La Stampa di martedì 17 novembre 2006 pubblica una cronaca di Maurizio Molinari sull'aggravarsi della crisi tra la comunità internazionale e l'Iran decisa a proseguire nel suo programma nucleare. Ecco il testo:
L’Iran deve tornare alla completa sospensione dell’arricchimento dell’uranio. Su questa formula hanno raggiunto l’accordo i cinque membri permanenti del Consiglio di Sicurezza dell’Onu - Stati Uniti, Russia, Cina, Gran Bretagna e Francia - riunitisi a Londra assieme alla Germania per affrontare la questione del programma nucleare di Teheran, sviluppato segretamente per 18 anni e scoperto solo due anni e mezzo fa grazie ad informazioni rese pubbliche dall’opposizione. E’ la prima volta che le maggiori potenze sono unanimi nell’approccio al programma nucleare iraniano e ciò è avvenuto grazie alla mediazione britannica che - messo da parte la questione del deferimento dell’Iran all’Onu, sulla quale restano i dubbi di Mosca e Pechino - ha portato tutte le delegazioni a condividere la «seria preoccupazione per la ripresa delle attività iraniane di arricchimento». In questa maniera il summit londinese, durato un’intera giornata e svoltosi a livello di alti funzionari, ha chiamato in causa direttamente il nuovo presidente iraniano, Mahmoud Ahmadinejad, perché fu lui pochi giorni dopo essere stato eletto a decidere la ripresa delle attività di arricchimento, in contrasto con gli impegni con l’Unione Europea e l’Aiea assunti dal suo predecessore Mohammed Khatami.
L’intesa di Londra è stata raggiunta nelle stesse ore in cui la cancelliera tedesca Angela Merkel veniva ricevuta al Cremlino da Vladimir Putin, dal quale otteneva l’impegno a «cooperare con Usa e Ue» condizionato però alla «ricerca di una soluzione diplomatica», in quanto Mosca ritiene ancora possibile che Teheran accetti la proposta di spostare in territorio russo le attività per l’arricchimento. «Bisogna evitare mosse avventate», ha sottolineato Putin.
A spingere le sei potenze verso l’accordo sono state anche le dichiarazioni iraniane sull’intenzione di stanziare fondi per realizzare in breve tempo altre due centrali atomiche - oltre a quelle in via di costruzione a Busher e Natanz - con l’obiettivo di lungo termine di arrivare ad avere venti impianti nucleari.
Il maggiore ostacolo a Londra era la posizione di Pechino, la più contraria all’opportunità di un deferimento dell’Iran al Consiglio di Sicurezza. E infatti nella dichiarazione finale del Foreign Office non si fa riferimento a tale scenario. Ciò non toglie tuttavia che a conclusione dei lavori i rappresentanti di Germania, Francia e Gran Bretagna si sono detti in favore della convocazione di urgenza del consiglio dei governatori dei 35 Paesi dell’Aiea a Vienna a inizio febbraio, lasciando intendere che in quell’occasione metteranno ai voti proprio il deferimento di Teheran al Consiglio di Sicurezza delle Naziioni Unite. «E’ arrivato il momento di discutere all’Onu il nucleare dell’Iran - ha dichiarato dalla Liberia il Segretario di Stato, Condoleezza Rice - ed il fatto che Teheran teme questa eventualità dimostra l’importanza assunta dal Consiglio di Sicurezza». Di fronte a questo scenario l’Iran ha reagito ammonendo sulla possibilità di aumentare i prezzi del greggio e ciò ha portato il costo del Brent a crescere di 67 centesimi a barile.
La riunione di Londra ha coinciso a Teheran con la decisione del governo di vietare alla tv Cnn di continuare a lavorare in Iran. La scelta è stata fatta a seguito della traduzione errata da parte della Cnn di un recente discorso di Ahmadinejad nel quale la frase «abbiamo diritto di usare l’energia nucleare» era stata tradotta in inglese «abbiamo il diritto ad usare armi nucleari». Il network americano ha ammesso l’errore, ma ciò non è servito a far cambiare idea al ministero della Cultura di Teheran che ha anche chiamato in causa la giornalista anglo-iraniana Christiane Amanpour affermando che «conosce bene la lingua persiana» e dunque non avrebbe agito correttamente. La messa al bando del popolare network tv segue di pochi giorni la decisione del presidente Ahmadinejad di proibire la diffusione di musica occidentale attraverso la radio.
Il Foglio pubblica in prima pagina, sotto il titolo comune "L'urlo di Ahmadinechàvez" un articolo sull'"asse" Iran-Venezuela e un'intervista a Micheal Rubin, analista dell'American Enterprise Institute sulla preoccupazione (anzi del "terrore") che il programma nucleare iraniano desta nei suoi vicini arabi.
Di seguito, riportiamo il primo articolo:
Roma. L’Iran è al centro di tutto. Ieri a Londra c’è stato il vertice tra Stati Uniti, Russia, Cina e troika anglo-franco-tedesca, per dibattere l’ipotesi del deferimento del dossier nucleare su Teheran al Consiglio di sicurezza, che, secondo indiscrezioni londinesi, sarebbe già decisa. Lo stesso argomento è stato trattato negli incontri tra il presidente russo, Vladimir Putin, e il cancelliere tedesco, Angela Merkel, e tra il plenipotenziario agli Esteri dell’Unione europea, Javier Solana, e il segretario generale dell’Onu, Kofi Annan. Il ministero degli Esteri iraniano ha rilasciato dichiarazioni suadenti sulla cooperazione con i tre grandi dell’Ue. Le sanzioni – sottolinea Teheran – non favorirebbero nessuno e le ripercussioni sul prezzo del petrolio sarebbero gravi. L’Iran, secondo produttore Opec, guida già la campagna per ridurre la produzione, e alla riunione del cartello il suo ministro del Petrolio, Kazem Vaziri Hameneh, chiederà il taglio di un milione di barili al giorno. Su questa e altre questioni strategiche l’Iran conta su un alleato che ha già promesso “appoggio illimitato e incondizionato”, l’altrettanto veemente presidente del Venezuela, Hugo Chávez, con il quale Teheran condivide anche l’antisemitismo, ribadito negli ultimi giorni dal presidente Mahmoud Ahmadinejad, con la sua conferenza di sfida sull’Olocausto. Quattro visite in sei anni, 50 accordi negli ultimi due, e joint venture per 850 milioni di dollari non bastano a spiegare le ragioni dell’alleanza. Quello tra il Venezuela e l’Iran è un patto “contro”, in opposizione agli Stati Uniti: “La gloriosa nazione iraniana – ha detto Chávez nel corso di un viaggio in Iran – li affronta a testa alta e ha tutta la nostra ammirazione. Come noi, voi volete liberarvi dall’imperialismo”. L’identità di vedute è stata rilanciata da Ahmadinejad al telefono nei primi giorni di gennaio: complimenti e ringraziamenti, e la proposta di “un fronte comune contro l’arroganza delle grandi potenze”. Non era il primo contatto diretto tra i due. Dopo l’elezione Chávez era stato tra i primi a congratularsi e aveva inviato a Teheran, in segno di gradimento, una delegazione molto nutrita. Ma il feeling era scoccato ancora prima, più di un anno fa, nel corso di un’importante missione diplomatica a Teheran. In un parco della capitale, l’allora sindaco Ahmadinejad aveva inaugurato una statua di Simon Bolivar nel parco Goft-e-gou. Erano seguite commosse rievocazioni delle due “rivoluzione sorelle”. Chavez, colpito dal cristallino idealismo antiamericano del sindaco, di ritorno a Caracas aveva ricambiato con una statua del poeta e filosofo persiano Omar Khayyam. “Una civiltà come questa è così palesemente superiore – disse allora – a quella dell’infido regime americano”. Ma l’inimicizia contro Washington spiega solo parzialmente la crescente consonanza di intenti tra Teheran e Caracas. Chávez e Ahmadinejad sono entrambi nazionalisti, populisti e terzomondisti, l’uno inneggia a Simon Bolivar, e l’altro al Mahdi (l’imam “nascosto” di cui i fedeli attendono il ritorno). Sono più i punti in comune che le differenze. Tanto che il “marxista” Chávez non ha esitato a tributare lodi sperticate a un discorso dell’ayatollah Khamenei, definito “un maestro di virtù civica e morale”. Entrambi sono dominati per formazione dal sospetto verso l’occidente e le democrazie di mercato, sono autarchici e vogliono che lo stato intervenga sull’economia, ma al contempo sono entrambi “revisionisti”, non disdegnano lucrose alleanze e tollerano il privato. Al centro di questa retorica gemella ci sono i poveri, i diseredati e i puri di Ahmadinejad. Entrambi hanno promesso di risollevarne i destini attraverso la più preziosa risorsa nazionale: “Il petrolio è della nazione”. Le provocazioni all’estero La politica è uno strumento per portare avanti una visione del mondo. Come l’Iran anche il Venezuela aspira al ruolo di potenza regionale in America Latina – dalle Ande ai Caraibi – e se Teheran si muove come agente provocatore dall’Afghanistan all’Iraq, Caracas arma le Farc in Colombia. Per raggiungere lo status di potenza subcontinentale, Chávez ha stanziato 30 miliardi di dollari da destinare all’acquisto di armi convenzionali (come per l’Iran il fornitore è la Russia) e alla costruzione di un arsenale nucleare. Sulla ambizioni atomiche di Teheran Chávez è sempre stato garantista. “L’Iran ha ogni diritto a sviluppare il suo programma di energia atomica”, ha detto, sancendo il “no” venezuelano al deferimento del dossier iraniano sul tavolo del Consiglio di sicurezza lo scorso settembre. L’alleanza si rinsalda, che si tratti di proclamare l’odio antisemita o di moltiplicare misteriose fabbriche di trattori e cementifici con un gran via e vai di personale scientifico, armi e intelligence. “L’Iran e il Venezuela, questi due fratelli – ha ribadito Chávez – saranno uniti sempre contro qualsiasi forma di aggressione”.
Ecco invece il testo dell'intervista:
Roma. “Tutti i vicini dell’Iran sono terrorizzati – dice al Foglio Michael Rubin, analista dell’American enterprise institute, che ha a lungo soggiornato a Teheran – e hanno ottime ragioni per esserlo, anche più dei paesi occidentali. Sanno che il regime non vuole la bomba soltanto per mantenere lo ‘status quo power’, il potere di conservare inalterato lo stato delle cose. Temono piuttosto che il loro programma di armamento abbia a che fare con una futura e vittoriosa espansione del loro potere e della loro area d’influenza”. Il dito dei mullah sul bottone rosso di un arsenale nucleare preoccupa gli stati arabi molto più di quanto – in ragione del consueto gioco delle parti – non lascino per il momento trapelare. Soprattutto perché l’Iran atomico non troverebbe sulla sua strada nessun contendente ad arginare il suo potere. Ci sarebbe soltanto lo stato di Israele, che però non è vicino alla politica estera dei paesi arabi. Il modello non sarebbe quello, da guerra fredda, del confronto tra India e Pakistan, entrambe potenze nucleari rivali e con le mani legate. Ieri l’Arabia Saudita ha rotto il silenzio. Il ministro degli Esteri, il principe Saud al Faisal, ha messo in guardia l’Iran dal portare avanti il programma di armamento, perché il risultato sarebbe un “disastro nella regione”. “Non c’è ragione per dotarsi di armi simili – ha detto – perché se fossero utilizzate contro Israele ucciderebbero anche i palestinesi. E se mancassero il bersaglio, potrebbero colpire l’Arabia Saudita o la Giordania”. “Quando insegnavo all’università di Teheran – prosegue Michael Rubin – ero impressionato da come gli iraniani considerassero i paesi vicini, per usare un termine che una volta si utilizzava per gli stati satellite dell’Unione Sovietica, ‘near abroad’, cosa loro. ‘Esteri, ma di loro pertinenza’. Per gli iraniani, accesi nazionalisti, Baghdad in Iraq e Herat in Afghanistan sono città dell’ex impero persiano; hanno pure velleità sulla vicina regione del Daghestan, e questo spiega la diffidenza dei russi nei confronti degli iraniani”. Per essere sicuri, comunque, ieri Mosca ha ricominciato il suo infinito balletto diplomatico con Teheran. Le parole di Riad, la scelta del Cairo Qatar ed Emirati arabi uniti temono le conseguenze immediate del programma nucleare, possibili e disastrosi fall out in caso di incidenti o – l’Iran è su una faglia sismica – di terremoti. Il regime, secondo l’inglese Charles Melville, curatore della Cambridge History of Iran, è stato ben attento a costruire gli impianti distanti dalle zone più a rischio. Ma se qualcosa va storto, o in caso di attacco preventivo per strozzare nella culla il programma di armamento, i venti radioattivi non lascerebbero scampo. A preoccupare, tuttavia, sono le conseguenze riflesse della possibile futura bomba iraniana. Aprirebbe, per ammissione del principe Faisal, una corsa agli armamenti atomici nella regione medio orientale. “No, anche se l’Iran proseguisse sul suo percorso l’Arabia non lo seguirebbe. Ma ci sarebbe lo stesso la minaccia di una gara verso l’atomica”. Per ora in testa c’è il solo Pakistan, che ha già ottenuto la bomba con i finanziamenti sauditi e un tacito patto di aiuto. Ma subito dopo segue l’Egitto. Nonostante sia tra i firmatari del Trattato di non proliferazione nucleare, il Cairo, proprio per controbilanciare i progetti iraniani, starebbe portando avanti il suo programma. L’Aiea, l’agenzia di controllo sul nucleare che fa capo all’egiziano Mohammed ElBaradei, avrebbe già controllato le prove che nei loro impianti si tenta il temuto arricchimento dell’uranio. Ma senza dare troppo risalto alla cosa.
Cliccare sui link sottostanti per inviare via e-mail la propria opinione alle redazione de La Stampa e Il Foglio