulla negazione di Israele, una vittoria che ha avuto le sue tremende ragioni (la corruzione quasi totale del gruppo di Arafat) ma anche conseguenze gravissime che per forza hanno condizionato - anche attraverso la paura dei cittadini - il comportamento del governo israeliano.
La terza omissione è avere ignorato la dichiarazione ripetuta di un potente capo di Stato, il presidente dell’Iran Ahmadinejad. Ovvero l’impegno esplicito (e pesantissimo, perché dichiarato a quel livello, e mentre l’Iran intrattiene ottimi rapporti con il governo italiano) di «cancellare Israele».
Incontriamo poi un’altra affermazione del ministro degli Esteri che stupisce per il fatto di essere stata pensata e per il fatto di essere stata detta, nell’intervista di Umberto De Giovannangeli.
Eccola. «Il fatto che questa coraggiosa asserzione (David Grossman esorta Israele a non affidarsi in modo esclusivo alla potenza militare come difesa, ndr) non trovi una eco nel mondo democratico ebraico non può che porre inquietanti interrogativi». Il concetto viene ripetuto e precisato una seconda volta: «La cosa che più mi colpisce è che settori più ragionevoli della politica israeliana non hanno un adeguato sostegno internazionale da parte del mondo ebraico più democratico».
La visione è chiara. Tutto ciò che sta accadendo in questo momento di violenza e di sangue nel Medio Oriente ha un solo responsabile che è “tutto dentro Israele”. Ma c’è anche un secondo responsabile, gli ebrei del mondo, che stanno zitti e non si dissociano dal governo e dalla politica di Israele.
Il pensiero di D’Alema è destinato a imbarazzare l’opinione dei cittadini italiani ebrei nel nostro Paese. Ad essi viene data una speciale responsabilità: tocca a loro condannare la politica di Israele e non lo fanno. Testualmente: «Bisogna agire spingendo Israele. La cosa che mi colpisce di più è l’isolamento delle voci ragionevoli anche rispetto alle grandi comunità ebraiche democratiche. La comunità ebraica americana comincia a dividersi su questo punto, ma ciò non sembra avvenire nel nostro Paese. Ciò pone preoccupanti interrogativi».
È vero. Il più preoccupante di questi interrogativi è: come può il nostro ministro degli Esteri indicare una linea di condotta “giusta” (e dunque condannare in modo più o meno esplicito una linea “sbagliata”) ai cittadini italiani ebrei nei confronti di Israele? Perché questi cittadini dovrebbero avere un dovere in più agli occhi del ministro degli Esteri rispetto a coloro che se ne vanno in giro con la bandiera palestinese e - indipendentemente dalla buona fede e dai legittimi sentimenti di solidarietà - non chiedono mai a nessuno di riconoscere l’esistenza di Israele, non protestano contro l’affermazione che dichiara Israele «Stato da cancellare»?
Ma anche: abbiamo mai chiesto ai cattolici militanti italiani di premere sulla Chiesa affinché cambi una linea di comandi e istruzioni ai credenti in campo politico?
Ma un altro interrogativo preoccupante sarà provocato da questa altra frase: «C’è chi di fronte alla tragedia di Beit Hanun ha parlato di errore. Quello che è accaduto a Beit Hanun è frutto di una politica e lo sbocco di una scelta». Come dire, per gli Israeliani niente scuse. Colpevoli e basta.
Non c’è traccia in queste parole del dramma di un Paese che vive in stato d’assedio, minacciato come noi dal terrorismo internazionale senza volto, ma, in più, circondato da potenti nemici bene organizzati e molto ricchi di armi e di petrolio che ne chiedono la distruzione, mentre l’America è assente causa guerra sbagliata in Iraq.
Infine il grande interrogativo: Israele è un Paese amico o nemico? Se è amico, perché non dovrebbe meritare un linguaggio diverso (si dice “diplomatico”), rispettoso almeno come quello che viene dedicato a Tony Blair e al suo partito laburista che pure hanno offerto sostegno e una infinità di distruzione e di morte, inclusi civili e bambini, alla guerra di Bush in Iraq?
Ma noi trattiamo Blair da statista, e anzi da collega della grande sinistra europea. E i laburisti israeliani come opponenti senza efficacia e, per giunta, non sostenuti dagli ebrei italiani. Come se gli ebrei italiani avessero dei doveri in più, o dei doveri diversi, rispetto agli altri cittadini di questo Paese.
Dopo questa intervista ci saranno risposte aspre e il clima si farà difficile. Ci sarà gelo con Israele, che invece ha bisogno di tutto il sostegno da parte di chi vuole la sua sopravvivenza, persino (e anzi di più) se intende muovere critiche alla sua politica. Ci saranno reazioni vere e polemiche d’occasione. Ma il tema è, e deve rimanere, preservare Israele, arrivare senza terrorismo allo Stato palestinese, convivere in pace.
furiocolombo@unita.it

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