Se gli sciiti scelgono la teocrazia e l'egemonia iraniana
Testata: Il Foglio Data: 14 settembre 2006 Pagina: 2 Autore: Tatiana Boutorline Titolo: «Così dopo Khomeini la mullahcrazia sciita s’è data alla politica»
Dal FOGLIO del 14 settembre 2006:
Tra i tanti guasti ascritti all’Amministrazione Bush nel medio oriente post Saddam il fattore sciita è annoverato come un’incognita dirompente. Se è vero che il partito di Ali non è un monolite, che ha contemplato la spinta illuminata verso “al aql” (la ragione) ma anche l’involuzione nell’“al naql” (il dogma), il quietismo del grande ayatollah Ali al Sistani e la rivoluzione teocratica dell’altro ayatollah, Ruhollah Khomeini; se è vero che nella galassia sciita convivono realtà distinte come Teheran, Najaf, Herat e Baku, è vero anche che, al netto dei distinguo, l’Iran rappresenta nell’immaginario collettivo il centro pulsante del polo sciita, il luogo del grande ritorno. E visto che a questo potere simbolico fa da corollario un’ambizione di leadership che si esprime in tutta la virulenza degli “ismi” dal fanatismo al negazionismo, attraverso le sfumature del revanscismo e l’attrattiva del populismo, il potere di Teheran sulla constituency sciita è stato spesso rappresentato dalla stampa internazionale come una nemesi crudele dell’avventura americana in Iraq. Critiche e paure ancora più forti nelle capitali sunnite alleate di Washington. “Abbiamo combattuto insieme per evitare che l’Iran occupasse l’Iraq dopo che quest’ultimo era stato cacciato dal Kuwait. Ora stiamo consegnando l’intero paese all’Iran senza alcuna ragione”, ha detto il ministro degli Esteri saudita, Saud al Faisal. Sospettosi delle proprie minoranze, “gli sciiti sono quasi sempre fedeli all’Iran e non agli stati in cui vivono”, come ha dichiarato, criticatissimo per la forma ma non per la sostanza, il presidente egiziano, Hosni Mubarak, l’8 aprile 2006, gli alleati sunniti sono incerti sulla direzione che imboccherà la politica americana e occidentale.“Non ci sentiamo sicuri, ci piacerebbe vedere un fronte unito contro l’Iran”, ha ammesso l’ambasciatore del Bahrein a Washington, Naser al Belushi. I dubbi dei rais sunniti sono avallati dal partito trasversale del dialogo. Partendo dalla constatazione che la demolizione del bastione baathista unita al crollo dei talebani ha significato la morte del containment e l’ascesa inevitabile dell’Iran, per i realisti alla Kissinger l’unico strumento atto a fermare Teheran è il riconoscimento del suo oggettivo peso regionale. Legata all’occidente in un patto per il codominio del medio oriente, Teheran deporrà gli eccessi retorici del suo armamentario ideologico per diventare un interlocutore come un altro. E’ la tesi sostenuta da Vali Nasr, professore alla Naval Postgraduate School di Monterey in un saggio pubblicato nel numero di luglio/agosto di Foreign Affairs. Da queste stesse premesse si muove un altro interessante saggio di Mehdi Khalaji, visiting fellow del Washington Institute per la strategia in medio oriente. Forte di una formazione teologica acquisita in anni di studi nei seminari della città santa di Qom, Khalaji analizza la natura della leadership sciita e le trasformazioni che la vittoria della rivoluzione in Iran e la repressione di Saddam hanno generato nella gerarchia sciita. Anche lui crede che ci sia stata una sottovalutazione del fattore sciita in Iraq, e alla domanda per chi batterà il cuore del partito di Ali, Khalaji risponde Teheran. Puntare sul Sistani è stata una scelta azzardata perché durante il lungo sonno imposto a Najaf – anima antica del mondo sciita – la teocrazia iraniana ha assoggettato Qom. Qom che poteva mettere in dubbio, rivaleggiare, contestare le autorità della Repubblica islamica è stata messa a tacere. La mullahcrazia ha neutralizzato i mullah. Il dissenso e stato vietato, l’establishment clericale vampirizzato, inglobato negli organigrammi del sistema. Il pluralismo sciita è agonizzante con le sue guide relegate al ruolo di compiacenti stipendiati. Un umile hojatoleslam come Khamenei, che non aveva i crismi di un ayatollah, siede sul gradino più alto del sistema e detta le regole. Nei seminari il dissenso è punito e l’obbedienza al regime e alla sua visione del mondo premiato con entrate da favola e pensioni faraoniche. Le istituzioni religiose non sono che il braccio di un governo totalitario che estende la sua longa manu fuori dai confini iraniani per sedurre coscienze e portafogli con scuole e ospedali attraverso la rete secolare del partito di Ali. Lo scisma khomeinista ha aggredito come un virus le strutture tradizionali dello sciismo e il risultato è una desacralizzazione delegittimante della religione in favore della politica. Di questa metamorfosi che eleva lo scisma a ortodossia i marja’ (i massimi religiosi della gerarchia sciita) sono le più autentiche vittime sacrificali, al punto che il riverito Sistani potrebbe essere l’ultimo custode della tradizione quietista. E il sogno di quell’islam che vuole la democrazia sarà soffocato dal rinnovato afflato rivoluzionario iraniano. Najaf non ce la farà perché Qom è più ricca e per capire dove andrà il partito di Ali basta seguire i flussi finanziari delle fondazioni dell’ayatollah Khamenei. Nel medio oriente privato di marja’, i sapienti come Sistani si ritireranno sull’Aventino e la Repubblica islamica si imporrà come l’unico punto di riferimento politico religioso ed ideologico. In Iran, invece, lo iato tra il regime e il paese sfocerà in una ulteriore perdita di senso dei ruoli tradizionali. C’era un tempo, prima che arrivasse l’eco timida dell’illuminismo, in cui i religiosi sciiti detenevano il monopolio della conoscenza. Erano i clerici sciiti l’ossatura dell’intellighenzia ed erano stretti al paese in una relazione viscerale. Come racconta il filosofo Daryush Shayegan nel suo “Le regard mutilé”, l’ascendente dei mullah sulle masse era proverbiale: sapevano evocare il sacro e il profano, sapevano far ridere, commuovere, mobilitarli, “sfruttare la magia ed il mito al livello dell’incosciente collettivo”. Si intendevano allora perché erano culturalmente premoderni. Ma nell’Iran postrivoluzionario la gerarchia ha svenduto la propria anima. Il clero non rappresenta più “il vero islam” e la terra della rivoluzione del ’79 è da un lato sempre più laica e dall’altro attratta da forme di religiosità fluide. Cresce attraverso il seguito degli intellettuali riformisti come Abdol Karim Sorush ma anche il fascino dei maddahs predicatori e capopopolo che, come Ahmadinejad, amano il messianesimo e il folklore. L’ultimo esponente di questa nuova genia che sfida le regole millenarie della gerarchia sciita è Mahmud al Hasani, nuovo ambizioso contendente per la leadership degli sciiti iracheni. Privo dei riconoscimento dei pari – essenziale biglietto da visita per qualsiasi aspirante alla guida del partito di Ali – Hasani, poco più che quarantenne, ha dichiarato di essere addirittura un marija’. In questa sua avanzata ha più volte sfidato l’autorità di Sistani, che appare più defilato, renitente a essere trascinato in sterili beghe con Hasani e l’altrettanto ambizioso Moqtada al Sadr. Lo stesso al Sadr fu amico di Hasani prima che la reciproca voglia di imporsi sull’altro non li rendesse nemici. D’accordo nell’opposizione alla presenza americana, le loro strade si sono presto separate. Di questi tempi Hasani è nemico di tutti. Odia gli americani, detesta Sistani, si oppone con tutte le sue forze alla penetrazione iraniana. Dice di essere il capo di una forza che conta 30 mila uomini, uomini che hanno colpito le truppe polacche e spagnole (nel 2004 a Diwaniyah). I suoi seguaci hanno attaccato il consolato iraniano a Baghdad e sostituito la bandiera iraniana con quella irachena. Hasani vorrebbe una teocrazia, ma è sospettoso di tutto ciò che riconduce a Teheran, incluso lo Sciri. Secondo gli analisti avrà vita breve, ma la sua ridicola pretesa di diventare marja’ è il sintomo della confusione e delle spinte contrapposte che stanno travolgendo il partito di Ali. Un’incertezza in cui Teheran sguazza, certa di rappresentare nel caos un simbolo di continuità. Come suggerisce il saggio di Khalaji si tratta di uno scenario che riconsegnerebbe la tensione all’“aql” alla dittatura del “naql”, uno scenario che l’occidente dovrebbe in ogni modo cercare di evitare.
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