Ritratto di Aliza Olmert, la first lady israeliana di Davide Frattini
Testata: Corriere della Sera Data: 14 maggio 2006 Pagina: 16 Autore: Davide Frattini Titolo: «Aliza, first lady pacifista «Userò il nuovo potere ma mi sentirò in gabbia»»
Dal CORRIERE della SERA di domenica 14 maggio 2006:
GERUSALEMME — La residenza del primo ministro avrà una stanza in più: il suo studio. Dove poter dipingere e scrivere, lontano dalle pressioni della politica e dagli sguardi degli uomini della sicurezza. Aliza Olmert prepara il trasloco. In una nuova casa e in una nuova vita. Dall'elegante villa araba nel quartiere di Katamon, all'alloggio ufficiale che qui chiamano il bunker. «Perché è un bunker» dice lei con un sorriso rassegnato. «Mi sentirò in gabbia, in una prigione. Là tutto è contrario al mio gusto estetico e al mio senso dello spazio». In questi giorni, si sta esercitando nell'arte di proteggersi dalla troppa protezione. Le amiche che passano a trovarla per un caffè preferiscono venire senza borsa, per accelerare i controlli all'ingresso, e a piedi: la strada è stata chiusa, ogni macchina viene perquisita. «Quello che mi mancherà di più sono la libertà e l'anonimato. Ci saranno più obblighi, più formalità, più responsabilità. Dovrò imparare a tenere la bocca chiusa. Più sicurezza, meno spontaneità» racconta nella prima intervista da quando il governo si è insediato. Il suo caschetto di capelli bianchi — portati corti, mai tinti — sta diventando riconoscibile tra gli israeliani solo ora. Quando il marito Ehud Olmert era sindaco di Gerusalemme o quando era diventato ministro con Ariel Sharon, Aliza, 59 anni, è sempre rimasta lontana dalle cerimonie pubbliche. Ha continuato a lavorare come assistente sociale, a scrivere testi teatrali, a dipingere e fotografare, ha seguito i cinque figli (dei quali una adottata): il più grande ha investito nell'hi-tech a New York e ha firmato una petizione rifiutandosi di prestare servizio come riservista in Cisgiordania, il più giovane studia alla Sorbona di Parigi e il militare non l'ha fatto del tutto, una delle ragazze, Dana, è stata impegnata con Machsom Watch, il gruppo che denuncia gli abusi contro i palestinesi ai check point. Una famiglia di sinistra. Dove il neo-premier — un passato con la destra revisionista e una carriera nel Likud — è sempre stato in minoranza. Fino alla svolta dell'evacuazione da Gaza e alla nascita di Kadima, il partito di centro che ha guidato alla vittoria, dopo averlo fondato assieme ad Ariel Sharon. Il 28 marzo 2004 è stato il giorno della concordia (elettorale): Aliza ha votato il marito per la prima volta («con una certa esitazione» ha fatto sapere). «La gente ha scelto Ehud, non me. Non siamo una coppia alla Bill e Hillary Clinton, dove voti uno e prendi due. Hillary ha sempre avuto una mentalità e motivazioni profondamente politiche. Come first lady, avrò più potere, ne sono consapevole, e cercherò di utilizzarlo per le cause in cui credo». Dirige due organizzazioni: Orr Shalom offre case-rifugio ai bambini in pericolo, Tlalim mette a disposizione computer per permettere ai piccoli ammalati di continuare a studiare da casa. Anche per questo i suoi occhi scuri si induriscono, quando pensa ai bimbi palestinesi, scortati dall'esercito israeliano perché vengono attaccati dai coloni sulla strada verso la scuola, a sud di Hebron. «L'educazione è un diritto fondamentale dell'umanità, va protetta». Dice che appoggerà i matrimoni civili, una riforma che i partiti laici hanno sempre promesso e mai attuato. «E non rinuncerò alle mie fughe a Tel Aviv, abbiamo comprato da poco un appartamento. E' una città dove respiri la libertà di scegliere». Nella grande casa di Katamon, muri bianchi e le macchie di colore dei suoi quadri (che sono dappertutto, sulle pareti, impilati per terra), sta terminando il nuovo libro, pubblicato dalla casa editrice Yedioth Ahronoth. Raccoglie le fotografie di graffiti che ha scattato in una ventina d'anni. «Ho cominciato a Yamit. Sono andata nel Sinai durante lo sgombero dell'insediamento. Era pieno di scritte che urlavano la loro rabbia, la disperazione. Ero partecipe del dolore, ma sostenevo la decisione dell'evacuazione». Ogni immagine è accompagnata da un racconto della scrittrice Gail Hareven, che ha cercato di ricostruire la storia dietro ai segni, amori perduti o sogni politici infranti. «Non sempre il messaggio viene affidato alle parole: siamo in una zona di conflitto, i muri sono pieni di simboli violenti. Raccontano la situazione, anche quando non dicono chi è contro chi. Tutti sono contro qualcosa. Sui muri leggo quello che vedo negli occhi della gente: paura, odio, scontento, il desiderio di calma e tranquillità».
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