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Corriere della Sera - Il Foglio - Il Giornale Rassegna Stampa
28.06.2006 Hamas non ha riconosciuto Israele
lo spiegano tre articoli corretti

Testata:Corriere della Sera - Il Foglio - Il Giornale
Autore: Davide Frattini - la redazione - Gian Micalessin
Titolo: «Hamas si accorda con Abu Mazen ma senza riconoscere Israele - Tra Hamas e Fatah accordo a tempo scaduto»

Sul CORRIERE della SERA del 28 giugno 2006, la cronaca di Davide Frattini  riporta le chiare dichiarazioni degli esponenti di Hamas che smentiscono l'autoinganno dell'Europa: Hamas non ha per nulla riconosciuto Israele.
Ecco il testo:


GERUSALEMME — C'è un solo modo per Abu Mazen di lasciare Gaza: portare il caporale Gilad Shalit oltre il confine, nella sua Mercedes blindata. Gli israeliani hanno chiuso la morsa attorno alla Striscia, nessun palestinese entra o esce, neppure il presidente, fino a quando il carrista non verrà liberato dai sequestratori. L'offensiva è cominciata nella notte: prima i raid aerei hanno distrutto tre ponti e l'unica centrale elettrica. Poi i carri armati hanno superato la frontiera entrando nella zona sud della Striscia, allontanando le forze di sicurezza palestinesi e prendendo posizione intorno a Rafah, in quella che viene considerata la prima offensiva di terra dopo il ritiro dell'anno scorso.
L'assedio e la convivenza forzata hanno spinto il raìs e il premier Ismail Hanieyh a trovare l'accordo che cercavano da settimane. Le fazioni hanno approvato il «documento dei prigionieri», ideato in carcere da Marwan Barghouti. Il testo è stato ritoccato per raggiungere l'intesa, i gruppi dissentono su come interpretare la versione finale.
Secondo Rawhi Fattuh del Fatah «c'è armonia su tutte le parole». Samir Abu Zuhri, portavoce di Hamas, ha detto invece che «nessuna delle parti ha sacrificato i suoi principi ideologici», tanto per chiarire che il movimento non ha cambiato le sue posizioni nei confronti di Israele. Più espliciti il parlamentare Salah Bardawil («abbiamo accettato la nascita di uno Stato nei confini del 1967, non abbiamo dichiarato che accettiamo due Stati») e il ministro dei Trasporti Abdul Rahman Zidan: «Si tratta di un accordo tra palestinesi. Non c'è nessun passaggio in cui si afferma chiaramente il riconoscimento di Israele». Nayef Rajoub, ministro per gli Affari religiosi, riassume con franchezza la ritrovata «unità nazionale»: «Il Fatah può interpretare il testo come preferisce, Hamas può fare lo stesso».
L'Unione Europea ha comunque applaudito l'accordo: «E' il punto di partenza in un processo che spinga le fazioni a cessare la violenza, a riconoscere lo Stato ebraico e ad accettare gli accordi firmati in passato», ha commentato Benita Ferrero-Waldner, commissario alle Relazioni esterne.
Per tutta la giornata di ieri l'esercito israeliano aveva continuato ad ammassare tank e blindati ai confini con Gaza. Nella notte, l'attacco aereo sui ponti ha tagliato a metà le strade principali della Striscia, mentre i carri armati hanno cominciato a muoversi preparandosi a una prima incursione. «Siamo pronti a un'offensiva di lunga durata — ha detto in parlamento il premier Ehud Olmert —. Ribadisco che faremo di tutto per portare avanti i negoziati con i palestinesi». E' quello che gli ha chiesto Condoleezza Rice, segretario di Stato Usa: «Bisogna dare alla diplomazia un'opportunità per arrivare alla liberazione del militare».
Il governo ha escluso qualunque trattativa per il rilascio. Benjamin Ben-Eliezer, ministro delle Infrastrutture, laburista, ha minacciato di rispondere ai rapimenti con i rapimenti. «Non abbiamo problemi a entrare a Gaza e a portar via mezzo esecutivo». Anche Abu Mazen ha avvertito il premier Ismail Haniyeh («potrebbero colpirti»), ma il vero obiettivo degli israeliani sarebbe Khaled Meshal, leader di Hamas all'estero. Al di là delle minacce, l'intelligence di Gerusalemme starebbe negoziando per ottenere informazioni sul militare.

Sul FOGLIO, una corretta analisi pubblicata in prima pagina chiarisce che l'accordo tra Hamas e Al Fatah non comporta alcun riconoscimento di Israele:

Roma. Hamas e il presidente palestinese, Abu Mazen, hanno annunciato di aver raggiunto un accordo sul documento dei prigionieri palestinesi che, molto vagamente e molto implicitamente, riconosce l’esistenza d’Israele (il Jihad islamico non ne ha accettato alcuni punti). Lo hanno reso noto ai giornalisti in una conferenza stampa esponenti di Fatah e Hamas, ma alcuni negoziatori del governo dell’Anp hanno subito specificato ieri sera alla Bbc che l’intesa non significa il riconoscimento di Israele. La strategia assomiglia molto a quella di Yasser Arafat: attacchi seguiti da aperture al negoziato seguite ancora da attacchi.
Israele ha finito ieri di raccogliere l’esercito alle porte della Striscia di Gaza. Il primo ministro, Ehud Olmert, vuole la liberazione di Ghilad Shalit, soldato ventenne tenuto prigioniero da domenica, quando è stato rapito in un attacco al valico di Kerem Shalom, sul confine tra Israele e la Striscia, nel quale sono rimasti uccisi due suoi commilitoni. A rivendicare l’atto sono stati tre gruppi, tra cui la Brigate Ezzedine al Qassam, braccio armato di Hamas, che ora firma l’accordo con Abu Mazen ma specifica che non riconosce Israele. L’obiettivo è chiaro: il governo palestinese vuole evitare il referendum – indetto per il 26 luglio dal rais – che avrebbe portato all’esplosione definitiva dello scontro interno; cerca il sostegno della comunità internazionale proprio mentre Israele si prepara ad agire a Gaza per salvare il suo soldato. Così Hamas ricompatta il fronte palestinese – fino a poche ore fa frazionato – contro la minaccia esterna. Ci si aspetta che il rais Abu Mazen ora pretenda come primo segno dell’accettazione dell’accordo il rilascio del soldato, mentre l’esercito di Tsahal esprime preoccupazione per le sorti di un “settler” sparito da domenica. Un gruppo plaestinese avrebbe rivendicato il sequestro, ma mancano prove d’intelligence certe. Ieri sera, un cadavere non identificato è stato ritrovato a Ramallah e alcuni dei miliziani responsabili del rapimento di Shalit hanno annunciato la creazione di un’unità speciale per organizzare sequestri in Cisgiordania. L’attacco di domenica, realizzato perfettamente dal punto di vista strategico-militare, non è stato organizzato in poche ore: è stato scavato un tunnel, ci sono volute settimane e soldi. Le fazioni palestinesi hanno dunque ritrovato una rinnovata solidarietà interna, quella che Hamas va cercando da giorni nel susseguirsi frenetico di razzi, raid, rivendicazioni e smentite, mentre ieri sera è rimasto ucciso un leader del gruppo islamico nell’esplosione della sua auto.

Come Hezbollah, la regia è siriana
Gli attacchi del fine settimana sono tesi anche a dirottare il piano di ritiro dalla Cisgiordania di Olmert. Il primo ministro israeliano si trova ora a dover gestire una delicata operazione per il recupero di un ostaggio, l’esercito schierato alle porte di Gaza, l’attesa evacuazione di alcuni insediamenti abusivi in Cisgiordania, la mezza rivolta delle città del Negev, obiettivo dei razzi Qassam, e il peso di un’opinione pubblica in attesa, pronta a criticare un governo che ha un progetto difficile in cantiere: ritirarsi da parte della Cisigordania. Ieri il premier ha però ribadito che il disimpegno si farà, nonostante tutto, nonostante gli attuali avvenimenti, a Gaza e fuori Gaza.
Gli Stati Uniti hanno chiesto a Israele di mantenere la calma e tentare ancora la via diplomatica. Parigi, considerato il fatto che il soldato in ostaggio ha anche nazionalità francese, cerca la mediazione. Così come l’Egitto, che schiera 2.500 uomini delle forze di sicurezza lungo il confine con Gaza, mentre i palestinesi costruiscono a nord barricate. “Se Hamas torna alla lotta armata – ha detto al Foglio Eli Karmon, esperto di antiterrorismo al Centro di Herzliya – Israele sarà costretta a rioccupare la Striscia”, altrimenti l’azione per liberare il soldato potrebbe essere limitata nello spazio e nel tempo. Secondo Karmon, Hamas tenta di adottare le stesse tattiche di Hezbollah. La regia è siriana: i mandanti sono i vertici del gruppo a Damasco, nello specifico Khaled Meshaal, che “ha bisogno del terrorismo all’interno d’Israele – spiega al Foglio Daniel Doneson, esperto di teoria politica e relazioni internazionali – per eliminare l’accordo tra Abu Mazen e Haniye sul documento dei prigionieri, per fare cioè pressioni sul premier palestinese e farlo tornare nel gioco terroristico. Meshaal vuole una nuova Intifada”. C’è chi teme che Hamas ne abbia bisogno per evitare la guerra civile palestinese, spostando l’attenzione sul fronte esterno israeliano, e per sopravvivere politicamente.

Sul GIORNALE Gian Micalessin ricollega, molto plausibilmente, la mossa di Hamas alla pressione militare israeliana dopo il rapimento di Gilad Shalit:

Ad esser buoni è una conversione in punto di morte. Ad esser cattivi una mossa furbetta per salvare il salvabile e mettersi al riparo dall'imminente rappresaglia israeliana. Sia quel che sia l'accordo tanto a lungo implorato, negoziato, rimandato adesso c'è. Stringendo i denti, turandosi il naso e guardando dall'altra parte il premier di Hamas Ismail Haniyeh s'è bevuto anche il progetto politico stilato dai detenuti palestinesi per l'implicito riconoscimento d'Israele. «Gli ostacoli sono stati superati, abbiamo raggiunto un accordo su tutti i punti del documento dei prigionieri», ha dichiarato ieri Rawhi Fattuh, un consigliere del presidente Abu Mazen reduce dall'incontro di ieri pomeriggio a Gaza tra una delegazione di Fatah e una delegazione fondamentalista. Cosa abbia permesso l'intesa per evitare il referendum sul “piano dei prigionieri” già fissato per il 26 luglio ancora non si sa. Una cosa però è certa. Quell'accordo raggiunto mentre i carri armati bussano alle porte di Gaza e i comandi israeliani minacciano di eliminare tutti i capi di Hamas suona perlomeno sospetto. A render meno chiaro il tutto contribuiscono le dichiarazioni degli esponenti di Hamas che confermano l'intesa, ma negano l'implicito riconoscimento d'Israele. «Il documento contiene una clausola che ribadisce la non riconoscibilità dell'occupante», spiega il portavoce fondamentalista Abu Zuhri. Per il parlamentare Salah al Bardaweel l'intesa non riconosce l'esistenza di due Stati, ma solo la possibilità di far nascere uno Stato palestinese sui confini del 1967. Il piano in 18 punti firmato l'11 maggio scorso nel carcere di Hadarim dal segretario generale di Fatah Marwan Barghouti e da Abdel Khaled Natche, detenuto eccellentissimo di Hamas, è diventato il simbolo della discordia tra Abu Mazen e Ismail Haniyeh. In quei 18 punti apprezzati da Fatah e accettati inizialmente anche da Hamas, capi e comandanti reclusi a Hadarim concordavano nel sottoscrivere la soluzione dei due Stati accettando implicitamente di riconoscere lo Stato d'Israele. Abu Mazen ne aveva chiesto immediatamente la sottoscrizione all'esecutivo fondamentalista e dopo aver ricevuto un secco rifiuto lo aveva sottoposto al voto popolare fissando il referendum del 26 luglio. Per Haniyeh la mossa era un vero colpo basso. Quel referendum rischiava di costringerlo alle dimissioni se la maggioranza dei palestinesi avesse votato, come prevedevano i sondaggi, per la ratifica del piano in 18 punti. Ora il colpo basso potrebbe essersi trasformato in una mano tesa. In fondo Haniyeh i colpi più duri li ha ricevuti dall'ala militare e dalla dirigenza in esilio del suo stesso partito. Delegittimato pubblicamente dall'assalto all'avamposto di Kerem Shalom subito dopo la firma di un accordo in cui s'impegnava con il presidente palestinese a metter fine a tutti gli attacchi sul suolo israeliano, Ismail Haniyeh si ritrova con il cerino in mano. Non ha più l'autorità sufficiente per ottenere il rilascio del caporale detenuto dai comandanti delle Brigate Ezzedin Al Qassam, non può negoziare con Israele e non ha neppure la possibilità di abbandonare la vita pubblica per darsi ad una serena latitanza. In questa situazione disperata anche quell'accordo tante volte rifiutato può diventare un salvagente. Soprattutto se Haniyeh riuscirà ad inserirlo in un pacchetto più ampio per ottenere da Israele una rappresaglia simbolica e limitata in cambio della restituzione dell'ostaggio. Il problema è ovviamente la scarsa autorevolezza di un'intesa firmato da un presidente ed un premier considerati irrilevanti non solo dal nemico, ma anche dai propri sottoposti e alleati. «Meglio aspettare e vedere cosa succederà», suggeriva ieri il portavoce della Casa Bianca Tony Snow. Dal punto di vista israeliano quell'accordo è invece già superato dai fatti. «La politica interna palestinese a volte può anche essere interessante - faceva notare ieri il portavoce del ministero degli Esteri Mark Regev - ma diventa assolutamente irrilevante se è in corso una crisi e un nostro soldato è tenuto in ostaggio a Gaza».

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