Il regista di Train de Vie ora racconta il destino dei falascia e dell'Etiopia un 'intervista a Radu Mihailenau
Testata: Il Venerdì di Repubblica Data: 24 ottobre 2005 Pagina: 73 Autore: Brunella Schisa Titolo: «Il mio Train de Vie arriva in Israele»
Radu Mihailenau, il regista di Train de Vie ha rilasciato a Brunella Schisa del VENERDI DI REPUBBLICA una bella intervista sul suo nuovo lavoro, "Vai e vivrai", pubblicata sul numero del 21 ottobre 2005.
La riportiamo di seguito: Parigi. Un esodo segreto: nel 1948 ottomila etiopi ebre, i falascia, all’insaputa del regime filosovietico di Menghistu, raggiunsero a piedi il Sudan e da li partirono per Gerusalemme. Nome in codice: Operazione Mosè, una missione affidata al Mossad, il servizio segreto israeliano. Alla Terra Promessa arrivarono soltanto in quattromila, gli altri arrivarono stremati dal lungo viaggio attraverso il deserto. Su quella che è stata la più grande e complessa emigrazione di massa verso Israele, Radu Mihailenau, il regista dell’indimenticabile Train de Vie, ha scritto un film e un libro commoventi e dolorosi. La storia è quella di Shlomo, un bambino etiope cristiano, costretto dalla madre a partire con una donna falsascia che finge sia suo figlio. "Va, vivi e diventa" gli dice salutandolo, tra la polvere del deserto. E Shlomo va con il cuore straziato: il distacco dalla madre, dalle sue radici, dalla sua cultura. Rimasto solo al mondo anche Shlomo vuole morire. Smette di magiare. Gli assistenti sociali gli trovano una famiglia adottiva meravigliosa e progressista: madre bellissima, padre simpatico, due figli, che lo riempiono d’amore. Ma Shlomo guarda la luna e pensa che quando potrà ricongiungersi con la sua vera madre… Radu Mihailenau, su una vicenda straordinaria com’è stata quella dei falascia, ha creato un’altra storia d’amore e sradicamento che ricorda da vicino anche la sua vita di emigrato in Francia dalla Romania di Ceauceascu.
Vai e vivrai è il titolo in italiano, ma l’originale in francese conteneva tre imperativi: vai, vivi, diventa. "Si, infatti anche il film è diviso in tre atti: l’infanzia, con lo strappo dalla madre e il grande trauma della partenza, l’adolescenza, con il ritorno alla vita grazie alla madre adottiva, infine l’età adulta. L La madre gli ha detto: "vai e diventa" ma lui non sa che cosa significhi: dove diventare qualcuno nella vita? Nella società ? Alla fine Shlomo capirà che deve semplicemente diventare un essere umano".
Lei ha deciso di raccontare la storia dei falascia dopo averne conosciuto uno a Los Angeles "Si , al ritorno ho letto tutto quello che esisteva sull’argomento, e mi sono accorto che la loro epopea, compresa la difficile integrazione in Israele, era stata rimossa. Ero furioso. Sono andato in Israele con il mio assistente e abbiamo intervistato 150 etiopi. Ognuno aveva una storia terribile. E siccome ritengo che il ruolo del regista sia anche quello di fare da ponte, raccogliere testimonianze di persone e darle ad altri, ho deciso di fare il film".
Ma lei ha scritto di un bambino cristiano che si finge ebrei, non di un vero falascia. "Mi sono accorto che, raccontando degli ebrei etiopi, avrei potuto anche svelare il destino di chi non poteva partire , di chi era condannato a rimanere in Africa e quindi alla morte. Il numero due del Mossad mi confessò che nei campi in Somalia molti sapevano che quel gruppo di etiopi partiva verso la salvezza, pur ignorando la destinazione. Allora ho pensato a una madre che costringe il figlio a lasciarla per salvarlo".
Si è detto che la sua storia è una Shoah al contrario. "Ma è sbagliato! La vicenda dei falascia non è paragonabile al genocidio, anche se è vero che per la prima volta nella storia dell’umanità essere ebreo non è stata una condanna a morte".
Nel film ci sono molte affinità con Train de Vie, oltre al protagonista, che si chiama Shlomo, c’è l’impostura, là erano ebrei che si travestivano da nazisti per arrivare in Urss e poi in Palestina. "Perché la mia vita è un’impostura. Sono nato in Romania. Sono ebreo ma fino ai quattro anni i miei genitori me lo hanno nascosto. Mio padre si chiamava Mordechai Buchmann, in più era anche comunista. Durante la guerra cambiò il nome in Ian Miahailenau. E io ho mantenuto la nuova identità".
Infatti di autobiografico nel film c’è anche il problema dell’identità. "Si è vero, sono un rumeno ebreo francese. Alcuni mi considerano rumeno, altri francese, per altri ancora sono solo un ebreo. Qui mi chiamano "il regista rumeno" per escludermi da tutto il cinema francese".
Ma lei come si definisce ? "Ebreo francese di origine rumena, in questo ordine. E, come Shlomo, ho vissuto lo strappo dalla mia famiglia quando sono venuto in Francia senza un soldo e senza nessuno".
Quanti anni aveva? "Ventidue. Fu terribile. Volevo andare in Francia, ma per lasciare al Romania dovetti fingere di andare per due settimane in Israele da mio nonno, altrimenti non mi avrebbero dato il permesso. Mia madre piangeva all’aereoporto perché sapeva che non sarei più potuto tornare, perché diventavo un esiliato politico e mio padre la trascinava in bagno ad asciugarsi gli occhi: per un partenza di quindici giorni, neanche una madre ebrea singhiozza così".
Si è sentito un diverso in Francia? "Non capivo la loro cultura e loro non capivano la mia. Per fortuna non ero nero… Ma parlavo male il francese e a scuola mi mandarono via. Comprai una radio e come Shlomo cominciai a imparare. Dovevo far dimenticare che ero uno straniero. Shlomo studia la notte l’ebraico e la Torah perché ha paura di essere scoperto e di non essere più amato".
Il film racconta anche diciassette anni di storia di Israele, della difficoltà dei falascia integrarsi in ambienti a volte razzisti. "Israele non è razzista, è una società molto complessa, che i media occidentali dipingono come di destra. Posso solo dire che sia la destra che la sinistra hanno sempre lavorato per la pace. In Israele ci sono i razzisti e dei fondamentalisti religiosi hanno umiliato i falascia, ma c’è anche una società aperta, di sinistra, rappresentata dalla famiglia adottiva. Per me la metafora di Israele è il padre Yoram. All’inizio è bello, allegro, pieno di speranze. Poi ci sono il degrado, la depressione, l’instabilità economica. E Yoram ingrassa, diventa trasandato, litiga con i figli".
Yael Abecassis, la madre adottiva, è magnifica. "Volevo intitolare il film "La madre promessa". Yael sembra che non reciti. Quando Shlomo, finalmente, prende il piatto e mangia, una cattiva attrice avrebbe fatto qualcosa. Lei è rimasta immobile, paralizzata dalla sorpresa".
Nel film si piange, ma si sorride anche. "Non so se dipenda dalla cultura ebraica o rumena, ma è la mia natura, non posso stare troppo a lungo nella tragedia, dopo un po’ devo ritirarmi nella commedia. L’unica arma contro la morte è la risata".
Non le sembra di avere scelto un finale troppo consolatorio per Shlomo? "Vai e vivrai è il seguito di Train de Vie. Il primo finiva in un campo, il secondo comincia in un campo. Se non sono riuscito a salvare Shlomo nel primo film, almeno lo salvo nel secondo". Invitiamo i lettori di Informazione Corretta ad inviare la propria opinione alla direzione de Il Venerdì di Repubblica. Cliccando sul link sottostante si aprirà una e-mail già pronta per essere compilata e spedita.