Dietro gli attentati in Egitto la strategia antisraeliana di Al Qaeda
Testata:Corriere della Sera - Il Foglio Autore: Guido Olimpio - Magdi Allam - la redazione Titolo: «Colpire il Cairo per arrivare a Gerusalemme - Mistica dei numeri e miopia dell'Occidente - La pista del jihad che da Dahab porta in Pakistan (via Gaza)»
Dal CORRIERE della SERA del 26 aprile 2006:
È il «ritorno a casa» dei mujahedin. Non come aveva chiesto domenica su Al Jazira Bin Laden, ma come aveva fatto il suo ideologo principe Ayman Al Zawahiri nell'ormai lontano 2001 pubblicando il testo base per i jihadisti, «I cavalieri sotto la bandiera del Profeta». Per il dottore egiziano «la via per liberare Gerusalemme passa dalla liberazione del Cairo» e dunque è necessario concentrare la lotta in Egitto, colpendo insieme regime, occidentali e israeliani. Significativamente è ancora Al Zawahiri a lanciare la freccia che inaugura la campagna del Sinai con il massacro di Taba del 7 ottobre 2004. L'azione è preceduta da un suo messaggio che per molti nasconde un ordine in codice. Ma c'è dell'altro. Gli esperti dell'integralismo (in particolare l'israeliano Reuven Paz) sono andati a rileggere la documentazione diffusa dopo Taba. E tra le carte ve ne è una scritta probabilmente da un ideologo saudita, presentatosi come Al Aedhi. In sintesi, la sua analisi dell'ottobre 2004: 1) L'azione di Taba è stata condotta da un gruppo formato sei mesi prima. 2) L'ordine per la campagna è venuto dall'audio di Al Zawahiri (1 ottobre). 3) Esiste un legame tra mujahedin egiziani e quelli sauditi. 4) L'attentato è il primo di una serie. 5) L'obiettivo è creare una nuova avanguardia di militanti in Egitto per lottare contro gli occupanti esterni (Usa, Israele) e interni (Mubarak). Le parole di Al Aedhi si sono rivelate profetiche. Dopo quel massacro, l'Egitto ha patito attacchi in serie. Il Sinai si è trasformato in una retrovia jihadista, animata da militanti forse poco esperti con le armi ma determinati. Un terrorismo «individualizzato» legato ai suoi profeti dalla comune adesione alla guerra santa. Per gli osservatori è la «terza generazione», di ispirazione salafita, caratterizzata da una marcata presenza di studenti (circa il 59%) e semplici operai (27%), con un'eta media di 24-25 anni. Nell'arco di due anni si è così materializzato il «ritorno sul fronte interno» dei mujahedin egiziani. Una risposta agli ordini di Al Zawahiri e alle dottrine degli imam oltranzisti. Tra questi il saudita Al Ayeri, divenuto immortale dopo la sua scomparsa cruenta grazie all'enciclopedica opera lasciata su Internet, e il giordano Al Makdissi, padre spirituale di Al Zarkawi. È sotto questa coperta teologica che si muovono neofiti e reduci di gruppi storici, quali Al Tawhid e la Jihad. Un dinamismo che piega pericolosamente verso la causa palestinese. Prima di Taba, Zawahiri aveva bastonato Hamas perché limitava i suoi attacchi in Israele mentre poteva lanciarli in Egitto, colpendo turisti israeliani. Ora lo scenario si ripete, con Bin Laden che rimprovera a Hamas la scelta del voto. Immediata la risposta del premier palestinese Haniyeh, che condanna «il crimine odioso» di Dahab. A Gaza temono che la triade Osama-Zawahiri-Zarkawi possa fare breccia anche in Palestina. Ieri il tagliatore di teste ha inaugurato il suo video affermando che l'obiettivo finale è Gerusalemme.
Un editoriale di Magdi Allam sulla miopia dell'Occidente:
L'attentato a Dahab, nel Sinai, ha fatto riemergere la simmetria degli stereotipi, delle paranoie e dei pregiudizi presente in seno sia al terrorismo islamico globalizzato sia all'Occidente. Quasi si trattasse di robot che rispondono ad automatismi preordinati. Su un fronte, colpisce il fatto che gli ultimi tre attentati terroristici nel Sinai si siano consumati a distanza di 9 mesi l'uno dall'altro: il 7 ottobre 2004 a Taba, il 23 luglio 2005 a Sharm el Sheikh e il 24 aprile 2006 a Dahab. Che in tutti e tre gli attentati ci siano state 3 esplosioni simultanee. Che tutti e tre gli attentati siano stati attuati da terroristi suicidi. Dove l'enfasi riposta nel numero 11 si spiegherebbe con la similitudine alle lettere alif e lam, che in arabo concorrono a comporre la parola «Allah». Sull'altro fronte, colpisce la reazione istintiva e immutabile — quasi si trattasse di un riflesso condizionato — di molti analisti e politici occidentali. Anche in occasione della strage di Dahab hanno reiterato la tradizionale litania. Ad esempio alla trasmissione «Matrix», andata in onda su Canale 5 il 24 aprile, il senatore diessino Nicola Latorre ha detto che il terrorismo non finirà fino a quando non si risolverà il conflitto israelo-palestinese, e che il terrorismo dimostra che la guerra in Iraq è stata una catastrofe mondiale. Dal canto suo l'ex capo dello Stato, Francesco Cossiga, si è spinto fino a legittimare il terrorismo sostenendo che è paragonabile alla nostra resistenza contro il nazifascismo. Ebbene si tratta, su entrambi i fronti, di posizioni ideologiche e preconcette. Perché la verità è che il terrorismo non è la conseguenza, bensì la causa dei mali che affliggono i palestinesi, gli iracheni e il resto del mondo. È il terrorismo che si frappone a una soluzione pacifica del conflitto arabo-israeliano, finendo per impedire la nascita di uno Stato palestinese pur di non riconoscere il diritto di Israele all'esistenza. Hamas e la Jihad islamica fecero esplodere i primi kamikaze sugli autobus di Gerusalemme e Tel Aviv nell'ottobre 1993 per sabotare il nascente processo negoziale avviato dalla storica stretta di mano tra Rabin e Arafat. E oggi Hamas preferisce ridurre alla fame il popolo palestinese, pur di non accettare gli accordi con Israele sottoscritti da Arafat. Ed è la mitizzata Intifada la principale causa del tracollo economico dei palestinesi, che da un reddito pro capite di 1.850 dollari nel 1999 sono precipitati a 850 dollari. Così come, stando a un'inchiesta del quotidiano Asharq Al Awsat del 21 aprile scorso, la gran parte dei terroristi suicidi palestinesi appartiene al ceto medio o ricco, ha un livello d'istruzione superiore o universitario, e non ha nulla a che fare con la situazione di miseria e disperazione in cui versa la maggioranza dei palestinesi. Per quanto concerne l'Iraq, come si fa a dimenticare che il terrorismo islamico globalizzato aveva espresso il culmine della sua capacità offensiva ben prima del 20 marzo 2003? E come si fa a non comprendere che, se oggi si abbandonasse militarmente l'Iraq, lo consegneremmo a Bin Laden e a Al Zarqawi? Infine come si fa a elogiare una persona trasformata in robot della morte, che disconosce il diritto alla vita propria e altrui, immaginando che incarnerebbe le aspirazioni di oltre un miliardo di musulmani? A me più che il terrorismo, preoccupa questo Occidente che, puntualmente di fronte alla strage, persevera nel nobilitare il terrorismo giustificandolo come reazione a delle nostre colpe, rifiutandosi di comprendere che ha invece una natura aggressiva. Che dimentica troppo rapidamente che l'Occidente stesso è diventato una roccaforte del terrorismo islamico e una fabbrica di kamikaze. Che, pertanto, la nostra attenzione alla strage di Dahab non deve essere proporzionale al numero delle vittime italiane, ma deve avere un'identica valenza perché si tratta dello stesso nemico che potrebbe colpire anche a casa nostra, così come è già successo a Londra, Amsterdam, Madrid e New York. Il terrorismo non è la conseguenza ma la causa dei mali del mondo arabo È sbagliato giustificare le stragi quali reazioni a nostre colpe
Di seguito l'analisi del FOGLIO:
Il Cairo. Il rais egiziano, Hosni Mubarak, lo ha detto subito: i colpevoli dell’attacco terroristico di lunedì a Dahab, in Sinai, pagheranno con la forza o con la legge. Sul Mar Rosso, tre esplosioni hanno ucciso almeno 24 persone, 20 delle quali egiziane. E’ il terzo attentato in pochi mesi. Le tre stragi sono state tutte portate a termine durante un periodo di vacanza nazionale. “Non penso che sia una coincidenza che quest’attacco sia capitato nel giorno della Liberazione del Sinai – ha detto il ministro dell’Interno egiziano, Habib al Adli, in televisione – Gli altri due attentati a Taba e Sharm el Sheikh sono avvenuti durante la celebrazione di una festa nazionale; questo fa nascere punti di domanda”. A Taba, nel 2004, era il giorno dopo il 6 ottobre, anniversario della “vittoria” egiziana nella guerra con Israele del 1973; Sharm el Sheikh fu colpita il 26 ottobre 2005, celebrazione della nazionalizzazione del canale di Suez, nel 1956. Erano soprattutto gli egiziani il target degli attacchi, quelli che vanno in spiaggia con i turisti occidentali; l’obiettivo erano l’economia egiziana, dipendente dal turismo, e la politica delle deboli aperture del governo del Cairo, che dialoga con Washington e parla con Israele. Mubarak aveva accennato, pochi giorni fa, all’ipotesi, ancora “prematura”, di un incontro, nel Sinai, tra il premier israeliano Ehud Olmert e il presidente dell’Anp, Abu Mazen. L’Egitto, il cui legame con gli Stati Uniti si concretizza annualmente con aiuti finanziari pari a 1,9 miliardi di dollari, è obiettivo del terrorismo quanto Giordania e Marocco, altri paesi rivolti a occidente. Il mandante è al Qaida, ha già stabilito la stampa internazionale, in mancanza di rivendicazioni. Nonostante gli sforzi del Cairo, la rete si muove comodamente nel Sinai, grazie, a detta del governo, alla collaborazione dei beduini. Al Qaida, dicono gli analisti, soprattutto nella vicina Israele, starebbe cercando di spostare il fronte in nuovi territori, come Gaza. Hamas, il Jihad islamico (autore della strage del 17 aprile a Tel Aviv giustificata proprio da Hamas come atto di “autodifesa”) e i Fratelli musulmani hanno condannato l’attacco e preso le distanze dal marchio di fabbrica internazionale. Ci sono tre livelli di terrorismo, spiega al Foglio Paul Vallely, analista militare di Fox News. “Ci sono stati che sostengono il terrorismo, come l’Iran; gruppi come Hezbollah e il Jihad islamico e cellule più o meno indipendenti, che si dichiarano parte di un’organizzazione”. Ma, dice, tutto è connesso. “Anche prima dell’11 settembre c’erano campi d’addestramento nel sud del Libano, in Siria, nelle aree tribali del Pakistan, a Gaza, dove oggi sembrano esserci infiltrazioni di al Qaida; e Iran e Arabia Saudita continuano a finanziare il terrore. E’ tutto ispirato dall’ideologia dei Fratelli musulmani”. Dopo ogni attacco, Mubarak promette severità. Dieci persone sono già state arrestate ieri. Sono in vigore dal giorno dopo l’uccisione del presidente Anwar al Sadat, per mano di un estremista islamico, le leggi d’emergenza. Su ogni autobus turistico c’è una guardia armata in borghese. Ogni straniero che entra nel Sinai in auto è scortato a destinazione dalla polizia; ogni mese le agenzie di stampa battono la notizia dell’arresto o della scarcerazione di decine di “islamisti”. Il New York Sun ricorda che gli attacchi terroristici nel paese c’erano anche prima dell’11 settembre e della lotta al terrorismo globale, e aggiunge, provocatorio, che il regime è abile e veloce a mettere fuori gioco l’opposizione liberale e laica, che definisce “illegittimo” il suo potere, ma sembra essere meno efficiente a ritracciare le origini dell’estremismo, esercitando un debole controllo su moschee o sulle parti più radicali di certe istituzioni religiose, come l’Università teologica di al Azhar, da dove pochi giorni fa il gran Mufti d’Egitto, Ali Gomaa, ha lanciato una fatwa contro la scultura, Piramidi e Sfinge comprese. “Continuano a predicare odio nelle moschee”, dice Vallely.
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