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Il Foglio Rassegna Stampa
12.05.2005 All'origine dell'alleanza tra Stati Uniti e Arabia Saudita
una pagina di storia poco conosciuta, che influenza ancora la politica internazionale

Testata:Il Foglio
Autore: un giornalista
Titolo: «Roosvelt ei sauditi sul Quincy, la vera storia dell'altra Yalta»
IL FOGLIO di giovedì 12 maggio 2005 pubblica un articolo sulla nascita della pericolosa alleanza tra gli Stati Uniti e il regime saudita.

Ecco l'articolo:

Roma. Nel febbraio 1945 ci fu anche un’altra Yalta. Meno clamorosa dell’incontro in cui Roosevelt, Stalin e Churchill si erano "spartiti" il mondo. Più discreta, molto più segreta, senza stenografi e resocontisti, con poche testimonianze, tutte indirette. L’incontro tra il presidente americano, sulla via del ritorno dalla conferenza sul Mar Nero, con il monarca saudita Ibn Saud, sull’incrociatore pesante Uss Quincy, ancorato nel Gran lago amaro, in mezzo al canale di Suez. La "grande Yalta" torna alla ribalta. Segnò la storia d’Europa per decenni. Ma c’è chi ha dubbi che sia così "d’attualità". I "torti" che aveva prodotto sono stati sostanzialmente raddrizzati dal 1989 in poi. L’Europa dell’est non ha più nulla a che fare con quella che era finita sotto il tallone di Stalin. Quel capitolo è chiuso, anche se ritornano citazioni a far avvampare le polemiche, se n’è aperto uno nuovo, del tutto diverso, con altri temi. Di nuove spartizioni a quel modo non se ne vedono all’orizzonte. Anche se alcuni dei personaggi indossano vecchi costumi e maschere tradizionali, è cambiato il canovaccio. Quanto al se il futuro ordine mondiale possa funzionare meglio con accordi cinici ma solidi tipo Yalta, con un’impostazione tipo Società delle Nazioni in stile wilsoniano (il sogno, enunciato nel 1918, di "mettere fine a tutte le guerre", seguito 20 anni dopo da una guerra più spaventosa della precedente), o con l’assertività di un protagonista unico, è un altro discorso. A non essersi sciolti del tutto sembrano semmai i nodi della "Yalta minore". Di quel che concordarono Franklin Delano Roosevelt e il re saudita a bordo del Quincy non si sa molto. Su questa "coda" non c’è abbondanza di memoriali e di resoconti ufficiali come per la Conferenza a palazzo Livadia sul Mar Nero. Non c’è una registrazione stenografica del colloquio. Non ci sono note di "colore". Tranne che Roosevelt, già molto provato dalla lunga malattia, regalò la sua sedia a rotelle all’ospite, anche lui anziano e tormentato da una dolorosa artrite, e che i marinai del Quincy avevano dovuto ereggere una tenda sulla tolda della nave, perché il sovrano del deserto rifiutava di dormire in una "cassa di ferro". Roosevelt morì qualche settimana dopo, il 12 aprile, prima di poter affidare la sua versione a un rapporto. Si sa che parlarono soprattutto di petrolio. Si presume che l’accordo fu che gli Stati Uniti si impegnavano a sostenere la monarchia feudale e oscurantista saudita, purché questa gli garantisse i rifornimenti di petrolio di cui l’economia americana, già lanciata verso il boom del dopoguerra, aveva assolutamente bisogno. Il patto funzionò per 60 anni. Molto più, ormai almeno15 anni più a lungo di quanto avrebbe retto la spartizione dell’Europa in rigide "sfere di influenza": quella occidentale nella sfera Usa, quella dell’est nella sfera del comunismo sovietico. Ha retto sinora attraverso tutte le vicissitudini in medio oriente. Non è stato scalfito nemmeno quando, pochi anni dopo, al rapporto "speciale" tra Usa e Arabia saudita, si aggiunse quello altrettanto speciale tra Usa e Israele: una delle storie più straordinarie della seconda metà del secolo scorso è come la politica americana abbia potuto camminare costantemente, senza inciampare troppo gravemente, su due gambe che si facevano lo sgambetto l’un l’altra: il sostegno totale alla monarchia campione dell’antisemitismo e dell’antisionismo arabo (Ibn Saud fu un pioniere nella ristampa e distribuzione in massa dei falsi "Protocolli di Sion", finiti in soffitta in occidente con la fine di Hitler,
arrivò a dire che era pronto a "sacrificare 10 milioni di arabi, pur di sterminare Israele") e l’impegno, altrettanto totale, a garantire la sopravvivenza di Israele. Cosa aveva condotto Roosevelt a quell’appuntamento in mezzo al canale di Suez? Aveva attraversato l’Atlantico a bordo del Quincy, riadattato con un ascensore per accomodare la sua carrozzina, poi era volato da Malta a Yalta, dalla Crimea in Egitto, quindi si era reimbarcato a Suez sull’incrociatore; la sua assenza da Washington durò oltre un mese; persino il suo vice Truman era stato tenuto all’oscuro dei dettagli dell’itinerario,
gli fu detto che, al bisogno, avrebbe potuto contattarlo attraverso gli uffici della Casa Bianca. Gli arabi non avevano divisioni da schierare nell’assalto finale ai bunker hitleriani (semmai durante la guerra avevano simpatizzato coi nazisti), né contro la grande fortezza giapponese, che restava il problema principale per Washington(ci vollero poi le atomiche per fare breccia). Roosevelt guardava oltre. "La mia ferma convinzione è che nei prossimi 25 anni gli Stati Uniti dovranno affrontare un declino acuto delle riserve di petrolio, e siccome il petrolio, e tutti i suoi sottoprodotti sono la base della capacità di combattere una guerra moderna, ritengo che questo sia uno dei problemi più importanti che ci troviamo di fronte", dice una nota di quei giorni del segretario alla Marina James Forrestal al segretario di Stato Usa. L’Arabia di Ibn Saud nel 1944 aveva concesso agli americani la costruzione di una base aerea a Dhahran, dove avrebbero dovuto sostare i rifornimenti via aria diretti in Europa. Ma la sua utilità già cominciava a venire meno. Molta più importanza avevano le promettenti esplorazioni petrolifere, iniziate dalla Standard Oil of California (Socal) nel 1933. Abdulaziz ibn Saud sospettava degli inglesi, temeva un "accerchiamento" ostile del suo regno, c’era già stato un incidente di frontiera per l’oasi di Buraimi, rivendicata dal Qatar, Abu Dhabi e Oman, sotto protezione britannica, soprattutto sospettava che Londra potesse aiutare gli hashemiti, la tribù rivale che lui stesso aveva spodestato, a tornare a governare lo Hejaz (uno degli hashemiti, gli alleati originari di Lawrence d’Arabia nella prima guerra mondiale contro i turchi regnava ad Amman, l’altro, cacciato dalla Siria finita sotto influenza francese, era stato sistemato provvisoriamente col "contentino" del trono dell’Iraq a Baghdad). Promise a Roosevelt, secondo la testimonianza dell’allora giovane segretario del capitano del Quincy, Albert Levesque, che "non avrebbe mai più dovuto preoccuparsi del petrolio". Roosevelt non si lasciò sfuggire l’affare del secolo.

Aveva un problema, rassicurare l’amico Churchill, suo concorrente in materia. L’ambasciatore di Londra a Washington, Lord Halifax, racconta nelle sue memorie che, in un incontro di poco precedente alla Casa Bianca, il presidente gli aveva mostrato una mappa tracciata a mano delle risorse petrolifere del medio oriente, e gli aveva detto che gli Stati Uniti avevano bisogno del petrolio saudita, la Gran Bretagna avrebbe potuto tenersi quello della Persia, avrebbero potuto dividersi quello di Iraq e Kuwait. Poi aveva scritto di persona a Churchill: "Non facciamo gli occhi dolci (sheep’s eyes) ai vostri pozzi in Iraq o Iran". "Grazie per le rassicurazioni sul fatto che non fate gli occhi dolci ai nostri pozzi in Iran e Iraq. Mi consenta di reciprocare che non abbiamo la minima intenzione di cozzare contro i vostri interessi in Arabia saudita", aveva risposto Churchill (l’Ammiraglio, come lo chiamavano in codice i servizi che organizzarono la trasferta a Yalta) al Colonnello (come veniva chiamato in codice il presidente americano). C’era una complicazione: verso i pozzi iraniani aveva delle mire anche Stalin, ma poi fu convinto a ritirarle dall’Azerbaigian iraniano e a tenerle solo in Europa. L’altra complicazione era il fondamentalismo islamico e l’intransigenza di Ibn Saud sugli ebrei in Palestina. Chaim Weizmann, poi presidente di Israele, ricorda di aver incontrato Roosevelt negli anni 40 e che gli disse che il problema si sarebbe risolto "con un piccolo baksheesh (una mancia)", "al che gli risposi che sradicare l’intera popolazione araba non sarebbe stato affatto così semplice". L’idea originaria di Roosevelt non era uno Stato ebraico, l’allora suo segretario al Tesoro Henry Morgenthau ricorda di quando gli illustrò un progetto per trasformare la Palestina in un "paese religioso". "Mi disse che Gerusalemme sarebbe stata affidata a un comitato congiunto di rappresentanti della Chiesa cattolica ortodossa sic), avrebbe messo filo spinato tutt’attorno alla Palestina… e gli arabi sarebbero stati spostati da qualche altra parte in medio oriente… posto ce n’è". Edward Stettinius, suo segretario di Stato, annota nei diari del 1944 che il presidente gli disse che "la Palestina deve essere per gli ebrei, e non ci devono essere arabi". I suoi successori alla Casa Bianca si sarebbero rassegnati a riconoscere
Israele solo obtorto collo (anche perché li aveva preceduti Stalin).

Ma come se l’era cavata sull’argomento con Ibn Saud? Stettinius annota nel suo diario, in data 2 gennaio 1945, che Roosevelt intendeva portare all’incontro col re saudita una mappa in cui si dimostrava che "la Palestina occupa un’area infinitesima del medio oriente, e quindi la si può dare agli
ebrei senza danneggiare in alcun modo gli interessi arabi". Di come poi sia andata abbiamo solo quel che Roosevelt stesso disse al Congresso il 1° marzo: "Sul problema dell’Arabia, sull’intero problema, il problema musulmano, il problema ebraico, ho imparato più cose in cinque minuti di colloquio con Ibn Saud, di quanto avrei potuto apprendere nello scambio di due o tre dozzine di lettere". L’affermazione fece venire la pelle d’oca ai rappresentanti delle comunità israelitiche americane. Lasciò confusi anche i suoi più stretti collaboratori. Il suo intimo, Harry Hopkins, scrisse, molto più tardi, che l’unica cosa che il presidente aveva appreso "era quello che tutti coloro addentro nel problema palestinese già sapevano, che gli arabi non volevano ebrei in Palestina". Stettinius annotò: Roosevelt "è ora convinto che se si lasciano le cose al loro corso naturale ci sarà spargimento di sangue tra arabi ed ebrei", quindi "per evitarlo bisognerà inventare una qualche formula non ancora scoperta per impedirlo". Forse non è solo una coincidenza che, poco prima del suo viaggio a Mosca e dintorni in occasione del 60° della vittoria sovietica sul nazifascismo – preceduto dai commenti "revisionistici" su Yalta – George W. Bush abbia incontrato, passeggiando nel giardino del suo ranch texano a Crawford, il principe della corona Abdullah ibn Saud, nipote dell’interlocutore di Roosevelt. Avranno parlato di caro petrolio (Bush padre aveva un problema diverso, premeva sui sauditi quando i prezzi erano divenuti troppo bassi) e di altro. Si saranno intesi meglio?
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