La vera storia di Hamas raccontata senza reticenze e manipolazioni
Testata: Corriere della Sera Data: 27 gennaio 2006 Pagina: 7 Autore: Davide Frattini Titolo: «Hamas: kamikaze, petrodollari E complicità. Anche occidentali»
Esemplare ricostruzione storica della vicenda politica e militare di Hamas. Di Davide Frattini, sul CORRIERE della SERA di venerdì 27 gennaio 2006. Ecco il testo:
Alla fine dell'estate, quando gli ultimi soldati israeliani stanno lasciando Gaza, i capi di Hamas decidono di aprire le celebrazioni a tutti quelli che vogliano partecipare. Ringraziano la comunità internazionale «per essere stata al fianco del movimento durante la battaglia» e invitano a una giornata commemorativa per ricordare il 21 agosto 1969 e il rogo appiccato alla moschea Al Aqsa dall'evangelico australiano Dennis Michael Rohan che, cercando di ridurre in cenere il terzo luogo più sacro dell'Islam, sperava di facilitare l'avvento del Messia. Per festeggiare il ritiro, i leader fondamentalisti scelgono anche di rivelare parte dei loro «segreti militari»: un nuovo razzo chiamato Sajil, con raggio di quindici chilometri, capace di colpire le città israeliane sulla costa, e le ragazze-Kassam, giovani donne impegnate per la prima volta in un addestramento con i kalashnikov. «Perché la guerra deve continuare: con le armi e soprattutto sul piano politico». Sono la guerra e la strategia che hanno portato cinque mesi dopo gli islamisti a conquistare 76 seggi in parlamento. E l'inizio di una campagna di pubbliche relazioni: esaltare i palestinesi («la lotta continua») e persuadere gli europei e gli americani («non siamo un gruppo di religiosi fanatici»). L'operazione è costata ad Hamas almeno 180 mila dollari, quelli spesi per ingaggiare Nashat Aqtash, un pubblicitario di Ramallah che insegna teoria dei Media all'università Birzeit in Cisgiordania. «Abbiamo un problema di immagine e il mio obiettivo è quello di risolverlo. Non ci interessa che l'Occidente accetti l'ideologia del movimento, dobbiamo ottenere che diventi consapevole di alcuni fatti. Hamas non ama mandare la gente a morire, ama la vita». Aqtash — racconta il Guardian — ha consigliato in queste settimane ai dirigenti di rinunciare agli anatemi pubblici (e al candidato Abu Teir di non tingersi più la barba con l'henné arancione «perché è ridicola»): «Non devono ripetere di odiare gli israeliani perché sono ebrei, devono dare l'idea di un'organizzazione che è stata costretta a combattere». Ammette che la sua è una piccola squadra, che lavora da un piccolo ufficio e che sarà impossibile far dimenticare l'ondata di violenza e gli attacchi suicidi commissionati da Hamas: 145 solo nella seconda intifada, con oltre 650 vittime israeliane. «Abdel Aziz Rantisi (uno dei fondatori, ucciso da Tsahal in un omicidio mirato nella primavera del 2004, ha sempre negato l'Olocausto, ndr) andava in televisione a usare parole che gli stranieri non possono accettare. Cose come: vogliamo cancellare Israele dalla mappa. La nostra retorica va cambiata, raccontiamo solo le sofferenze dei palestinesi».
Quando lo sceicco Ahmed Yassin nel 1973 fonda a Gaza al-Mujamah, un'associazione legata ai Fratelli Musulmani egiziani, proclama proprio di volersi occupare dei palestinesi, costruire cliniche, asili, scuole, fornire un'educazione ai bambini. «All'inizio l'organizzazione venne incoraggiata dall'amministrazione civile israeliana — spiega Hillel Frisch, che insegna storia del Medio Oriente all'università Bar Ilan —. Tra la fine degli anni Settanta e l'inizio degli anni Ottanta, l'Olp di Yasser Arafat era quel che è diventato Hamas poi. Così gli islamici sembrarono agli israeliani un contrappeso. Non abbiamo creato noi i Fratelli Musulmani, esistevano già ed erano penetrati nella Striscia. A quel punto, era sensato concedere i permessi per la costituzione di servizi sociali che avrebbero alleviato la povertà». Ariel Sharon, da ministro della Difesa, decide di seguire la strategia delineata dal consigliere Menachem Milson, professore di Letteratura araba e rettore dell'Università ebraica a Gerusalemme, nominato primo capo dell'amministrazione civile nel novembre del 1981. «L'idea di Milson e Sharon era semplice ed efficace: tolleranza da parte nostra fino a quando non diventate terroristi. I gruppi potevano avere i loro giornali, la vita culturale a Ramallah era vivace. Da giovane sono stato un ballerino classico — dice Frisch —: rimanevo sempre stupito dall'alto livello degli spettacoli che si potevano trovare in Cisgiordania. Ma Milson venne attaccato da sinistra per queste scelte, lo accusavano di voler riprodurre un modello paternalistico e coloniale, nei corridoi dell'Università ebraica non gli rivolgevano la parola».
La base ideologica del movimento di Yassin diventa l'Università islamica di Gaza, dopo che il presidente Anwar Sadat ha bandito i palestinesi dagli atenei egiziani per le loro proteste contro gli accordi di Camp David. «L'università finisce sempre di più sotto il controllo degli integralisti — continua Frisch — e Mujamah dà il via libera a incursioni contro i cinema, i locali che vendono alcol, i negozi con qualche vestito troppo succinto». Lo scontro con le autorità israeliane diventa inevitabile. Nel 1984, tredici membri vengono arrestati (compreso lo sceicco Yassin) e la guida passa a Rantisi. Il pediatra-leader comincia ad organizzare i duemila fedelissimi, fino ad allora impiegati soprattutto nelle comunità religiose: il gruppo immagazzina armi e si prepara all'intifada che esplode l'8 dicembre 1987. Lo scontro con il Fatah di Yasser Arafat diventa inevitabile. All'inizio a colpi di volantini: il primo bayan con la sigla di Hamas viene distribuito nelle strade di Gaza l'11 febbraio 1988, la sfida al potere del raìs è lanciata. Per contendere la supremazia e il controllo dei laici sulla rivolta anti-israeliana, i Fratelli Musulmani e Yassin creano la Harakat al-Muqawama al-Islamiyya, Movimento per la resistenza islamica, il cui acronimo (Hamas) significa «fervore» in arabo. «Da allora, Hamas e Fatah — spiega l'analista Jonathan Schanzer — avranno strategie e obiettivi differenti. Arafat vuol far nascere una proto-nazione, dimostrare il suo pragmatismo al mondo. I fondamentalisti puntano a guadagnare potere sul campo, tra la gente, e si oppongono a qualunque negoziato, a qualunque trattativa che possa portare alla nascita di due Stati. Risultato: cresce la credibilità di Arafat nella comunità internazionale, cresce la forza di Hamas tra i palestinesi che vedono nell'implicito riconoscimento di Israele un segno di debolezza». Nei 36 articoli della Carta pubblicati nell'agosto del 1988, il movimento delinea la sua sintesi tra islamismo e nazionalismo palestinese. Il documento riprende lo slogan della Fratellanza: «Il Profeta è l'esempio, il Corano è la nostra costituzione, la jihad un dovere di ognuno». La lotta contro «l'invasore sionista» è considerata un dovere per ogni musulmano. L'obiettivo finale è la nascita di uno Stato islamico che si estenda tra il «il fiume e il mare», ovvero dal Giordano al Mediterraneo. «I palestinesi non devono cedere un solo pollice di terra — continua Schanzer —, lo Stato ebraico non è previsto nella mappa (e nel simbolo) disegnati da Hamas, perché tutta la Palestina è waqf, un bene religioso, dato da Allah ai musulmani». Gli ebrei potranno rimanere come dhimmi, protetti. La Carta immagina uno Stato guidato secondo la sharia, le regole islamiche, dove l'alcol è bandito e le donne indossano il velo.
«Una volta conquistato il parlamento — aveva preannunciato Rasha Rantisi, vedova del leader — spingeremo perché la sharia diventi legge dello Stato. Se Hamas vince le elezioni, non accetteremo il laicismo. Non permetteremo che l'immoralità si diffonda, altrimenti i mariti non si potranno più fidare delle mogli e delle figlie». Per soppiantare il Fatah come prima forza, i fondamentalisti hanno bisogno di soldi. Quando scoppia la prima guerra del Golfo, fanno la scelta strategica giusta (e Arafat quella sbagliata): nessun appoggio a Saddam Hussein che ha invaso il Kuwait, appello a un doppio ritiro (americano e iracheno). I ricchi emiri del Golfo premiano il movimento, dirottando i fondi prima destinati all'Olp. Dall'Arabia Saudita arrivano — secondo alcune stime — 28 milioni di dollari al mese. Che Hamas investe in armi e nelle sue associazione benefiche, fino a soppiantare il Fatah come elargitore di denaro e assistenza. «Gli scontri di Hamas con l'esercito israeliano fanno crescere l'ammirazione tra i palestinesi — scrivono Zeev Schiff ed Ehud Yaari nel libro Intifada far avanzare o retrocedere le trattative con le sue azioni». Le Brigate Ezzedin Al Qassam (dal nome di un fondamentalista ucciso dai britannici nel 1935) nascono in quell'anno, il 1991: è l'ala militare, che pianifica e organizza gli attacchi kamikaze o le operazioni contro i soldati di Tsahal. Distinzione che gli israeliani non hanno mai accettato e che gli europei hanno respinto solo nel settembre del 2003, quando Hamas venne inserita — con l'Italia presidente di turno — nella lista nera delle organizzazioni terroristiche. Tutto il movimento, senza distinguo con l'ala politica. Decisioni come quella di inviare la prima donna kamikaze nella storia del movimento (Reem Reyashi, gennaio 2004, quattro vittime israeliane) non possono esser state prese senza l'avallo ideologico e religioso dello sceicco Yassin, hanno sempre ripetuto gli analisti di Gerusalemme. Solo adesso che sono in parlamento, Hamas potrebbe pensare a una vera scissione. «La lotta armata non si ferma», ripetono i leader. Secondo i servizi segreti militari israeliani potrebbero strutturarsi come lo Sinn Fein e l'Ira. «Stanno studiando il modello irlandese assieme alla Jihad islamica — aveva spiegato qualche mese fa il generale Aharon Zeevi Farkash alla commissione Esteri e Difesa della Knesset —. Da un lato il partito che si presenta come forza sociale, pronta a negoziare almeno per l'amministrazione quotidiana, e dall'altro un gruppo militare clandestino che non cede le armi». «E' fondamentale che su questo punto l'Europa non sia debole — riprende Hillel Frisch —. L'atteggiamento dev'essere quello della tolleranza zero. Non si può permettere ad altri movimenti fondamentalisti di pensare che sia accettabile detenere il potere politico e proseguire con la violenza. Sarebbe come indicare un modello da seguire: fingiamo di accettare il processo democratico, lo sfruttiamo per arrivare al governo e proseguiamo con gli attentati terroristici. La comunità internazionale deve far capire subito ad Hamas che se vuol essere un interlocutore deve riconoscere Israele». Negli ultimi mesi, il gruppo ha cercato aperture diplomatiche. Un colpo di bianchetto sul nome di Hamas nella lista nera dell'Unione Europea sarebbe stato offerto durante i colloqui (primavera 2004) tra i leader estremisti e inviati francesi, britannici, spagnoli. In cambio, Hamas avrebbe dovuto smantellare le milizie. Quegli incontri con Mahmoud Zahar (succeduto a Yassin e Rantisi, eliminati da Tsahal) in un palazzone bianco nel centro di Gaza City hanno fatto infuriare gli israeliani e — commentano alcuni analisti dopo i risultati delle elezioni — potrebbero aver aiutato i fondamentalisti in campagna elettorale, accreditandoli come pragmatici e in grado di parlare al mondo invece che vivere nascosti in rifugi sotterranei.
«Adesso hanno vinto e sono loro ad avere bisogno di noi — commenta Yossi Alpher, che ha diretto il Jaffee Center per gli studi strategici all'università di Tel Aviv ed è stato consigliere di Ehud Barak quand'era premier —, sono loro ad aver di fronte un dilemma: o riconoscono lo Stato ebraico e quindi in qualche modo gli accordi di Oslo o nessun governo israeliano dialogherà mai con un primo ministro di Hamas. Penso anche a questioni tecniche come l'acqua o l'elettricità». Tzipi Livni lo spiegava da ministro della Giustizia e comincerà a ripeterlo da ministro degli Esteri: il cosiddetto Oslo II, un accordo ad interim che definisce la struttura politica dell'Autorità palestinese, proibisce la partecipazione alle elezioni di partiti che «compiano o promuovano azioni razziste o cerchino di raggiungere i loro obiettivi con mezzi illegali e anti-democratici», come gli attacchi contro i civili o le affermazioni antisemite dei capi fondamentalisti. Nel 1995 i negoziatori non avrebbero potuto immaginare che Hamas undici anni dopo non solo avrebbe partecipato al voto (aveva boicottato le urne nel 1996 proprio perché ripudia Oslo e l'Autorità) ma le avrebbe vinte.
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